Dialogo, avanti con prudenza

rav riccardo di segni thumbIl Dialogo va avanti, ma non può essere fatto solo di gesti simbolici. Per questo il giornale dell’ebraismo italiano nel suo numero di marzo in distribuzione dà spazio alle riflessioni del rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni riguardo a un recente documento della Commissione vaticana per i rapporti con l’ebraismo. Molteplici i temi affrontati nel documento: dall’impatto della dichiarazione conciliare allo statuto teologico del dialogo ebraico-cattolico; dalla relazione tra Antico e Nuovo Testamento al mandato evangelizzatore della Chiesa in relazione all’ebraismo.

Oltre all’intervento del rav, numerose le pagine del giornale dedicate al futuro del Dialogo. A dicembre è comparso sul tema dei rapporti ebraico cristiani un importante documento redatto dalla Commissione per i rapporti con l’ebraismo del Vaticano (“Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili” (Rm 11,29) Riflessioni su questioni teologiche attinenti alle relazioni cattolico-ebraiche in occasione del 50º Anniversario di Nostra aetate (n. 4). Il documento ha sollevato giustamente molta attenzione; i commenti e le reazioni “a caldo” sono stati numerosi e di diverso orientamento. In questa nota si vuole proporre una sintesi informativa per il pubblico meno addetto, con qualche riflessione dal punto di vista di un rabbino italiano. Il documento vaticano è una sorta di bilancio e sintesi su quanto è stato fatto dalla Chiesa cattolica negli ultimi cinquanta anni a partire dalla Nostra Aetate, soprattutto dal punto di vista teologico, nella definizione di come la Chiesa interpreta il ruolo dell’ebraismo e come debba di conseguenza rapportarsi ad esso. Si tratta di un documento molto importante perché rappresenta il punto di arrivo di una lunga strada, ma anche il punto di partenza per gli sviluppi futuri. Trattandosi di una riflessione teologica interna al mondo cristiano, l’osservatore esterno che la segue con attenzione è tenuto al rispetto e alla non interferenza. Quando tuttavia le decisioni che ne derivano hanno un impatto sull’altra parte, è inevitabile essere coinvolti e fare dei commenti per le conseguenze previste. Sotto questo aspetto gli elementi importanti di questo documento, di cui si riportano le citazioni essenziali, sono:

L’interpretazione del rapporto
originale tra ebraismo
e cristianesimo

L’humus di ebrei e cristiani è l’ebraismo del tempo di Gesù, che ha dato origine non solo al cristianesimo, ma anche all’ebraismo rabbinico postbiblico successivo alla distruzione del Tempio nel 70 d.C. L’ebraismo e la fede cristiana, così come sono presentati nel Nuovo Testamento, sono due modi in cui il popolo di Dio può far proprie le Sacre Scritture di Israele. Le Scritture che i cristiani chiamano Antico Testamento sono dunque aperte ad entrambi i modi. Una risposta alla Parola salvifica di Dio che sia conforme all’una o all’altra tradizione può dunque dischiudere l’accesso a Dio:… La Torah e Cristo sono il luogo della presenza di Dio nel mondo, nel modo in cui tale presenza è sperimentata nelle rispettive comunità di culto. Il termine ebraico dabar significa sia parola che evento – e ciò potrebbe suggerire che la parola della Torah può aprirsi all’evento di Cristo.
È in un certo senso il modello che qualcuno definisce a Y, con riferimento alla forma della lettera maiuscola y in cui una linea retta si biforca in due rami simmetrici. Da una radice comune nascono l’ebraismo rabbinico e il cristianesimo. Per la cristianità è certamente un progresso rispetto al modello classico in cui l’ebraismo successivo a Gesù non ha più dignità. Ora si manifesta un rispetto sostanziale per l’ebraismo “rabbinico”; ma il quadro interpretativo generale, come si vedrà più avanti, non è di parità, ma è visto tutto sotto l’ottica dell’evento salvifico cristiano; e questo ridimensiona l’impressione di tolleranza e parità che si potrebbe avere a prima vista. Cosa comporti questo nei nostri rapporti lo vedremo più avanti. Ma va spiegato anche che questo non è il modo tradizionale in cui l’ebraismo si guarda e definisce se stesso, considerandosi come l’unica evoluzione organica dalle antiche radici, in cui la Toràh orale è l’unica integrazione possibile con la Toràh scritta. Nella definizione dell’altro, e della cristianità in particolare, le definizioni sono diverse e complesse.

