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Pierpaolo Pinhas Punturello, rabbino
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La
lontananza fisica mi permette di essere folle e di decidere che Alberta
Levi Temin sia sempre lì, a casa sua, con la luce del mare di Napoli
che entra nel suo salotto tra il tavolo da pranzo e la lampada dei
Pardo.
Alberta è lì che risponde al telefono, organizza la sua fitta agenda di
donna ebrea e non è mai stanca di insegnare, di testimoniare, di
lavorare per il dialogo interreligioso e di costruire pace.
Una donna che, partendo dal terribile dolore del maledetto 16 ottobre
del 1943, ha fatto della sua esperienza un impegno per il mondo.
Posso quindi decidere che Alberta non è in casa perché sta organizzando
la propria partecipazione ad una giornata di studio, perché è invitata
ad un convegno sulla pace ed è pronta a difendere le ragioni del
dialogo, semplicemente dialogando, senza svendere le proprie
convinzioni o il proprio sionismo, lei che è anche bisnonna di giovani
israeliani.
Posso decidere che Alberta non è in casa perché impegnata con l’Adei di
Napoli e sta organizzando la vendita di Channukkà, sta sistemando i
guanti sui tavoli, sta preparando una degna accoglienza per il
conferenziere di turno.
Follemente posso anche immaginare che Alberta abbia preparato il caffè
e le pesche con gli amaretti e ti aspetta per parlare, consigliare ed
ascoltare almeno fino al suo: “Senti.”
Un “senti” detto con un accento ferrarese più forte, un “senti” dopo il
quale bisogna stare zitti ed imparare dalla sua saggezza ed esperienza.
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Gadi
Luzzatto
Voghera,
storico
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Mia
nonna, Bruna Levi, è nata nell’aprile del 1915, un mese prima
dell’entrata in guerra dell’Italia, tempi difficili. Era la prima di
quelle che sarebbero state le mitiche tre sorelle Levi (chissà come
rodeva il nonno Carlo, neppure un maschietto). La seconda, Alberta,
nacque nel 1919, subito dopo la Grande Guerra. Nel frattempo Carlo e
Bianca (i genitori) si erano visti ben poco, Carlo al fronte, sul
Carso, e Bianca a casa a Guastalla. Carlo se l’era fatta a piedi la
ritirata di Caporetto, fino al suo paese in Emilia. Alberta – che è il
soggetto di questa mia breve riflessione – era nata come segno
dell’ottimismo, della fine di quella che avrebbe dovuto essere l’ultima
guerra. E questo tratto rimase in lei caratteristico sempre: una
visione positiva della vita, anche nelle situazioni più tragiche (e
tante ne dovette affrontare). Poi, subito prima dell’avvento del
fascismo, nacque anche Piera, la più giovane. Lei in seguito si
innamorò di un cugino veneziano e alla fine decise di seguirlo in
Palestina dopo la guerra e di generare con lui nella nuova terra
d’Israele una miriade di figli e nipoti. Tutti i figli, i nipoti e i
pronipoti di queste tre sorelle hanno fra loro un legame particolare,
che si rinnova spesso in momenti di gioia, quando nascite e matrimoni
puntellano le varie dinamiche famigliari. Da tre ragazze di Guastalla
siamo diventati più di 50, sparsi un po’ ovunque nel mondo. Che poi se
consideriamo anche i membri della famiglia cugina dei Ravenna e dei
discendenti Pardo, beh, i numeri diventano da tribù.
Questa notte Alberta, per me la zia Alberta, ha deciso di seguire le
sue sorelle e di andarsene, alla giovane età di novantasei anni.
