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10 aprile 2016 - 2 Nissan  5776
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la decisione della corte suprema sui tribunali religiosi privati

Conversioni all'ebraismo, matrimoni, divorzi,
il monopolio del Rabbinato centrale in crisi

img header“Un duro colpo al monopolio del Rabbinato centrale. Così diversi quotidiani israeliani hanno definito la recente sentenza della Corte suprema israeliana in merito alle conversioni all'ebraismo (ghiurim in ebraico). Secondo i giudici, le persone che si sono convertite sotto il controllo di qualsiasi corte rabbinica ortodossa, in Israele come all'estero, devono essere riconosciute come ebree e hanno quindi diritto a ricevere la cittadinanza israeliana, come stabilito dalla Legge del Ritorno. “Qualsiasi corte” significa anche i tribunali religiosi (ortodossi) che non sono sotto il controllo del Rabbinato centrale. Quest'ultimo fino ad oggi aveva il monopolio assoluto sulle conversioni: senza il suo benestare, i ghiurim non sono considerati validi. Se non sono validi, le persone che hanno seguito il percorso di conversione non possono avvalersi della Legge del Ritorno. Ed è proprio qui il punto: da tempo una parte del mondo ortodosso è fortemente critico nei confronti del Rabbinato centrale perché considerato troppo rigido sulle conversioni. Tanto che un gruppo consistente di rabbini ortodossi, appartenente al movimento sionista religioso, meno di un anno fa ha deciso di creare dei tribunali autonomi che si definiscono “più aperti alle necessità delle persone”. Ora la sentenza della Corte suprema chiede di fatto di riconoscere il loro operato, depotenziando il ruolo del Rabbinato centrale e, secondo alcuni, aprendo anche ad altri scenari.

Daniel Reichel

(Nell'immagine, la foto pubblicata da Haaretz di una Corte rabbinica riunita per una conversione)

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Fuggito dall’Iran, il poeta Payam Feili racconta la sua scelta di vita

"Volevo la libertà, l’ho trovata a Tel Aviv"

img header“Ci sono luoghi nei quali tutti sembrano più belli e più sereni, e il bianchissimo spazio di fronte al teatro HaBima a Tel Aviv è uno di questi. La luce è radente, il rettangolo di acqua quieta guarda verso il giardino di fiori, anche lui quadrato, in cui suona sempre musica classica o jazz, e placido è il movimento delle persone che entrano o escono da teatro o da un concerto, e si fermano a parlare o a bere qualcosa nei caffè lungo il perimetro della piazza. Payam Feili dovrebbe viverci, in questa piazza. La sua personalità, la sua calma interiore e il suo aspetto curato riflettono la perfezione della fontana orizzontale e dello spazio intorno. Un rifugiato, nelle immagini che tutti abbiamo davanti in questo inizio di millennio fatto di migrazioni, è qualcuno che anche dopo aver ripreso una apparenza ordinata avendo ricevuto cibo, permesso di soggiorno temporaneo e vestiti puliti, spesso mantiene tutta l’urgenza della sua fuga in un luogo definito: negli occhi. Raramente guarda diritto in faccia: preferisce tenere gli occhi bassi, attenti al lavoro che sta facendo, e risponde a monosillabi. Payam Feili di mestiere fa lo scrittore e non è quel genere di rifugiato. Alto e sottile, l’incarnato leggermente olivastro, i capelli lisci in perfetto equilibrio fra sale e pepe, elegante per natura nell’abbigliamento semplice, ma di qualità. Ha una stella di Davide netta tatuata sul collo, sotto l’orecchio destro. Guarda diritto negli occhi, gesticola con moderazione, e quando meno ce lo si aspetta sorride, un sorriso bianco e pieno ma modesto, senza la chutzpa di quello che ce l’ha fatta. Eppure, si può proprio dire che ce l’abbia fatta. È riuscito a far pubblicare un suo libro in Iran, in pieno regime islamico, nonostante i temi apertamente omosessuali che tratta. È riuscito a superare un certo numero di arresti. È riuscito ad arrivare prima in Turchia e da lì in Israele, il luogo nel quale ha da sempre voluto vivere. È riuscito ad ottenere un visto di residenza temporaneo facendo appello al ministro della Cultura e al ministro degli Interni. In interviste precedenti ha tratteggiato, senza troppo entrare nei dettagli, il clima di oppressione nel quale ha vissuto fino a pochi mesi fa: la sua doppia infedeltà di intellettuale omosessuale che apertamente ammira Israele ha causato ricorrenti licenziamenti suoi e di suoi famigliari, e almeno tre suoi arresti negli anni dopo la pubblicazione del suo primo libro nel 2005. I suoi libri di poesia successivi sono stati pubblicati in lingua originale, in inglese e in altre lingue, ma fuori dall’Iran.

Che vita fai da quando sei in Israele?

Mi sveglio in tarda mattinata e scrivo per diverse ore. Poi incontro amici e la sera talvolta incontro giornalisti. Ogni giorno parlo a lungo con la mia famiglia in Iran attraverso skype.

Solo con la famiglia? Gli amici di tutta la prima parte della tua vita non li senti?

No, parlo solo con familiari. Non sono una persona popolare in Iran, e gli amici e colleghi si sono allontanati, negli ultimi dieci anni, dopo la pubblicazione del primo libro. La gente non vuole entrare in contatto con me ed esporsi così a problemi con il regime. Non c’è la sicurezza necessaria. Ma il salto è stato dopo il 2010, con la pubblicazione del romanzo a Berlino: a quel punto si è fatto il vuoto intorno. Ero ancora in Iran, ma mano a mano che diventavo conosciuto all’estero, nel mio paese ero lasciato solo. Solo la mia famiglia mi è sempre rimasta vicina.

