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21 luglio 2016 - 15 Tamuz 5776
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orizzonti

Francia: due accademici si scontrano
sulla natura del terrorismo

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“Cosa fa da propellente al terrorismo e agli attacchi contro la Francia è più di un dibattito accademico: la risposta dà forma alla politica per spuntare la minaccia. Dunque non è una faccenda da poco, in una cultura sotto attacco che per di più tiene in gran conto i dibattiti intellettuali, che i due più importanti studiosi di Islam radicale – un tempo amici – siano diventati acerrimi rivali per via delle loro visioni differenti”. Il 12 luglio, solo due giorni prima della strage di Nizza, il New York Times pubblicava un articolo dedicato a un tema che già toglieva il sonno a Parigi e non solo: quale natura, quali motivazioni, spingono gli autori delle efferate stragi terroriste che stanno insanguinando l’Europa e il mondo.
I due in questione sono Gilles Kepel, professore alla prestigiosa Sciences Po, e Olivier Roy, che insegna al European University Institute di Firenze. Guardando alle stragi degli ultimi mesi, siamo di fronte alla radicalizzazione dell’Islam, o all’islamizzazione del radicalismo?

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L’intervista a Shmuel Trigano
“Svegliamoci. E in fretta”

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Ci hanno detto che siamo in guerra. Ci hanno detto che ognuno di noi è un bersaglio. Ci hanno detto che siamo a una svolta, che la Storia sta scrivendo una nuova drammatica pagina sotto i nostri occhi. Ci hanno detto che un nuovo continente, sconosciuto e pericoloso, sta per emergere. Dobbiamo crederci o dobbiamo continuare come se niente fosse le nostre esistenze? Quali misure dobbiamo adottare, cosa dobbiamo attenderci dal futuro?
Sono questi in effetti tempi difficili e pericolosi. Ma soprattutto sono tempi difficili da interpretare. Molti intellettuali ebrei francesi, soprattutto il filosofo Alain Finkielkraut e lo storico Georges Bensoussan, li avevano preannunciati tentando di rompere un muro di incoscienza e di malafede, o forse solo di fastidio nei confronti di chi vuole chiamare le cose con il proprio nome. Ma pochissimi hanno analizzato le cause delle ferite di Parigi e della solitudine degli ebrei in Europa nelle loro radici profonde come il sociologo Shmuel Trigano. Pochi sono oggi in grado di dire cosa sta davvero cambiando, cosa non sarà mai più come prima e cosa ci attende.

Guido Vitale, Pagine ebraiche, gennaio 2016

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Verso il 17 di Tamuz

Lo storico compromesso

img headerI nostri Maestri si sono sforzati di trovare in avvenimenti della Torah la fonte più antica di istituzioni assai più tarde. Un caso di questo genere è il Digiuno del 17 Tammuz, che apre le tre settimane estive di lutto. La Mishnah (Ta’anit 4,6) elenca cinque eventi tragici avvenuti in questa data e il più antico è la rottura delle Tavole della Legge da parte di Moshe a seguito della colpa del Vitello d’Oro. Mi domando: quali sono le responsabilità di questa gravissima trasgressione che tante conseguenze negative ha avuto per il nostro popolo? In particolare, qual è il significato del versetto che dice: “...il vitello che aveva fatto Aharon” (Shemot 32,35)? Come può il fratello di Mosheh aver permesso un fatto simile? Un’altra Mishnah (Meghillah 4,10), riferendosi all’uso più antico di accompagnare con una traduzione aramaica (Targum) la lettura pubblica della Torah affinché il pubblico di allora comprendesse meglio il senso del testo, scrive che quando si giungeva a questi versetti ci si asteneva dal tradurli per pudore! Tutto cominciò quando Mosheh fu chiamato sul Monte Sinai per ricevere la Torah: nominò suoi sostituti il fratello Aharon e il nipote Chur, figlio di sua sorella Miriam, dicendo che “chi avesse avuto contese avrebbe potuto rivolgersi a loro” (Shemot 24,14). Insomma, li nominò giudici al suo posto (Rashì ad loc.). Come mai solo di Aharon si continuerà a parlare in seguito, mentre di Chur si perdono le tracce? Il Midrash spiega che quando la “gran moltitudine” avanzò la richiesta di una divinità alternativa si rivolse per prima cosa a Chur, che dei due era il più giovane sperando forse in una maggiore malleabilità. Ma Chur negò il permesso e per conseguenza fu ucciso.