Intendiamoci, lo sapevamo. Era da tempo che ce lo diceva in tutti i
modi. Ma lo faceva sempre con quella sua voce positiva e autorevole,
dolce e convincente, che ci prospettava sempre e comunque un avvenire
positivo a cui guardare con fiducia e verso il quale lavorare con
l’impegno personale. Due giorni fa l’ho chiamata e sapevo che l’avrei
sentita per l’ultima volta. La sua voce particolare stava ormai
svanendo in percorsi che portavano lontano, nel passato della famiglia
a cui tutti eravamo e siamo legati. Se ne potrebbero dire tante su
Alberta, e tanti hanno scritto su di lei. La sua vita è finita in
romanzi, in lunghi articoli, interviste. L’ultima uscita pubblica, per
così dire, è stata offerta a tutti gli italiani quando è stata
celebrata con altre dieci donne come una delle “ragazze del ’46”, le
prime donne che votarono in Italia. Ma io di lei voglio ricordare
principalmente il suo aspetto caratteriale, o per lo meno quello che
mostrava a me. Lo faccio perché credo che sia importante dirlo forte:
mia zia Alberta è stata un simbolo di resilienza e di resistenza. Ha
saputo affrontare prove estreme e rielaborarle in forme sempre
positive. Ha superato con coraggio l’epoca delle persecuzioni razziste
e subito (subito!) dopo si è sposata, per rispondere con la generazione
alla distruzione. Ha supportato fino all’ultimo il suo amatissimo
marito, per me lo zio Fabio (Temin), che mi portava bambino sulla
Cinquecento e mi faceva “guidare”. E quando è mancato, lo ha onorato di
un amore devoto e continuo. Un amore che l’ha spinta a impegnarsi in
un’attività di testimonianza mai lamentosa e sempre forte e positiva,
che ha affascinato generazioni di studenti. Le sono grato, perché fra
queste generazioni è riuscita ad affascinare anche mia moglie e i miei
figli, dando un senso a quella continuità che è, in fondo, il grande
dono che l’ebraismo porta con sé. Grazie.
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Da Viale Jenner all'Isis
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Tra
i nomi più in vista del Califfato, come noto, anche un terrorista
radicalizzatosi in Italia. Sfuggito all’arresto negli scorsi giorni,
Abu Passim continua a costituire una minaccia molto significativa. Come
ricorda oggi La Stampa: “Abdelkader Ben Moez Fezzani, noto anche come
Abu Nassim, è ancora libero e guida i suoi compagni di jihad. E questo
ci preoccupa. Perché Fezzani è innanzitutto un reclutatore, ma anche un
pianificatore di attentati micidiali. Ed evidentemente non è un caso –
si legge – se il pm Maurizio Romanelli, capo del pool Antiterrorismo,
di recente ha ripreso in mano il suo caso”.
I giornali approfondiscono i molti lati oscuri della figura di Ryke
Geerd Hamer, il medico-santone tedesco cui si devono le folli teorie
seguite dai genitori di Eleonora Bottaro, la 18enne padovana morta per
una leucemia non curata.
Scrive il Corriere: “È un guru, per chi gli crede e segue la Nuova
medicina germanica. Un ciarlatano, per chi non gli crede, poiché non ha
mai fornite prove scientifiche della sua teoria. Lui denuncia
persecuzioni di ogni tipo, da casa Savoia alla P2, fino agli ebrei che
sarebbero dietro all’egemonia della chemioterapia nella lotta al
cancro. Posizioni deliranti, in perfetta armonia con l’idea che la
Shoah non sia mai esistita”.
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FESTA DEL LIBRO EBRAICO - la sfida La nuova cultura dell'incontro
C’è
stato un giorno, nella nostra storia recente, in cui le vicende degli
ebrei italiani sono tornate in movimento, le nostre responsabilità sono
tornate in gioco. Il giorno in cui si è cominciato a parlare di
cultura, di storia e di Memoria in un modo nuovo. Quando siamo stati
chiamati da Roma, da Ferrara e dalle mille voci della società civile a
pensare a un museo dell’ebraismo italiano.
Era davvero un museo, quello che attendevamo, ciò di cui abbiamo
bisogno? E che cosa si intende, in definitiva, quando si parla di un
museo. In particolare quando pensiamo a un museo delle idee e delle
cose ebraiche e in particolare quando parliamo di un ebraismo come
quello italiano, che è ancora in cammino, ma ha alle spalle oltre due
millenni di storia italiana da testimoniare?
Tutti sappiamo che nel dizionario ebraico il termine “museo” non
esiste. Che il concetto può essere espresso solo ricorrendo a radici
straniere o, peggio ancora, a goffi giri di parole. Per noi valgono
altri itinerari, contano le idee vive, più che i reperti. Eppure
contano, eccome, anche la Storia, le idee, la Memoria, le
testimonianze, i libri. Contano ovviamente gli strumenti e i luoghi di
preghiera. E sempre di più conta l’architettura, intesa come progetto
per vivere assieme.
