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2 febbraio 2017 - 6 Shevat 5777
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ORIZZONTI

Al Museo della Shoah di Washington
un incontro virtuale con i rifugiati

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“Il Simon-Skjodt Center for the Prevention of Genocide si occupa di stimolare l’azione globale e tempestiva per prevenire i genocidi e catalizzare una risposta internazionale quando un genocidio si verifica”. Lo US Holocaust Museum di Washington, una delle più importanti istituzioni del mondo dedicate al ricordo e allo studio della Shoah, ma anche dell’antisemitismo contemporaneo (tra coloro che diedero un impulso fondamentale alla sua nascita il sopravvissuto e Premio Nobel per la Pace Elie Wiesel) prevede come parte del suo impegno la sensibilizzazione sul tema dei genocidi. A lavorare in questa direzione è un dipartimento ad hoc che oltre a monitorare e approfondire le situazioni a rischio in tutto il mondo, si propone di svolgere una funzione educativa. Destinatari della sua attività, opinion leader di ogni genere ma anche il grande pubblico, con iniziative varie, da scritti e ricerche a eventi e mostre. Così accanto al percorso permanente e a diverse rassegne temporanee dedicate alla Shoah, il Museo in questo periodo offre per esempio una mostra sulla Cambogia e i crimini dei Khmer Rossi, e una sui focolai di possibili futuri genocidi in questi primi anni del nuovo millennio. Proprio quest’ultimo, ha di recente catturato l’attenzione di molti grazie a una iniziativa unica del suo genere: la possibilità per i visitatori di incontrare virtualmente un rifugiato. “Il Portale: una conversazione in tempo reale con chi è costretto a fuggire dalla violenza” prevede una video-chat con un profugo dalla Siria o dai territori iracheni sotto il controllo dell’Isis.

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Società

Diritti umani, una dimensione da conquistare

img header“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. È l’articolo 1 che apre la Dichiarazione universale dei diritti umani, firmata il 10 dicembre 1948 a Parigi (nell’immagine Eleanor Roosvelt con il documento). Una dichiarazione che, nella memoria pubblica, è rimasto a lungo in secondo piano e ancora oggi – nonostante il 10 dicembre sia una giornata internazionale dedicata alla riflessione pubblica sul senso, la portata e la rilevanza di quel testo – tutto si svolge molto in sordina, in una dimensione di “silenzio”. Del resto nemmeno allora, settanta anni fa, nessuno era lì a festeggiare e a mobilitarsi per i diritti. Gli uomini e le donne nell’Europa di allora sono divisi dai conflitti ideologici, immersi dentro il lutto della morte di massa che li ha toccati da vicino. La nostra attenzione tuttavia, più che concentrarsi sul contenuto della dichiarazione, deve rivolgersi ai preliminari laddove il testo recita: “Considerato che il disconoscimento e il disprezzo dei diritti dell’uomo hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità, e che l’avvento di un mondo in cui gli esseri umani godono della libertà di parola e di credo e della libertà dal timore e dal bisogno è stato proclamato come la più alta aspirazione dell’uomo”. Il diritto acquista forza, dunque, non in base a una estensione dei diritti, al riconoscimento della loro insufficienza, ma in relazione alla barbarie vissuta, al senso di inadeguatezza, sulla base di una “ferita”. In breve, sull’idea di “male”, come ha suggerito anni fa con acutezza Salvatore Veca (La priorità del male e l’offerta filosofica, Feltrinelli).

David Bidussa, Pagine Ebraiche, febbraio 2017 

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orizzonti  

Non si tratta di razzismo, ma solo di buon senso

Un po' di buon senso prego. Trump ha dato le sue risposte a un problema cui tutto il mondo si sta applicando, e cui si riconosce che non c'è stata per ora, una risposta efficace o solo sensata. Può darsi che anche questa sia sbagliata. Ma non lo sarà più dei silenzi e delle omissioni che hanno lasciato uccidere migliaia di persone dal terrorismo islamico e hanno creato situazioni di vita molto difficili nelle città del mondo occidentale. E un tema roccioso, ogni volta che lo si affronta vorremmo nasconderci piuttosto che vedere la sofferenza altrui ma, insieme, anche il nostro pericolo. Ci sono e c'erano delle buone ragioni in alcune delle critiche all'executive order di Donald Trump del 27 gennaio che sospende l'illimitata ammissione di rifugiati siriani e mette un freno all'immigrazione di altri sei Paesi islamici per 90 giorni: infatti già domenica Trump ha dovuto ripristinare il diritto di servirsi della green card. E dovrà tornare sulla questione delle minoranze religiose, perché anche se preferisce l'immigrazione delle minoranze cristiane, ce ne sono di sunnite e di sciite che a seconda dei Paesi, sono state e sono implicate in lotte e persino guerre a fianco degli americani. Il tono, pero, l'enfasi da salotto bene che si usa nell'immaginare che Trump seppellisca l'America che amiamo per disseppellire quella con la k (molti non sanno quanto quella k ferisca gli americani) porta a dire un sacco di sciocchezze: per esempio, a paragonare l'immigrazione attuale con quella degli ebrei dall'Europa.

