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1 settembre 2016 - 28 av 5776
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il burkini, la Società

I simboli e il modello di convivenza in Israele

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Una decina o più di anni fa, un collega dell’Università di Gerusalemme si trovava in visita a Parigi all’Istituto Nazionale di Studi Demografici (INED), la mecca francese dei demografi. L’INED è un ente pubblico sostenuto da fondi dello Stato. Appena entrato nel grande e prestigioso istituto, il collega – un ebreo di lingua madre russa moderatamente tradizionalista che all’epoca era solito tenere in capo la kippah – fu avvicinato dal suo ospitante – uno dei più noti demografi francesi – che gli ordinò di togliersi immediatamente il piccolo copricapo fatto all’uncinetto. Spiegazione: qui siamo nei locali di un’istituzione statale francese, e lo Stato francese laico non tollera l’esibizione in pubblico di simboli religiosi. Inutile aggiungere che lo zelante dirigente dell’INED era di origini ebraiche, come oggi si dice in tono semi-cospiratorio, o in parole più semplici, era un ebreo tale quale il mio collega gerosolimitano. Tutto questo avveniva diversi anni prima che in Francia e in altri paesi europei si cominciasse perfino a intuire la possibilità di tensioni fra i gusti e le norme di vasti settori della popolazione immigrata negli ultimi anni o figlia di precedenti ondate immigratorie, e ancor meno la possibilità di atti di terrorismo compiuti da gruppi estremisti di matrice islamica sul suolo del continente. Il mio collega tornò scioccato da Parigi e mi giurò che mai più avrebbe messo piede all’INED. L’episodio della kippah parigina torna di attualità in questi giorni in cui si discute dell’ammissibilità del Burkini (un capo di abbigliamento inventato dieci anni fa) sulle spiagge francesi e italiane.

Sergio Della Pergola, Università Ebraica di Gerusalemme
Pagine Ebraiche, settembre 2016

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il burkini, la società

Modestia, imposizioni, sicurezza: l’analisi
della stampa da New York a Gerusalemme

img headerNell’estate 2016 la Francia si è nuovamente trovata a fare i conti con i suoi peggiori incubi: a pochi mesi dalla strage tra ristoranti e locali di Parigi, simbolo della cultura e dello stile di vita d’Oltralpe, e in un certo senso dell’Occidente tutto, a Nizza un terrorista ha lanciato un camion contro la folla riunita per assistere ai fuochi d’artificio per la festa nazionale del 14 luglio, giorno in cui si celebra la Rivoluzione e quei valori di libertà, fraternità e uguaglianza pilastro della civiltà europea. Ed è proprio con la dichiarata volontà di contrastare l’estremismo islamico e “la sua alleanza a movimenti terroristici in guerra contro la Francia” che alcuni giorni dopo dalla stessa Costa azzurra (e in particolare dalla città di Cannes) è partita l’iniziativa del bando del cosiddetto “burkini”, una sorta di tuta da bagno a maniche lunghe compresa di cuffia che copre capelli e collo, in osservanza delle regola di modestia femminile della tradizione musulmana.
La decisione del sindaco David Lisnard, presto imitata da una ventina di suoi colleghi, incluso il primo cittadino di Nizza, ha scatenato un intenso dibattito in tutto il mondo. Con un ulteriore elemento di complessità approfondito da molti sulla stampa ebraica: la centralità del concetto di modestia anche nell’ebraismo ortodosso. Sicurezza, estremismo, prevenzione. Libertà di religione. Libertà di scelta del proprio abbigliamento. Prevaricazione altrui nell’imposizione di un certo tipo di vestiario. Diritti delle donne, in un senso o nell’altro. Intolleranza. Rispetto dei valori della società in cui si vive. Sono tanti gli elementi, spesso contradditori, che compongono il puzzle della discussione. “Non importa quanto progressista la nostra società sia diventata, l’aspetto esteriore della donne è ancora oggetto di scrutinio, commenti, valutazioni, critiche e disapprovazione, molto più di quanto non avvenga nel caso degli uomini” ha scritto il direttore del settimanale newyorkese Jewish Forward Jane Eisner, in un editoriale dedicato all’argomento.