Costruire nuovi musei, ma soprattutto, con il sostegno del Governo
italiano e dell’opinione pubblica, costruire a Ferrara il catalizzatore
di tutti i musei ebraici italiani, conta. Anche se probabilmente non
siamo capaci di pensare ai musei esattamente negli stessi termini di
quelli proposti dalla cultura dominante. Non riusciamo a costruire
ermetici forzieri dove allineare i tesori del passato. Celebrare un
passato che ha perduto i suoi legami con il presente è un esercizio che
non ci appartiene e non ci auguriamo. Un museo dell’ebraismo in questi
termini lo voleva costruire a Praga, nemmeno tanti anni fa, una
marionetta isterica e sanguinaria, cullandosi nell’illusione di
cancellare con il genocidio ogni presenza ebraica viva in Europa.
No, non può assomigliare a questo, il museo di cui sentiamo il bisogno.
Si rende quindi necessaria, per gli ebrei italiani, una riflessione
seria.
Gli ingredienti per Ferrara e per la fitta rete di musei ebraici locali
che hanno nel frattempo messo felicemente radici, spesso grazie
all’eroico lavoro delle comunità e dei volontari locali, sono
un’alchimia molto più complicata. I reperti e le testimonianze devono
uscire dalle vetrine e tramutarsi in esperienze da vivere. I libri
devono tornare oggetto di studio. Le sale conferenze devono essere
luoghi di conoscenza, non d’accademia. Le porte d’ingresso devono
aprirsi e accogliere una community di visitatori ricorrenti, italiani
che assieme agli ebrei italiani si sentano a casa, non staccare
biglietti ad anonimi visitatori sporadici. Se sarà così, se potranno
realizzarsi i sogni di tutti coloro che con dedizione e professionalità
lavorano oggi per i musei ebraici vivi, se i musei non saranno solo le
istituzioni dove si contano le presenze e le visite guidate, ma i
luoghi dell’incontro fra gli ebrei italiani e i cittadini di tutto il
mondo, per l’ebraismo italiano potrà aprirsi un capitolo nuovo. E non
solo perché costruire i luoghi dell’incontro è una sfida sempre
appassionante. Ma perché da questi incontri, se ben impostati, se
concepiti nel più rigoroso rispetto dell’identità e della religione
ebraica, che gli ebrei italiani hanno la responsabilità di preservare
prima di ogni altra cosa, può dipendere quella sicurezza e quel
benessere di cui ogni minoranza ha bisogno per vivere serenamente in
una società enormemente più grande, complessa e contrastata. Per
raccogliere la sfida dei musei, gli ebrei italiani dovranno mettere da
parte ogni tentazione di protagonismo, ogni sentimento di gelosia, ogni
cedimento alla mancanza di professionalità. E potranno contare, se
vorranno dare ascolto, su alleati preziosi. Le componenti, nazionali e
locali, degli Esecutivi interessati. Il coinvolgimento delle
popolazioni locali. L’esempio dei laboratori che il ministro della
Cultura Dario Franceschini ha voluto aprire in tutti i maggiori musei
italiani con la recente nomina di dirigenti preparati e ambiziosi,
spesso chiamati dall’estero a proteggere e sviluppare la sola industria
capace di salvare i destini italiani: quella della cultura e del
turismo. Vincere questa scommessa non consentirà solo di aprire nuovi
musei, ma sarà un modo per riprendere in mano il nostro destino segnato
dalle mille ferite della storia. E il biglietto d’invito che potremo
offrire a tutti i cittadini starà a significare che nei musei, nei
nostri musei, potremo incontrarci e tornare ogni giorno per riscoprire
in ogni stagione come l’Italia che amiamo, quella che appartiene a noi
tutti, cittadini italiani e cittadini del mondo, non sarebbe la stessa
se tralasciasse i destini degli ebrei italiani.