La teoria della sostituzione
e il “nuovo” popolo di D.

La teoria classica dichiarava che il popolo ebraico aveva ormai esaurito la sua funzione, ed era stato sostituito dalla Chiesa, che si definiva Verus Israel. Documenti più recenti, tra cui la Nostra Aetate, hanno parlato di nuovo popolo di Dio (Nostra Aetate evitava di menzionare il nome di Israele), lasciando però margini di dubbio sull’entità e il ruolo dell’Israele Antico (sostituito dal nuovo?); lo stesso cardinale Bea, redattore della Nostra Aetate, pensava alla fine del ruolo dell’Antico Israele. Gli sviluppi dottrinali recenti vanno in una direzione differente e così vengono ora riassunti:
Mentre mantiene salda l’idea della salvezza attraverso una fede esplicita o anche implicita in Cristo, essa [la Chiesa] non rimette in discussione l’amore costante di Dio per Israele, suo popolo eletto. Viene così delegittimata la teologia della sostituzione che vede contrapposte due entità separate, una Chiesa dei gentili e una Sinagoga respinta e sostituita da tale Chiesa. …. La Chiesa è chiamata il nuovo popolo di Dio (cfr. “Nostra aetate”, n. 4), ma non nel senso che Israele, il popolo di Dio, ha cessato di esistere. … La Chiesa non sostituisce Israele, popolo di Dio, poiché, in quanto comunità fondata in Cristo, rappresenta in Cristo il compimento delle promesse fatte a Israele. Ciò non significa che Israele, non essendo pervenuto a tale compimento, non debba più essere considerato come il popolo di Dio.
Sembrerebbe di capire da queste righe, che non sono di facile comprensione, che Israele, nel senso di popolo ebraico, è e rimane popolo di Dio. La Chiesa rappresenta il compimento delle promesse fatte ad Israele ma se Israele non è arrivato al compimento non perde la qualifica di popolo di Dio. La non facilità di comprensione non dipende solo dal modo in cui i concetti sono espressi, ma dalla difficoltà teologica di comprensione della originalità ebraica, che nel documento, come si vedrà più avanti, viene risolta con il concetto di mistero.

La riscoperta dell’esegesi
rabbinica e lo scopo del dialogo:

… si profilarono due risposte a questa situazione o, per meglio dire, due nuovi modi di leggere le Scritture, ovvero l’esegesi cristologica dei cristiani e l’esegesi rabbinica di quella forma di ebraismo che ebbe uno sviluppo storico….Dopo secoli di contrapposizioni, il dovere del dialogo ebraico-cattolico è ora quello di far interloquire tra loro questi due nuovi modi di leggere le Scritture bibliche, per individuare la “ricca complementarietà” laddove esiste ed “aiutarci vicendevolmente a sviscerare le ricchezze della Parola”.
Praticamente c’è un invito allo scambio reciproco di informazioni e conoscenze: i cristiani dovrebbero conoscere l’esegesi rabbinica e gli ebrei quella cristologica. Ho qualche dubbio sulle disponibilità del mondo ebraico ortodosso a questa apertura, oltre a cerchie specialistiche molto ristrette di studiosi. Indisponibilità dettata dalla diffidenza secolare verso l’esegesi cristologica, veicolo di messaggi di evangelizzazione e conversione e considerata una deviazione dall’ambito delle letture accettabili. Per un ebreo ortodosso la scienza si deve apprendere da chiunque la possieda, ma la Toràh solo da chi la ha accettata, la vive e la mette in pratica. Qui c’è un nodo teologico ebraico difficile da risolvere.

L’olivo selvatico
Il documento si ricollega all’immagine di Paolo dell’innesto dell’olivo selvatico (“oleastro”) nell’olivo originale (Rm 11,16-21) per spiegare il rapporto tra Israele la Chiesa.
Questa immagine è per Paolo la chiave decisiva per interpretare la relazione tra Israele e la Chiesa alla luce della fede. Con questa immagine, Paolo esprime la duplice realtà dell’unità e della differenza tra Israele e la Chiesa. Da un lato, questa immagine deve essere compresa nel senso che i rami selvatici innestati non sono all’origine i rami della pianta nella quale vengono innestati; la loro nuova situazione rappresenta una nuova realtà e una nuova dimensione dell’opera salvifica di Dio, tanto che la Chiesa cristiana non può essere semplicemente intesa come un ramo o un frutto di Israele (cfr. Mt 8,10-13). Dall’altro lato, questa immagine deve essere compresa anche nel senso che la Chiesa trae nutrimento e forza dalla radice di Israele e i rami innestati avvizzirebbero o addirittura morirebbero se fossero recisi da tale radice (cfr. “Ecclesia in Medio Oriente”, n. 21).
Quello che però non viene detto in questo commento è che nell’immagine di Paolo l’innesto dell’oleastro non è un’aggiunta ma una sostituzione perché i rami dell’Israele originario vengono recisi dalla pianta “e se non persevereranno nell’infedeltà saranno anch’essi innestati” (vv. 17-23). Quindi solo se accetteranno la nuova fede saranno ricollegati alla pianta originale. L’esegesi proposta nel documento vaticano seleziona in positivo solo una parte dell’immagine. Non spetta a noi decidere se questa esegesi sia corretta. Ma bisogna vedere se potrà essere condivisa nel mondo cristiano.

