raccolte
fondi e cure mediche dei feriti per aiutare i civili siriani
Che
fare dopo le immagini della strage in Siria:
la nuova mobilitazione israeliana corre sul web
È
tornato a prometterlo questa mattina:“Israele si muoverà per aiutare i
civili siriani”. Dopo l’attacco chimico nella provincia siriana di
Idlib e la strage di almeno 74 persone, tra cui molti bambini, il
presidente d'Israele Reuven Rivlin aveva promesso che la leadership
politica di Gerusalemme si sarebbe mobilitata. E visitando nelle scorse
ore il nord del paese assieme alla Brigata Givati, Rivlin è tornato a
ribadire il concetto. “Sono fiducioso che il nostro mondo politico
prenderà in considerazione giudiziosamente quello che possiamo fare e
come possiamo migliorare quanto già facciamo, al fine di alleviare la
sofferenza di persone innocenti”, le parole del presidente, il cui
appello aveva trovato sponda nel ministro per le finanze Moshe Kahlon:”
Israele, lo Stato del popolo ebraico, - aveva detto il ministro - deve
assumersi la responsabilità morale e aprire i suoi cancelli per curare
i bambini vittime di questo genocidio. Non ci mancano né impegno morale
né risorse per farlo”. La posizione di Gerusalemme in questi anni
rispetto al conflitto al di là del confine – con Assad considerato un
nemico storico del Paese – è sempre stato di non intervento:
sporadicamente però diverse azioni, mai ufficialmente riconosciute,
sono state compiute dall'aviazione israeliana in terra siriana.
Bersaglio dei raid, i terroristi di Hezbollah, sostenitori del regime
di Assad e considerati una grave minaccia alla sicurezza dello Stato
ebraico. Oltre a questi interventi mirati, Israele non è mai
intervenuta apertamente ma da tempo ha avviato un sistema di aiuti per
la popolazione: i civili siriani feriti, come raccontato anche su
questo portale, vengono ricoverati di nascosto in ospedali israeliani
nel nord del Paese e poi, una volta curati, rimandati oltre confine. A
queste attività umanitaria, portata avanti da medici e soldati, è poi
da aggiungere l'impegno della società civile: Just Beyond Our Border,
un gruppo di fundraising costituitosi nel dicembre scorso per inviare
da Israele aiuti ai bimbi siriani, dopo la notizia e le immagini della
strage di Idlib ha raccolto in poche ore 32mila dollari. “La risposta è
stata incredibile – ha dichiarato Yoav Bakshi-Yeivim, tra i fondatori
dell'associazione e membro dell'amministrazione di Gerusalemme – La
nostra campagna è solo una goccia in mezzo al mare ma le persone
sentono in questo modo di poter fare concretamente qualcosa e non solo
rimanere a guardare. Penso che se altre nazioni nel modo avessero
iniziative di questo tipo, potremmo fare la differenza”.
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l'ambasciatore d'israele in italia ofer sachs
"Israele al fianco del presidente Trump in Siria.
L'attacco contro Assad, un segnale necessario"
Se
per gli Stati Uniti la "linea rossa" dell'uso di armi chimiche in Siria
è lontana un oceano, per Israele è una minaccia nel cortile di casa. Di
fronte al primo attacco con gas in Siria quattro anni fa, Israele
distribuì 3.700 maschere antigas al giorno. Da allora, l'uso della
"bomba nucleare dei poveri", cosi sono chiamate le armi chimiche a
Damasco, si è fatto sempre più disinvolto, fino alla strage di Khan
Sheikhun. Per questo ieri il premier israeliano, Benjamin Netanyanu, ha
offerto "pieno sostegno" all'attacco militare americano. Il
viceministro perla Diplomazia, Michael Oren, ha detto che c'è "un nuovo
sceriffo" in città, intendendo che "l'attacco indica che l'America è
tornata" e che "i nostri nemici comuni devono avere paura". "Penso che
Trump abbia già fatto molta strada per ripristinare la credibilità
americana in medio oriente", ha detto Dore Gold, ex stretto consigliere
di Netanyahu. "C'era uno standard morale in Siria che era stato violato
assieme a ogni linea rossa e la nuova Amministrazione ha preso la
decisione giusta", dice al Foglio l'ambasciatore israeliano in Italia,
Ofer Sachs.
