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29 agosto 2016 - 25 Av 5776
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l'ebraista giulio busi protagonista a roma e milano, la città capofila

"La Cultura? È un'arma contro il pregiudizio”

img headerGiulio Busi è tra i maggiori esperti e divulgatori di cultura ebraica in Italia. Ha insegnato per anni all’Università Ca’ Foscari di Venezia, e attualmente è professore alla Freie Unirsitaet di Berlino, dove dirige l’Istituto di Giudaistica. Ha pubblicato diversi libri di argomento ebraico, in particolare il suo interesse è rivolto alla mistica ebraica. Sul Sole 24 Ore tiene una seguitissima rubrica di “Judaica”.
Sarà tra i principali ospiti della prossima Giornata Europea della Cultura Ebraica, prima a Roma, in dialogo con il rabbino capo della città rav Riccardo Di Segni, e poi a Milano, città capofila dell’edizione di quest’anno, dove si confronterà con rav Roberto Della Rocca, direttore dell’area Cultura
e formazione dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, e Sara Ferrari, traduttrice e docente di Lingua e cultura ebraica all’Università degli Studi di Milano, sul tema “Le parole ebraiche nell’arte, nella letteratura e nella Bibbia”.

Professor Busi, le parole, in particolare le parole scritte, hanno una fondamentale importanza per il Popoloebraico. Che valenza ha questo aspetto peculiare dell’ebraismo?
Nella cultura ebraica questa ipertrofia della dimensione scritta salta agli occhi: anche se in tutte le culture letterate la lingua è uno degli elementi distintivi, il giudaismo ha la lingua e il testo quale elemento fondativo e di continuità. Un testo dal quale si irradia tutto il resto, un racconto scritto che è al centro di un’intera cultura. E che si può portare con sé nella diaspora, imparare a memoria, trasmettere di generazione in generazione.

In occasione della Giornata lei interverrà sia a Milano, città capofila, che a Roma, in conversazione con il rav Riccardo Di Segni. Ci può anticipare qualcosa?
A Roma vorrei focalizzare la mia attenzione in particolare sul Sefer Yetzirà, che è un libro mistico, una sorta di sistema per la conoscenza del cosmo, al contempo preciso e stringato come un testo scientifico.
Potremmo definirlo un testo a metà tra poesia e scienza. Un mondo a sé, molto enigmatico, una vera e propria finestra sull’universo. A Milano, pensavo di parlare della ricerca sul simbolismo nel pensiero ebraico, partendo da un libro che ho scritto qualche anno fa (Simboli del pensiero ebraico. Lessico ragionato in settanta voci. Einaudi, 1999 ndr). Visto che nella tradizione ebraica, com’è noto, c’è poca raffigurazione visiva, si è verificato un grande sviluppo dell’iconicità delle parole, con termini di
riferimento che vengono visualizzati, ripetuti, e che fanno da leit motiv. Ho cercato di seguire lo sviluppo di questo fenomeno dalla Torah fino all’800, alla tradizione chassidica polacca, per vedere come queste parole diventano punti di riferimento, e come variano nel tempo e nei diversi contesti.
 

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comunità ebraica di Roma, l’assessore alla Cultura giorgia calò

"Tema complesso, ci ha subito affascinati”

img headerGiorgia Calò (nella foto) si occupa di arte contemporanea da oltre quindici anni. Critica a storica dell’arte, ha curato mostre e portato in Italia molti artisti da Israele. È assessore alla cultura della Comunità ebraica di Roma dal luglio 2015. Con l’Archivio storico della Comunità (ASCER) e il Centro di Cultura Ebraica ha ideato il programma della Giornata del prossimo 18 settembre.

Il tema di quest’anno, “Lingue e dialetti ebraici”, è tanto affascinante quanto di non semplicissima comprensione: il pubblico mainstream rischia di non comprendere subito di che si parla. Come avete affrontato l’argomento?
Il tema ci è piaciuto molto, proprio perché impegnativo: ci piace affrontare nuove sfide, anche complesse.
Abbiamo cercato di realizzare un programma ampio, che comprendesse concerti, spettacoli, mostre, simposi e momenti di intrattenimento. Partiamo il sabato sera con un concerto di Eyal Lerner, incentrato sul ladino, il judeo espanol parlato dai sefarditi, e chiudiamo la sera della domenica con uno spettacolo in giudaico romanesco. In mezzo, ci sono mostre d’arte, visite guidate e tanti momenti di cultura e approfondimento, che possano restituire il “melting pot” di cui è fatto l’ebraismo italiano, che comprende anche le culture sefardita, aschenazita e altre influenze.