La salvezza e la conversione
degli ebrei

La Chiesa e l’ebraismo non possono essere presentati come “due vie parallele di salvezza” e… la Chiesa deve “testimoniare il Cristo Redentore a tutti” (n. I,7). La fede cristiana confessa che Dio vuole condurre tutti gli uomini alla salvezza, che Gesù Cristo è il mediatore universale della salvezza e che non vi è “altro nome dato agli uomini sotto il cielo nel quale è stabilito che possiamo essere salvati” (At 4,12). Il fatto che gli ebrei abbiano parte alla salvezza di Dio è teologicamente fuori discussione, ma come questo sia possibile senza una confessione esplicita di Cristo è e rimane un mistero divino insondabile. Bernardo di Chiaravalle (De consideratione III/I,3) dice che per gli ebrei “è stato fissato un tempo che non può essere anticipato”. … La Chiesa crede che Cristo è il Salvatore di tutti. Non possono dunque esserci due vie di salvezza, poiché Cristo è il redentore degli ebrei oltre che dei gentili.
Dunque gli ebrei, anche se non credono in Cristo hanno parte della salvezza, e come questo sia possibile rimane un mistero della fede. Rispetto a questo problema vi erano altre due possibilità: l’esclusione degli ebrei dalla salvezza, come era stato detto in
passato, o l’ammissione della legittimità della via ebraica secondo la Toràh come via autonoma verso la salvezza. Nessuna di queste due soluzioni è stata accettata e la contraddizione derivante dalla soluzione adottata è stata “risolta” sotto forma di mistero. Le difficoltà di questa soluzione sono state così riassunte (in un’intervista a www.rosspoporpora.org del 23/1/2016) dal card. Koch, presidente della commissione che ha firmato il documento:
Il problema teologico resta nel senso che non è facile conciliare l’irrevocabilità dell’alleanza del popolo ebraico con Dio e la nostra convinzione che con la venuta di Gesù Cristo si è verificato nella storia qualcosa di nuovo, di fondamentale, di cui è necessario tener conto. Non sono convinto che fin qui si sia trovata sull’argomento una soluzione soddisfacente per ambo le parti.
Bisogna però precisare che quando ebrei e cristiani parlano di salvezza parlano di cose differenti, e quindi l’idea che per gli ebrei possa esserci o meno la salvezza di Cristo o che questa comunque arrivi anche se non ci si crede, non interessa più di tanto l’ebraismo. Salvo che per quanto riguarda la conseguenza pratica di queste premesse, l’atteggiamento che il cristiano deve avere verso l’ebreo per procuragli la salvezza.
Qui ci troviamo davanti al mistero dell’agire divino, che non chiama in causa sforzi missionari volti alla conversione degli ebrei, ma l’attesa che il Signore realizzi l’ora in cui tutti saremo uniti…. La Chiesa deve dunque comprendere l’evangelizzazione rivolta agli ebrei, che credono nell’unico Dio, in maniera diversa rispetto a quella diretta a coloro che appartengono ad altre religioni o hanno altre visioni del mondo. Ciò significa concretamente che la Chiesa cattolica non conduce né incoraggia alcuna missione istituzionale rivolta specificamente agli ebrei. Fermo restando questo rifiuto – per principio – di una missione istituzionale diretta agli ebrei, i cristiani sono chiamati a rendere testimonianza della loro fede in Gesù Cristo anche davanti agli ebrei; devono farlo però con umiltà e sensibilità, riconoscendo che gli ebrei sono portatori della Parola di Dio e tenendo presente la grande tragedia della Shoah.
È uno dei passaggi più significativi del documento. È stato interpretato mediaticamente come la rinuncia della Chiesa alla evangelizzazione e alla conversione degli ebrei. In realtà non è proprio così, si rigetta la missione istituzionale ma l’evangelizzazione rimane. Per quanto ne consegue, come ebrei non possiamo certo chiedere che il cristiano che si rivolge a noi rinunci a proclamare la sua identità e la sua fede, ma se nell’approccio dialogico c’è un intento di evangelizzazione anche se non istituzionale, questo deve essere respinto. E non si capisce il riferimento finale alla Shoah, unico nel documento, a questo punto del discorso. Se l’incomprensione delle nostre specificità ha avuto, come certamente ha avuto, un peso importante nel determinare le persecuzioni della storia culminate nella Shoah, non basta chiedere all’interlocutore cristiano un atteggiamento di umiltà e sensibilità (che tutti dovremmo avere nel rapportarci agli altri), ma serve comprensione e rispetto fondamentale della differenza. Un rispetto della differenza che sembra mancare nella visione globalizzante sotto il nome di Cristo, più volte ribadita nel documento e che alla fine viene espressa in questa frase:
il ruolo permanente del “popolo dell’Alleanza di Israele” nel piano salvifico di Dio deve essere rapportato in maniera dinamica al “popolo di Dio composto da ebrei e gentili uniti in Cristo” [virgolettato originale].