Giulio Meotti, Il Foglio, 8 aprile 2017
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dalla letteratura alla musica, il critico nissim calderon si racconta
Poesia e musica rock, le parole della piazza
Nissim
Calderon insegna letteratura ebraica all’Università Ben Gurion nel
Negev. Sabra, classe 1947, è autore prolifico. I suoi libri spaziano
dalla letteratura alla poesia e alla musica pop contemporanea e
presentano come fil rouge l’indagine inerente i rapporti tra questi
differenti campi o, in altre parole, i rapporti tra la cosiddetta
cultura alta, da una parte, e popolare, dall’altra. È forse in
filigrana a questa preoccupazione, a un tempo intellettuale e sociale,
che va inteso il suo impegno politico. Calderon è infatti attivo nelle
fila del Meretz, partito della sinistra sionista.
Negli anni passati ti sei
occupato molto di poesia. Vorremmo sapere qualcosa sulle tendenze, i
fenomeni più interessanti che sono emersi nella poesia ebraica degli
ultimi anni. Di recente è uscito su Haaretz un lungo articolo dedicato
ad Arspoetica, per esempio.
La poesia si sviluppa in modo molto ricco ma è passata dal centro della
cultura ai margini: ci sono sempre più persone colte che non ne
leggono, e la mancanza di un poeta che abbia una lingua comune in cui
si riconoscano gli intellettuali si fa sentire da tempo. Penso che il
fenomeno più interessante in tempi recenti sia la poesia nata sulla
scorta della protesta politica del 2011, che portò nelle strade mezzo
milione di persone che denunciavano l’impoverimento progressivo della
classe media in Israele. La protesta è fallita sul piano politico, ma
su quello letterario ha prodotto dopo di sé della poesia molto
originale, la cui voce di spicco è, a mio parere, Tahel Frosh, autrice
della raccolta Beza [Profitto]. E’ un tipo di poesia che ricorda quella
di Whitman, con versi lunghi, di ampio respiro. Nel suo caso il fattore
economico diventa soggetto dell’espressione poetica. Accanto a questo
ci sono fenomeni come Arspoetica, che ai miei occhi sono puramente
sociologici, poco significativi dal punto di vista letterario. In
Arspoetica emerge il lato negativo della protesta sociale, quello della
frammentazione: i mizrahim a parte, le donne a parte, gli omosessuali a
parte, gli arabi a parte. Ai miei occhi questa politica e questa
cultura dell’identità sono negative, perché senza unione non si ottiene
nulla. La poesia che parla soltanto in nome dei mizrahim non tiene
conto della situazione odierna: la classe sociale oggi più povera in
Israele è costituita dagli arabi e poi ci sono gli ebrei provenienti
dall’ex Unione sovietica e da alcune zone dell’Asia. In secondo luogo è
vero che cinquant’anni fa i mizrahim erano oggetto di molti pregiudizi,
ma adesso la situazione è cambiata. Con questo modo di procedere gli
esponenti di Ars Poetica vanno all’indietro, guardano al passato e alle
sue ferite. Questo dal punto di vista politico. Dal punto di vista
letterario odiano Natan Zach, perché è ashkenazita, ma la loro poesia,
la loro estetica, la loro metrica sono figlie legittime proprio di
Natan Zach. Ars Poetica è un fenomeno sociologico che si serve della
poesia. Ci sono poi anche tra loro voci dotate, come Shlomi Hatuka, che
personalmente ritengo essere un bravo poeta, anche se non sono
d’accordo con le sue opinioni, proprio per via del separatismo cui
accennavo.
E per quanto riguarda altre forme meno canoniche di espressione?
Vedo sviluppi notevoli nel rock, un campo nel quale ci sono autori con
posizioni politiche interessanti. Penso a Rona Kenan e al suo nuovo
album, per esempio, o a Shlomi Shabat. C’è anche un altro fenomeno,
quello dello spoken word, in cui si sale sul palco e si parla, una
sorta di discorso ritmato, di rap, che sta avendo un grande successo di
pubblico, ed è qualcosa di molto recente in Israele.