Partiamo da Eyal Lerner: in cosa consiste il suo “Lingua madre”?
Eyal Lerner è uno straordinario artista israeliano, si è già esibito su diversi palcoscenici in Italia. Nei suoi spettacoli mischia linguaggi musicali: la cifra della serata sarà il judeo‐espanol, ma si alterneranno canti in yiddish, pezzi in inglese e in ebraico moderno. L’omaggio alla cultura sefardita emergerà anche dalle proiezioni dietro di lui: dieci micrografie del Codice di Barcellona, un antico libro della Torah, risalente al 1325, appena restaurato dall’Ascer in collaborazione con l’Istituto Cervantes e l’Ambasciata d’Israele in Italia. Sono immagini straordinarie, ricordano un po’ i quadri di Tobia Ravà: le lettere ebraiche formano figure, una Menorah, uno Shofar e altre immagini miniate dagli scriba quasi sette secoli fa.
Sono previsti diversi approfondimenti sull’ebraico, oltre che sulle diverse declinazioni linguistiche e dialettali. Sì, di ebraico parleremo con Hora Aboaf, che darà una lettura più “cabbalistica”, e con rav Benedetto Carucci, la cui lezione sarà incentrata sul Talmud. Ma ci saranno anche approfondimenti sul giudaico romanesco, e in più il gruppo giovanile Haviu Et Hayom ha messo in piedi “Babele in rime”: i ragazzi distribuiranno testi di poesia ebraica, scritti in diverse lingue e dialetti. Ne approfitto per ringraziarli per il loro impegno: hanno fatto tutto da soli, dalle ricerche bibliografiche alla stampa dei testi
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dal dossier di pagine ebraiche dedicato a "lingue e linguaggi"

'Pronto, parlo con il rav? Mi aiuta ad aiutarla?'