Fiamma Nirenstein, Il Giornale
31 gennaio 2017


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orizzonti 

Art Spiegelman: "I rifugiati oggi come la Shoah" 

Quando risponde al telefono, Art Spiegelman chiede un momento per riflettere, «altrimenti il mio primo istinto sarebbe rovesciarle addosso una valanga di insulti, che non potrebbero essere pubblicati sul suo giornale». Poi l'autore di «Maus» si ricompone, e attacca: «Steve Bannon, il consigliere di Trump autore dei suoi decreti, è uno xenofobo, antisemita e misogino, legato ai gruppi neonazisti di Alt Right. Trump non è abbastanza sofisticato per capirlo, ma tutto questo è parte di un piano preparato e annunciato pubblicamente da tempo dai suprematisti bianchi. Non a caso, il decreto sul bando dei musulmani è stato firmato proprio nel Giorno della Memoria dell'Olocausto».

Sta dicendo che lo hanno fatto apposta?

«Certo, sono antisemiti. Non vi siete accorti che nel comunicato per il Giorno della Memoria non c'era nemmeno la parola ebreo? Qualcuno lo ha fatto notare, pensando che si trattasse di una svista, ma la Casa Bianca ha confermato che non voleva citare di proposito gli ebrei, ricordando l'Olocausto»

Secondo lei perché?

«Era un segnale lanciato ai gruppi neonazisti di Alt Right, che Trump ha sempre tollerato al suo fianco. America First è uno slogan razzista e suprematista».


Paolo Mastrolilli, La Stampa
31 gennaio 2017


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Shir shishi, una poesia per erev shabbat

Varsavia e Roma

img headerNon sono assolutamente contraria al Giorno della Memoria. Dipende a che cosa si dedicano le scuole, le autorità, i giornalisti, la TV, la radio e così via. In che modo si elaborano i fatti, le testimonianze, gli archivi pieni di documenti sugli orrori dei nazisti e dei fascisti.
Noi, come a Pesach, abbiamo il dovere di chiedere e tramandare, i non ebrei di sollevare dall'oblio alcune questioni: dov'erano nel 1938, nel 1943 e nel 1945 i loro bisnonni italiani, francesi, polacchi?... Un dovere di conoscere e di accettare la propria storia, la nostra storia.
Nell'aprile 1943 il poeta polacco Czesław Miłosz (1911-2004) era a Varsavia sul tram che si fermò accanto al muro del ghetto in fiamme. In quella piazzetta la giostra girava al suon di urla gioiose dei bambini e i venditori ambulanti proponevano caramelline colorate e delicati mazzolini di fiori a regalare alla morosa. Il poeta rimase scioccato e lungo gli anni, durante la sua vita in Francia e in America, questo sentimento divenne un senso di colpa teso a combattere l'Indifferenza.
Nel sito dell'Ambasciata polacca si legge:
“Guardando il ghetto in fiamme, Czesław Miłosz, premio Nobel 1980, accostò in questa celebre poesia la solitudine degli Ebrei morenti con quella di Giordano Bruno, morto sul rogo in Campo de’ Fiori nell’anno 1600”: è la scritta che accompagna il poema del premio Nobel polacco sul pannello che fu ufficialmente scoperto il 15 gennaio 2015 sulla celebre piazza della capitale.

 
A Roma in Campo dei Fiori
ceste di olive e limoni,
spruzzi di vino per terra
e frammenti di fiori.
Rosati frutti di mare
vengono sparsi sui banchi,
bracciate d’uva nera
sulle pesche vellutate.
 
Proprio qui, su questa piazza
fu arso Giordano Bruno.
Il boia accese la fiamma
fra la marmaglia curiosa.
E non appena spenta la fiamma,
ecco di nuovo piene le taverne.
Ceste di olive e limoni
sulle teste dei venditori.
 
Mi ricordai di Campo dei Fiori
a Varsavia presso la giostra,
una chiara sera d’aprile,
al suono d’una musica allegra.
Le salve del muro del ghetto
soffocava l’allegra melodia
e le coppie si levavano alte
nel cielo sereno.
 
Il vento dalle case in fiamme
portava neri aquiloni,
la gente in corsa sulle giostre
acchiappava i fiocchi nell’aria.
Gonfiava le gonne alle ragazze
quel vento dalle case in fiamme,
rideva allegra la folla
nella bella domenica di Varsavia.
 
C’è chi ne trarrà la morale
che il popolo di Varsavia o Roma
commercia, si diverte, ama
indifferente ai roghi dei martiri.
Altri ne trarrà la morale
sulla fugacità delle cose umane,
sull’oblio che cresce
prima che la fiamma si spenga.
 
Eppure io allora pensavo
alla solitudine di chi muore.
Al fatto che quando Giordano
salì sul patibolo
non trovò nella lingua umana
neppure un’espressione,
per dire addio all’umanità,
l’umanità che restava.
 
Rieccoli a tracannare vino,
a vendere bianche asterie,
ceste di olive e limoni
portavano con gaio brusìo.
Ed egli già distava da loro
come fossero secoli,
essi attesero appena
il suo levarsi nel fuoco.
 
E questi, morenti, soli,
già dimenticati dal mondo,
la loro lingua ci è estranea
come lingua di antico pianeta.
Finché tutto sarà leggenda
e allora dopo molti anni
su un nuovo Campo dei Fiori
un poeta desterà la rivolta.
 
Varsavia – Pasqua, 1943

(In Poesie, Adelphi, 1983, Traduzione di Pietro Marchesani)

Sarah Kaminski, Università di Torino

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