Ti occupi sia di poesia “alta” sia di rock e cultura popolare in genere, cosa pensi dei rapporti tra le due in Israele?
L’avvicinamento tra cultura alta e cultura popolare si sta sviluppando
moltissimo nella musica, nel cinema e nella televisione. Per esempio
abbiamo serie televisive che una volta erano considerate spazzatura,
sciocchezze, mentre ora hanno raggiunto una qualità notevole. Penso per
esempio a Zaguri imperia che mescola la cultura di strada di Be’er
Sheva con Edipo: il risultato è affascinante. Emergono generi nuovi, e
la mescolanza di culture nella società israeliana, tra oriente e
occidente, tra alto e basso, viene portata avanti in modo molto
interessante, magari avvenisse così anche nella nostra politica.
Anna Linda Callow
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l'accordo siglato dall'histadrut
Un'ora in meno di lavoro
Per
la prima volta in 22 anni, l'orario di lavoro in Israele sarà ridotto,
passando dalle attuali 43 ore a 42, senza alcuna riduzione salariale.
Merito dell'accordo raggiunto lo scorso 29 marzo tra il sindacato
Histadrut e l'associazione delle imprese. La riduzione dell'orario sarà
applicata dai datori di lavoro, prendendo in considerazione le
richieste e le esigenze dei lavoratori. In accordo con il sindacato, e
una volta che il nuovo orario sarà entrato in vigore, il salario sarà
calcolato sulla base di 182 ore al mese di lavoro, invece di 186, come
avviene attualmente. L'accordo include le modifiche anche nelle
modalità di lavoro notturno e di lavoro straordinario. La riduzione
della settimana lavorativa dovrebbe entrare in vigore già a partire dal
mese di luglio 2017, a meno che le parti non concordino su una
soluzione alternativa per l'istituzione di fine-settimana lunghi.
Soddisfatto il presidente di Histadrut, Avi Nissenkorn (nell'immagine),
per il quale l'intesa raggiunta favorisce il giusto equilibrio tra
lavoro e tempo libero, e avrà un effetto positivo anche in termini di
produttività del lavoro. Sulla stessa linea il commento del leader
degli imprenditori, Shraga Brosh, per il quale le imprese sono pronte
ad affrontare i cambiamenti del mercato del lavoro, consentendo una
divisione più corretta e flessibile tra tempo libero e tempo di lavoro
per tutti i loro dipendenti.
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l'attrice gal gadot
Wonder woman d'Israele
“Ballerina
da sempre, soldatessa nell’esercito israeliano per due anni, top model
e quindi Miss Israele. Oggi Gal Gadot è moglie e madre (è sposata col
businessman Yaron Versano, ha due figlie: Alma di 5 anni e Maya, nata
il 20 marzo scorso), dice di essere un’ottima casalinga e cuoca: «Adoro
stare ai fornelli e invitare i vicini ai miei barbecue». Sullo schermo,
nei vari Fast & Furious che l’hanno rivelata è maestra di
kick-boxing, capoeira e Jiu-jitsu. Poi, quando ci si mette d’impegno –
l’avete vista in Le spie della porta accanto? – sorprende con un
discreto sense of humor.
Gal Gadot è a Los Angeles per promuovere il suo ultimo film, Wonder
Woman - la popolare eroina dei DC Comics portata con successo sul
piccolo schermo, negli anni ’70, da Lynda Carter – nei panni di Diana
di Themyscira, principessa e amazzone, idealista e combattiva, che
lotta per un mondo migliore e senza frontiere. E tale è il potere
dell’icona che l’Onu, pochi mesi fa, la nominò ambasciatrice onoraria
per il suo messaggio di «autoaffermazione per le donne e le ragazze di
ogni Paese». Nomina poi revocata per le proteste di chi trovava il
personaggio eccessivamente sensuale. «Una doccia fredda» commenta
Gadot. "Con tutte le cose brutte che succedono al mondo… Diana è
intelligente e forte, non può essere anche sexy?".
Alessandra Venezia, Io Donna
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