img headerTimida, ma determinata come tutti quelli che hanno un compito da portare a termine, Giulia infine ha preso il coraggio a quattro mani, e composto quello 00972 che serviva per mettersi in contatto con un rabbino italiano che si trova a Gerusalemme. “Pronto? Parlo con il rabbino? Scusi, lei non mi conosce, ma io ho qui un suo testo che non riesco a comprendere. Potrebbe aiutarmi?”. Oggi è lei a raccontare l’episodio ai giornalisti di Pagine Ebraiche e a spiegare le sue emozioni, la sua inquietudine prima di affrontare uno sconosciuto, appartenente a un mondo a lei lontano, per di più un rabbino. “È andato veramente tutto per il meglio. Interlocutore simpatico, disponibile, spiritoso. Testo subito chiarito. Mi auguro che la traduzione sia stata all’altezza di quanto aveva scritto”. Giulia forse non se ne rende conto, ma nelle scorse settimane di lavoro non ha solo offerto alle istituzioni dell’ebraismo italiano un dono di enorme valore. Ha anche proposto l’esempio di quello che molti ebrei italiani dovrebbero fare più spesso: cercare il proprio rabbino e chiedere insistentemente di capire, di chiarire. Nella sua professione non esistono le mezze parole, e nemmeno parole dette a caso. La sua stagione è quella del primo confronto con il mondo del lavoro e la sua scuola è il prestigioso laboratorio dell’Università di Trieste frequentato da giovani provenienti da tutta Europa che forma oltre la metà degli interpreti e dei traduttori italiani nelle istituzioni internazionali. Il suo tirocinio ha scelto di svolgerlo, assieme ad altre quattro compagne di studi, a fianco della redazione giornalistica dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. Ora che l’estate si avvicina, e con la bella stagione la conclusione degli studi, volge al termine anche questa esperienza. img headerLa memoria ritorna alla primavera dello scorso anno, al momento del primo incontro in classe, proprio nel mitico edificio del Balkan dove oggi ha sede la Scuola traduttori e interpreti e che fu dato alle fiamme nell’azione squadristica che secondo gli storici segnò, nel 1920, l’annuncio del fascismo e dell’umiliazione dell’Europa. C’erano attesa e curiosità nell’aria, fra gli studenti della Scuola superiore traduttori e interpreti, la prima nella classifica del Censis che valuta la qualità della formazione accademica, mentre il direttore della redazione giornalistica dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Guido Vitale, saliva, accompagnato dalla professoressa Nadine Celotti e da Jose Francisco Medina Montero, docente della scuola e responsabile dei tirocini, la grande scala dell’edificio che è divenuto simbolo dell’Europa delle culture e delle genti. A pochi giorni dall’approvazione unanime da parte del Consiglio accademico della convenzione che segnava l’ingresso dell’Unione nel novero delle prestigiose istituzioni italiane e internazionali accreditate a gestire esperienze di formazione e tirocinio per i traduttori e gli interpreti di domani. “Qui dove quasi un secolo fa le fiamme appiccate dal primo squadrismo fascista divoravano vite, culture e speranze, aprendo la strada a tutti gli orrori e a tutte le sofferenze che seguirono – aveva detto ai ragazzi – oggi si studia per mettere in contatto i linguaggi del mondo. Dalla vostra prestigiosa scuola esce oltre la metà dei traduttori e degli interpreti italiani accreditati dalle organizzazioni internazionali. Nella vostra scuola si entra superando una selezione durissima e in molti casi la relazione fra candidati e ammessi tocca il rapporto dieci a uno. Oggi qui si apre l’opportunità di costruire una collaborazione utile ai giornali dell’ebraismo italiano realizzati da questa redazione, e in particolare al progetto plurilingue della International Edition, di Pagine Ebraiche, utile all’ebraismo italiano, ma necessaria anche e soprattutto alla società e alla democrazia, che nella cultura delle differenze, del pluralismo, della valorizzazione delle diversità possono trovare le uniche difese efficaci e l’unica strada praticabile per costruire assieme un futuro migliore”. Moltissime le domande, in questa prima presa di contatto con gli studenti, per conoscere più da vicino il lavoro della redazione e le opportunità di formazione, ma anche la storia e i valori testimoniati da oltre due millenni dagli ebrei italiani. Poi il momento di scegliere. Molti mesi di lavoro sono seguiti. Molti numeri del notiziario plurilingue Pagine Ebraiche International Edition sono usciti anche grazie all’impegno degli studenti che hanno deciso di partecipare. Questo testo serve per raccontare un momento della loro storia, per augurare loro ogni successo, per sperare che l’esperienza acquisita sia d’aiuto e protezione in un mondo del lavoro sempre più difficile. Ma soprattutto per dire grazie a tutti gli italiani come loro che ogni giorno, ognuno a proprio modo, ognuno secondo le proprie possibilità, donano qualcosa, piccola o grande che sia senza chiedere nulla in cambio, per sostenere la realtà ebraica italiana, i valori che testimonia, una lunga storia di difficili scambi che, nonostante tutto, ha reso, in oltre due millenni, il nostro paese, più ricco di risorse, di idee e di speranze.

L.P.
(Foto di Giovanni Montenero)

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Il futuro della lingua, fra tecnologia e creatività