La terra e lo stato d’Israele

Non vengono ignorati, ma il riferimento più importante riguarda la situazione dei cristiani in Israele.
Prerequisito di tale dialogo e di tale pace è la libertà di religione garantita dalle autorità civili. Al riguardo, il banco di prova consiste nel modo in cui le minoranze religiose sono trattate e in quali diritti vengono loro concessi. Nel dialogo ebraico-cristiano, di grande rilevanza è la situazione delle comunità cristiane nello Stato di Israele, poiché là – come in nessun altro luogo al mondo – una minoranza cristiana si trova davanti ad una maggioranza ebraica. La pace in Terra Santa – una pace che manca e per la quale si prega costantemente – svolge un ruolo considerevole nel dialogo tra ebrei e cristiani.
È un problema importante, è giusto che se ne parli, e che i diritti dei cristiani siano tutelati, ma appare strano che per quanto riguarda terra e stato d’Israele solo questo sia il punto sollevato in una trattazione teologica. Ciò discende da quanto detto nelle premesse del documento, in cui si nega un significato religioso dello Stato:
Per quanto concerne l’esistenza dello Stato d’Israele e le sue opzioni politiche, essi vanno visti in un’ottica che non sia di per sé religiosa, ma che si richiama ai principi comuni del diritto internazionale.

In conclusione
Il documento registra i notevoli progressi compiuti in questi cinquanta anni, sul ruolo di Israele nella percezione della Chiesa. L’ebraismo “rabbinico” è secondo questo documento uno degli sviluppi possibili e legittimi dalle antiche radici, ma deve essere visto nella prospettiva salvifica cristiana; gli ebrei rimangono popolo di Dio che ha parte nella salvezza, anche se non credono, e nei loro confronti non ci deve essere missione istituzionale. Il nodo fondamentale della differenza ebraico-cristiana viene spiegato, o meglio non spiegato ma esposto sotto forma di mistero di fede. Il rapporto religioso ebraico con la terra e lo stato d’Israele non viene preso in considerazione. Ora non spetta agli ebrei commentare le difficoltà teologiche interne del mondo cristiano quanto piuttosto riferirsi alle loro conseguenze pratiche; qui i significativi progressi sono comunque segnati da un’ombra di dubbio, data dalla visione totalizzante della salvezza cristiana e della necessità comunque di proclamarla ed evangelizzare; e c’è il dubbio che non risolvendo in modo logico e convincente le difficoltà dottrinali (come mai gli ebrei restano popolo di Dio e sono salvati anche se non credono), ma affidandole al piano misterioso della fede, l’intero impianto sia fragile e non abbia la forza di penetrazione presso il vasto pubblico. Per quanto riguarda poi la risposta ebraica ortodossa, il documento pone delle difficoltà, perché non è condivisibile l’interpretazione della natura dell’ebraismo rabbinico che il documento propone, l’approccio di evangelizzazione seppure umile e sensibile, e alcuni aspetti dell’agenda del dialogo. Come da sempre il dialogo ebraico cristiano continua ad essere un laboratorio di ricerca dove ogni elemento di novità significativa apre nuove frontiere e discussioni.

Riccardo Di Segni, rabbino capo di Roma

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(29 febbraio 2016)