Alberto Moshe Somekh, rabbino

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Il «depresso» di Nizza
e i fanatici dell’Apocalisse  

Da più parti, nei giornali e tra i commentatori solitamente più inclini a separare il terrorismo dalla sua matrice religiosa islamica, si sottolinea con malcelato sollievo che lo stragista jihadista di Nizza pare fosse un «depresso», un asociale, un folle insomma. Come se fosse più rassicurante attribuire la carneficina al gesto di uno psicopatico. Come se, soprattutto, una personalità disturbata, clinicamente incline alla depressione nientemeno, contribuisse ad annullare, o comunque a lasciar sbiadire, la matrice ideologico-religiosa di un atto terroristico così infame. Come se il fanatismo assoluto, la consacrazione di sé a una Causa santa che prevede il martirio e lo sradicamento del Male attraverso il sacrificio di innumerevoli esseri umani non fosse, appunto, una formidabile e sanguinaria risposta al banalissimo male di vivere, all’insignificanza della vita, al vuoto dell’esistenza, a un’umanità affamata di significati da servire con dedizione intransigente.

Pierluigi Battista, Corriere della Sera
19 luglio 2016


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Isis, quel marchio che scatena l'emulazione   

Attacchi, organizzati o spontanei, che si alimentano a vicenda. II pendolo del terrore dello Stato islamico è tornato a oscillare in modo frenetico. Il massacro di Nizza ha innescato nuovi lupi solitari. Le rivendicazioni, il richiamo «all'appello» lanciato dal Califfo due mesi fa, che invitava a colpire i Paesi «crociati» colpevoli di compiere raid sulle città controllate dall'Isis, sono un'ulteriore motivazione. Una strategia ibrida per unire in un'unica rete «soldati» effettivamente addestrati e indottrinati e altri fai-da-te. Con il «marchio Isis» che arriva dall'agenzia ufficiale Aamaq a inquadrarli nell'offensiva estiva contro l'Occidente. E questo nonostante una certa ripetitività del linguaggio, la scarsità di materiale originale, indichino come anche la macchina della propaganda sia sotto pressione e con il fiato corto. Soldati e mujaheddin In ogni caso, in cinque attacchi «il marchio» ha giocato un ruolo importante.


Giordano Stabile, La Stampa
20 luglio 2016


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Shir Shishi - una poesia per erev shabbat

"Mamma, traducile quel che dico"

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Come preannunciato, anche questo Shir Shishi tocca l’esistenza “Mizrahi”. Alon Bar è un giovane poeta al suo primo volume, dunque la presentazione al pubblico è estremamente importante e altrettanto conta la reazione della cerchia più vicina a lui, ovvero la famiglia. Rischierei di cadere nel cliché se scrivessi che la reazione dei parenti stretti di fronte al primo lavoro letterario, nello specifico in Israele, riscuote una reazione identica che si tratti di ashkenaziti, sefarditi, femministe o gay. Alon Bar ha pubblicato il suo primo libro di poesie rompendo due barriere, quella dell’identità levantina (Mizrahi) e quella gay, in ebraico, “homo”. “Ancora oggi”, scrive Ines Alias su Ha’aretz, ”i gay mizrahim in Israele non sono organizzati in gruppi sociali”. Per questione di pudore, di paura di raccontare alla mamma che attende ansiosa il matrimonio e i nipoti, o perché è difficile raccontare alla zia. O forse perché gli stessi mizrachim sono solo all’inizio del processo di identificazione come gruppo.

Mamma, traducile quel che dico –
“Ibni* Alon è homo”.
Mamma, diglielo ancora una volta –
Ibni Alon è homo.
Ah! ya mamma! quanto questa parola
si rotola bene sulle tue labbra.
Dille ancora una volta -
Ibni Alon è homo.
Diglielo ancora mamma,
affinché io mi abitui, affinché
ami udire il mio nome intonato e
non solo tra i tuoi occhi.
Ancora, mamma.

(*Ibni – in arabo, mio figlio)

Alon Bar, Ogni giorno una cosa cade, Halikon, 2016


Sarah Kaminski, Università di Torino

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