Guido Vitale, Pagine Ebraiche Settembre 2016
(Nell’immagine visitatori in fila al museo Polin di Varsavia)
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festa del libro ebraico - l'inaugurazione Una notte tra musica e progetti
Il
celebre trombettista jazz italiano Enrico Rava lo ha descritto come uno
dei musicisti più talentuosi della nuova generazione. Sarà lui,
l’israelo-americano Avishai Cohen (assieme a Yonathan Avishai al piano,
Barak Mori al basso e Nasheet Waits alla batteria), a inaugurare la
nuova edizione della Festa del Libro ebraico di Ferrara sabato 3
settembre (ore 21.30) nella cornice rinascimentale del Giardino di
Palazzo Roverella. Prima delle note jazz del trombettista Cohen,
saranno le autorità a portare il loro saluto al pubblico, con
l’intervento tra gli altri della Presidente dell’Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane, Noemi Di Segni. Alla stessa ora, ingresso gratuito
negli attuali spazi temporanei del Meis (Via Piangipane 81), tra la
mostra Torah fonte di vita, dove è esposta parte della collezione del
Museo della Comunità ebraica di Ferrara, e l’Omaggio a Giorgio Bassani
di Ferrara Off, che fa tappa al bookshop del Museo con la propria
biblioteca itinerante di letteratura. Infine, alle 21.45, un altro
evento speciale, Aperto anche di notte: la visita al cantiere del Meis
in notturna, per far toccare con mano al pubblico lo stato di
avanzamento dei lavori (iniziativa a cura del Segretariato Regionale
del Ministero dei Beni e delle Attività Culturali e del Turismo per
l’Emilia-Romagna). Leggi
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TERREMOTO - ENTI EBRAICI AL LAVORO
Solidarietà alle comunità colpite, un'azione rivolta su più fronti
Prosegue
l'azione di sostegno del mondo ebraico italiano e internazionale alle
popolazioni colpite dal terremoto. Quasi 30mila gli euro raccolti
grazie alla raccolta fondi intrapresa dall'Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane e in sinergia con realtà quali European Jewish
Congress e American Jewish Joint Distribuition Committee.
Significativi anche i risultati della raccolta sangue predisposta
all'ospedale Fatebenefratelli di Roma, insieme alla Comunità ebraica
locale, nelle ore immediatamente successive al sisma. Molte decine le
persone che hanno fatto questa scelta.
L'UCEI, in stretto raccolto tra gli altri con l'Associazione Medica
Ebraica, è inoltre al lavoro per formare un pool di professionisti da
inviare nei comuni maggiormente interessati dal terremoto, dove già
operano i volontari della ong IsraAid (realtà d'eccellenza della
cooperazione israeliana, con cui proseguono intensi i contatti e gli
scambi di informazioni).
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mondiali 2018, verso israele-italia Tal Banin, da Haifa alla Serie A:
"A Brescia gli anni più belli"
Ormai,
da qualche mese a questa parte, c’è solo una pagina abilitata a
decretare se appartieni al club. Se ci sei, sei leggenda. Se non ci
sei, evidentemente no. Tal c’è. La pagina è naturalmente quella di
“Serie A – Operazione Nostalgia”, il più bel prodotto di informazione
sul calcio Anni Novanta mai realizzato sui social network.
Quasi quattrocentomila seguaci a sancire il successo di un’iniziativa
che va oltre i grandi traguardi raggiunti dai club italiani in
quell’epoca, per riscoprire l’emozione di una storia o di un gesto che
hanno fatto innamorare i tifosi.
“Non ho mai dimenticato l’Italia, un paese che ho sempre nel cuore”
spiega al portale dell’ebraismo italiano Tal Banin, guardiano del
centrocampo del Brescia dal 1997 al 2000 e primo giocatore israeliano a
militare in Serie A.
Accolto con un misto di scetticismo e curiosità, il suo acquisto
avvenne otto anni dopo la triste vicenda relativa all’attaccante Ronny
Rosenthal, che l’Udinese scelse all’ultimo di non tesserare a causa, la
tesi più accreditata, dell’influenza negativa che ebbero alcune
manifestazioni di odio antisemita dei supporter friulani.