img headerL’ultima invenzione viene, come spesso accade, dalla fucina tecnologica di Mountain View: una app di Google Translate che permette di fotografare e tradurre all’istante insegne, menù, cartelli stradali. Niente più dizionari tascabili per decifrare la listi dei dessert in un ristorante di Budapest o le indicazioni in cirillico sulle strade di Mosca: d’ora in poi saranno sufficienti un paio di ditate sul touchscreen per evitare un dolce con troppa cannella o di finire sulla Piazza Rossa anziché davanti al Bolshoj. Ancora più stupefacente il traduttore vocale universale “indossabile” (si porta appeso al collo) denominato ILI, appena premiato con l’Innovation Award al CES di Las Vegas, che consente di comunicare direimg headerttamente in un altro idioma anche senza conoscerlo come nei vecchi telefilm di Star Trek. L’italiano per il momento non è compreso tra le lingue disponibili nel bouquet, ma non è forse lontano il momento in cui riusciremo finalmente a rimorchiare aitanti tedeschi o formose spagnole senza dover far ricorso al nostro patetico inglese da spiaggia. La questione, a questo punto della storia, non sembra infatti più essere il “se”, ma il “quando”. Sul fatto che prima o poi i traduttori automatici potranno sostituirsi in tutto e per tutto all’uomo ormai pochi nutrono dubbi, e se ciò accadrà a quel punto probabilmente anche gli interpreti saranno rimpiazzati in cabina dalla voce di un computer, capace magari anche di tenerci compagnia e regalarci calore umano come nel visionario film di Spike Jonze, Her, e magari subito dopo sarà la volta di un software in grado di scrivere (e tradurre) senza il nostro aiuto post perfetti, verbali perfetti, libri perfetti. Uno studio pubblicato qualche mese fa sulla rivista Science illustrava il funzionamento di un nuovo algoritmo induttivo che permetterà ai computer di apprendere nuove nozioni sulla base di un numero limitato esempi e di applicarle in maniera creativa e non meccanica alla realtà, generando ulteriori esempi potenzialmente infiniti e ogni volta diversi.
Tutt’altra cosa, insomma, rispetto ai software convenzionali, la cui capacità creativa è direttamente proporzionale al numero di esempi con cui sono programmati. Per il momento questo algoritmo è in grado soltanto di riscrivere un carattere – lettera o cifra – in un numero infinito di modi differenti, ma una volta individuato il principio, è poi così azzardato immaginare un algoritmo un po’ più raffinato capace di agire sui significati oltre che sulle forme? E una volta che quell’algoritmo dovesse essere effettivamente ideato, non si potrà a quel punto affermare che avremo creato una macchina in grado di pensare? In un’intervista del 2015, Ray Kurzweil, uno dei guru dell’intelligenza artificiale, fissava all’anno 2029 la data entro cui i computer saranno in grado di ragionare come gli esseri umani, forse persino meglio. Al di là delle innumerevoli questioni filosofiche che un simile scenario porrebbe (quando i computer avranno imparato a pensare, ci sarà ancora bisogno che lo facciano gli umani? I robot prenderanno il nostro posto come nei romanzi di Asimov? O piuttosto ne approfitteremo per riprogrammare la nostra mente in modo da renderla capace di pensare e memorizzare i concetti in maniera più rapida ed efficiente rincorrendo ed emulando a nostra volta l’intelligenza artificiale? In quel caso, potremo ancora definirci uomini?), c’è in ballo tutta una serie di questioni pratiche che toccano, tra gli altri, tutti coloro che in qualche modo vivono grazie alle parole, in primis traduttori e interpreti, ma in certa misura persino poeti e narratori. Bello consolarsi con certe memorabilia partorite da Google Translate (la menta dello sciroppo che diventa “lies”, il tè al limone reso con “the to the lemon”, e via equivocando) coltivando l’intima certezza che i computer non sapranno mai emulare quella componente di creatività, di improvvisazione, di casualità, di fallibilità e soprattutto di emotività che caratterizza il linguaggio umano. Ma se poi succede? Per quale committente – editore, agenzia o privato – varrebbe ancora la pena di investire un euro in traduzione il giorno in cui un computer fosse in grado di produrre una metafora, cogliere un’ironia o scrivere in preda alla commozione? In attesa che ciò accada, le macchine si limitano oggi a esercitare un governo indiretto della lingua tramite i motori di ricerca, che sono diventati la principale e più utilizzata fonte di norma grammaticale e di usi linguistici. Se non mi ricordo come si scrive “qual è” o se è meglio dire “accendere un mutuo” o “aprire un mutuo”, spesso non mi affido più a grammatiche e dizionari, ma all’amico su Facebook o al compagno di chat, che se scrive qual’è anziché qual è avrà ben le sue ragioni. E del resto se la società si è progressivamente fatta liquida, dovremo forse abituarci all’idea di una lingua liquida, in cui a fare giurisprudenza grammaticale non sarà più l’auctoritas di turno, bensì Google. Il che sarà forse anche il nostro destino, ma risulta difficile immaginarlo come un progresso.

Andrea De Benedetti, linguista


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