Società – Diritti umani, quella dimensione da conquistare

PE“Tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Essi sono dotati di ragione di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”. È l’articolo 1 che apre la Dichiarazione universale dei diritti umani, firmata il 10 dicembre 1948 a Parigi (nell’immagine Eleanor Roosvelt con il documento). Una dichiarazione che, nella memoria pubblica, è rimasto a lungo in secondo piano e ancora oggi – nonostante il 10 dicembre sia una giornata internazionale dedicata alla riflessione pubblica sul senso, la portata e la rilevanza di quel testo – tutto si svolge molto in sordina, in una dimensione di “silenzio”. Del resto nemmeno allora, settanta anni fa, nessuno era lì a festeggiare e a mobilitarsi per i diritti. Gli uomini e le donne nell’Europa di allora sono divisi dai conflitti ideologici, immersi dentro il lutto della morte di massa che li ha toccati da vicino. La nostra attenzione tuttavia, più che concentrarsi sul contenuto della dichiarazione, deve rivolgersi ai preliminari laddove il testo recita: “Considerato che il disconoscimento e il disprezzo dei diritti dell’uomo hanno portato ad atti di barbarie che offendono la coscienza dell’umanità, e che l’avvento di un mondo in cui gli esseri umani godono della libertà di parola e di credo e della libertà dal timore e dal bisogno è stato proclamato come la più alta aspirazione dell’uomo”. Il diritto acquista forza, dunque, non in base a una estensione dei diritti, al riconoscimento della loro insufficienza, ma in relazione alla barbarie vissuta, al senso di inadeguatezza, sulla base di una “ferita”. In breve, sull’idea di “male”, come ha suggerito anni fa con acutezza Salvatore Veca (La priorità del male e l’offerta filosofica, Feltrinelli). E tuttavia questa dimensione del diritto che si propone come riparazione a un torto subìto accelera una dimensione in cui da allora è diventato sempre più complicato puntare alla dimensione universalistica del diritto, propria di una società di liberi ed eguali. Avvertire infatti che il diritto si origina dal torto, se accelera e mette in stretto rapporto la condizione attuale con ciò che vorremo, include anche che si percepisca la necessità di normare diritti sempre più specifici, sempre più definiti e “tagliati su misura” per individui particolari o per gruppi particolari. Ogni volta il dato è indubbiamente l’allargamento della sfera di cittadinanza, ma anche la sensazione che il diritto si declini come “normalizzazione” di una condizione di svantaggio di un gruppo, più che affermazione di una condizione condivisa. È corretto “riparare” al torto. Ma forse non è improprio chiederci quanto e come questa procedura fondi, produca e consolidi una dimensione universalistica del diritto. Lo scrivo e lo penso con cautela: quanto la dimensione “di ognuno” è oggi declinabile con quella “di tutti”? O quanto “ognuno” è disposto a pensare in termine “di tutti”?

David Bidussa, Pagine Ebraiche, febbraio 2017