Daniela Fubini

(Disegno di Giorgio Albertini) 

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addio al nanismo hightech, il nuovo trend delle aziende israeliane

Le piccole start-up crescono, finalmente

img headerQuando nel 2013 l’applicazione Waze era stata venduta dai fondatori israeliani al colosso Google per oltre un miliardo di dollari, la reazione dei commentatori era stata ambivalente: da un lato l’orgoglio per avere creato dal nulla un “gioiello” di inestimabile valore commerciale, dall’altro il dispiacere per l’ennesima “uscita precoce” (exit) di imprenditori israeliani dalle loro aziende nel settore high tech: in altre parole, fino a pochi anni fa il “nanismo” del settore high tech israeliano e l’assenza di “campioni nazionali” (come Nokia in Finlandia) era motivo di preoccupazione, soprattutto perché il nanismo impedisce a Israele di beneficiare di ricadute economiche e occupazionali che tali campioni portano con sé, grazie soprattutto all’indotto. Ma alcuni segnali fanno pensare che forse il settore high tech israeliano non è più condannato al nanismo. Come evidenziato di recente da una approfondita inchiesta del Financial Times, ci sono attualmente almeno 6 società high tech israeliane, di media dimensione, i cui proprietari puntano a crescere e non sono alla ricerca di acquirenti. Una di queste è Vonetize, che offre (come il gigante Netflix) video e film “on demand” in America latina, Africa e altri paesi emergenti e si sta per quotare in borsa; un’altra è Perion, un gruppo che si occupa di pubblicità digitale, quotato al Nasdaq e che nel 2015 ha conseguito ricavi per 300 milioni di dollari, con 660 dipendenti; Check Point è forse la più importante azienda di questo elenco, fondata da veterani dell’intelligence militare israeliana: è stata pioniera nel settore dei firewall (sistemi di protezione dei computer aziendali e domestici) e della sicurezza informatica, è quotata al Nasdaq e la sua capitalizzazione di mercato è di ben 14 miliardi di dollari; Mobileye è specializzata nei sistemi di locomozione basati su telecamere (le automobili che si “guidano da sole”) e al Nasdaq è quotata per un valore di 8 miliardi di dollari; infine Cyberark e Wix.com (la prima specializzata in sicurezza informatica, la seconda in sviluppo di siti web) sono quotate al Nasdaq con valori di mercato superiori al miliardo di dollari. Ovviamente non tutte le ciambelle vengono col buco: negli ultimi anni due importanti società del settore high tech sono fallite, una è Modu (specializzata in cellulari ultraleggeri), l’altra è Betterplace, specializzata in infrastruttura per autovetture elettriche

Aviram Levy, economista

(Nell'immagine, uno scorcio della mappa delle start-up presenti in Israele, consultabile sul sito https://mappedinisrael.com/)

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il medio oriente visto dagli usa

La Terra incompresa

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Entrare nel merito del profondo significato delle relazioni tra Israele e gli Stati Uniti, sia dal punto di vista politico sia culturale, vuol dire anche comprendere il ruolo che Washington ha giocato in una regione strategicamente cruciale come il medio oriente. Potrebbe sembrare, questa, una constatazione ovvia, ma non lo è, se si tiene conto del fatto che, dalla fine della seconda guerra mondiale e dalla nascita di Israele nel 1948, diverse Amministrazioni americane hanno ritenuto erroneamente che allentare le relazioni con Israele avrebbe significato una maggiore capacità da parte degli Stati Uniti di entrare in sintonia con il mondo arabo della regione. Il calcolo si è sempre rivelato sbagliato, con grave danno per la stessa Washington, come dimostra con grande capacità di analisi Dennis Ross nel suo recente “Doomed to Succeed: The U.S.-Israel Relationship from Truman to Obama”.



Antonio Di Donno, Il Foglio, 2 Aprile 2016
(Nell'immagine, il presidente Usa Richard Nixon assieme al Primo ministro israeliano Golda Meir e al diplomatico Henry Kissinger alla Casa Bianca)

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prima terrorista, oggi insegnante

A lezione di ebraico a Gaza

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"Tov", bene, dice l’insegnante alla sua classe di studenti di varia età dopo aver spiegato alla lavagna il significato della parola “meayin” (da dove). Una classe di lingua ebraica come un’altra, ma questo non è un posto come un altro. È Gaza, il fazzoletto di terra che ha visto quattro guerre con Israele negli ultimi dieci anni. Da qui partono quasi ogni notte, uno, due razzi verso il sud d’Israele. Tanto per ricordare che la partita, gli islamisti, non la considerano chiusa, ma solo temporaneamente sospesa. Siamo al sesto piano di un palazzone sulla Talafimi Street, a quattro passi dall’Università Al Quds, che ospita il Nafha Center per lo studio della lingua ebraica. A guidarlo c’è Ahmed Alfaleet, un uomo alto per la statura media dei palestinesi, con gli occhi chiari e mani grandi. Alfaleet è un ex guerrigliero della Jihad islamica che ha passato vent’anni nelle carceri israeliane di massima sicurezza, venne liberato nel 2011 nell’ambito dello scambio di 1000 prigionieri con il soldati israeliano Gilad Shalit.

Fabio Scuto, Repubblica 6 aprile 2016





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