“Ho sempre avuto l’Italia nel destino. O almeno da quando, 11enne, vidi
la finale di Spagna ’82 tra gli Azzurri e la Germania. La corsa di
Tardelli dopo il suo goal mi fece letteralmente emozionare e da allora
ho sempre tifato per voi in ogni manifestazione. Arrivare in Serie A –
spiega Banin – fu il coronamento di un sogno”. Leggi
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Suggestive analogie
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Una
cultura millenaria, con una propria lingua e un proprio alfabeto, in
cui la religione ha un ruolo determinante. Secoli di persecuzioni
culminati in un genocidio che qualcuno si ostina a negare. L’orgoglio
ma anche la responsabilità e il peso della memoria. L’interazione
continua con una diaspora spesso ricca e influente.
Le analogie tra gli ebrei e gli armeni suonano suggestive, e a una
prima impressione offuscano le altrettanto evidenti differenze nella
politica, nell’economia, nel peso della diaspora (quella armena è in
proporzione molto più consistente); senza contare la ben diversa
capacità di assumersi le proprie responsabilità da parte della nazione
che ha perpetrato il genocidio, cosa che forse consente a noi ebrei un
rapporto con la memoria un po’ più pacificato. Dunque le differenze ci
sono, e sono notevoli. Eppure in alcuni momenti percorrendo l’Armenia
da turisti e ascoltando le spiegazioni delle guide si ha l’impressione
di poter osservare una volta tanto dall’esterno dinamiche che noi ebrei
siamo abituati a vivere dall’interno: la ricerca di un rapporto
equilibrato con la memoria, l’urgenza, ma anche la difficoltà, di
rendere i visitatori consapevoli di ciò che è stato, le reazioni dei
visitatori stessi, in cui alla pietà e al desiderio di conoscere si
mescola talvolta anche una punta di insofferenza per una storia che non
fa piacere ascoltare.
Curiosamente queste somiglianze sembrano essere notate solo da me; o,
per lo meno, nessuno tra i miei compagni di viaggio ne parla a voce
alta. Sarà solo un caso o davvero a sentir parlare di genocidi alla
gente non vengono più in mente gli ebrei? E, se così fosse, vorrebbe
dire che ci si sta dimenticando della Shoah? Che ancora una volta le
persecuzioni subite dagli ebrei vengono ignorate o rimosse? Oppure
vorrebbe dire che gli ebrei non sono più percepiti come le vittime di
un terribile passato ma come i portatori di una cultura viva e volta
verso il futuro? Sarebbe bello poter credere a questa seconda ipotesi,
anche se temo che la ragione ci spinga verso la prima.
Anna Segre, insegnante
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L'ipocrisia turca
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Come
riportavano alcune testate, tra cui Haaretz, il ministro degli esteri
turco ha condannato gli attacchi aerei di due settimane fa di Tzahal
nella Striscia di Gaza – effettuati in risposta al lancio di alcuni
razzi nell’area di Sderot – affermando: “Il fatto che i nostri legami
con Israele si siano normalizzati non significa che rimarremo in
silenzio di fronte a determinati attacchi che colpiscono il popolo
palestinese”.
Trovo ipocrita e ridicolo che la Turchia possa criticare Israele,
quando oltre a continuare a condurre una dura repressione contro i
propri oppositori interni, sta da tempo bombardando le proprie regioni
curde nel sud-est del paese, e da giorni, con il pretesto di combattere
Daesh, è entrata in territorio siriano per minacciare le zone ad ovest
dell’Eufrate controllate dalla regione curda del Rojava. Tra l’altro
appoggiando i cosiddetti “ribelli”, ribattezzati ufficialmente Free
Syrian Army, composti in realtà da milizie spesso intrise di salafismo
con legami con gruppi come Al-Nusra o Ahrar al-Sham.
Francesco Moises Bassano
Leggi
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Dura cervice
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"Vedi
dunque, Io pongo oggi davanti a te la benedizione e la maledizione"
(Reè). Per fare attenzione evidentemente non basta ascoltare,
sentire o immaginare, ma tutto si deve palesare in un semplice e
visibile presente. Sensazioni, pensieri e parole diventano eventi.
L'essere umano d'altra parte è di dura cervice e passa la sua vita a
scoprire ciò che non capisce.
Ilana Bahbout
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