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il burkini, la Società

Il dibattito in Italia: voci ebraiche a confronto

img headerÈ il tema del momento: burkini sì/burkini no. E mette in gioco diversi valori e piani di confronto: il diritto alla libertà religiosa, la dignità della donna, il rispetto delle leggi dello Stato. E ancora la sicurezza di tutti i cittadini che lo abitano. Un tema quindi complesso, che fa discutere anche all’interno dell’ebraismo italiano e del suo rabbinato. Che non presenta in materia una posizione univoca. Ne abbiamo parlato con rav Alberto Somekh, già rabbino capo a Torino, e rav Pierpaolo Pinhas Punturello, napoletano, attivo nell’organizzazione Shavei Israel.
“È un problema che esiste e che va affrontato” sottolinea rav Somekh, riconoscendo l’urgenza di un approfondimento che vada oltre la superficialità dimostrata in questi giorni dall’opinione pubblica italiana. “Essendo il tema della sicurezza fondamentale, soprattutto di questi tempi, è evidente che ci si deve sforzare di trovare delle soluzioni. Anche a costo – sostiene il rav – di rinunciare a qualcosa”. L’idea proposta è quella di riproporre un modello separato di fruizione dei luoghi privati di svago, come ad esempio le piscine. “Anche nel mondo dell’ortodossia ebraica, d’altronde, esistono piscine che offrono orari diversi per uomini e per donne. Nessuna costrizione fisica, libertà di muoversi nel rispetto dei valori della modestia ebraica. Forse – dice rav Somekh – si potrebbe pensare di agire in questa direzione, così da permettere alle donne islamiche di evitare l’impiego del burkini: orari per soli uomini, orari per sole donne e una fascia più ampia per le persone che non sono interessate a questo tipo di separazione”.
Diversa prospettiva invece per il rav Punturello. “Come ci insegna l’Halakhah, la Legge ebraica, di fronte alle leggi dello Stato l’Halakhah stessa deve fare un passo indietro. ‘Dina de-malkhuta dina’, ci viene detto. E in questo senso dobbiamo agire, anche oggi. Perché – afferma il rav – è fuorviante pensare che la libertà religiosa sia assoluta”.

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il burkini, la società 

Diritti e sicurezza  

È curioso come talora la nostra ragione accecata si lasci guidare dall’ideologia. Ora abbiamo paura del burkini. Forse è il caso di guardarsi dal burka, non dal burkini. È il volto che si deve avere il coraggio di non nascondere, non il resto del corpo. Quella di nascondere il resto del corpo è una scelta su cui si può discutere, ma è una scelta lecita e incontestabile – se è libera scelta. Lo mostrano le suore, lo mostrano le donne ebree ortodosse che si coprono il capo e le braccia e non vanno certo in minigonna. È un diritto che può anche non piacere, ma è un diritto, e non mette a rischio la sicurezza dello stato. Ciò di cui forse la nostra società ha paura è invece il doversi confrontare con il crescendo apparentemente inarrestabile della diversità nelle nostre contrade. Conviene allora concentrarsi su questo punto, piuttosto che deviare l’attenzione con arzigogoli del pensiero logico.

Dario Calimani, anglista
Pagine Ebraiche 24, 23 agosto 2016


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il burkini, la società

"Il punto è l'uguaglianza"    

Trovo particolarmente irritante il dibattito sul Burkini, perché il fiume di parole che viene speso sull’argomento si concentra in larga misura su un falso problema, che ne copre un altro ben più grave. Qui in discussione non può essere l’integrazione delle usanze religiose o pseudo tali. Si fa presto a ironizzare sugli indumenti di donne musulmane religiose o di suore cattoliche la cui presenza “vestita” sulle spiagge genera un contrasto estetico da risolvere. Il vero nodo della questione – che viene accuratamente evitato perché di fatto irrisolto e forse irrisolvibile – è il ruolo del corpo della donna e l’abuso che ne fanno le strutture sociali ideate dall’uomo maschio (religiose, politiche, culturali). Se manca il coraggio di dirselo, strumentalizzando invece la questione conducendola su binari impropri, si generano assurdità giuridiche che non conducono a nulla.

Gadi Luzzatto Voghera, storico
Pagine Ebraiche 24, 26 agosto 2016


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Shir Shishi - una poesia per erev shabbat

Gira, gira, gira

img headerL’estate mi ha fatto venire in mente la canzoncina che si cantava ai miei tempi all’asilo nella città di Nazareth e che a mia volta ho cantato poi ai miei figli in Italia.
Loro cantilenavano ovviamente “Giro, girotondo, casca il mondo...” e io, leale a Israele e alla lingua ebraica, rispondevo con “Uga, uga, uga...”. Così cantano e ballano tutti i bambini israeliani da quando smettono di gattonare per andare all’asilo e stare in compagnia degli amichetti.
La melodia è popolare, mentre il testo è di Aharon Hashman, nato in Ucraina nel 1896 e morto a Tel Aviv nel 1981. Poeta, drammaturgo e traduttore, ha composto l’inno dell’infanzia dei bimbi israeliani.

Gira gira gira
Giriamo in cerchio
In tondo tutto il giorno
Finché non troveremo un posto
Seduti, in piedi!
Seduti, in piedi!
Seduti, in piedi!


Sarah Kaminski, Università di Torino

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