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22 Ottobre 2017 - 2 Cheshvan 5778
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l'analisi dei dati di un trend complesso e spesso mal interpretato

Emigrazione israeliana: i numeri di una scelta

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Israele è uno dei paesi nei quali l’indice di ottimismo è fra i più elevati del mondo. L’ottimismo riflette le valutazioni sulle condizioni economiche personali e collettive attuali e previste per il prossimo futuro, lo stato di salute, la situazione familiare, l’alloggio, la qualità della vita, e molti altri indicatori. Esiste, è vero, il problema della sicurezza, sia al livello macro-strategico della potenza iraniana, sia al livello micro-tattico dell’accoltellatore dilettante in libera uscita. Questi fattori raccomandano cautela e saggezza, e introducono un elemento di insicurezza nella vita quotidiana. Si tratta di fenomeni ciclici da seguire attentamente. In complesso, per lo meno relativamente ad altri momenti storici, le cose vanno abbastanza bene. Allo stesso tempo lo sport nazionale in Israele è il continuo lamentarsi che le cose vanno male: nella politica, nelle discussioni al bar, nelle serate familiari in salotto o davanti alla televisione. Una delle conclusioni di questi piccoli simposi è che il paese è invivibile, e l’unica cosa che resta da fare è andarsene. Emigrare. E tutto questo, dopo che tutti gli indicatori di fatti e opinioni dimostrano manifestamente il contrario.
Resta la curiosità, anzi il dovere, di accertare che cosa stia realmente avvenendo con l’emigrazione da Israele: valanga inarrestabile di masse o stillicidio di individui? Quali sono le tendenze? Riassumiamo alcuni dati dell’Ufficio Centrale di Statistica – l’integerrimo e professionalissimo CBS (in ebraico: la Lishkà, l’Ufficio). I dati definitivi sono sempre in ritardo di un anno o due perché per definire che una persona è emigrata bisogna attendere un tempo sufficiente dal momento della partenza. Un “emigrato” è tecnicamente una persona assente dal paese per 12 mesi consecutivi. D’altra parte un “cittadino che ritorna” è una persona che rientra in Israele dopo aver trascorso 12 mesi consecutivi all’estero. Nei cinque anni 2010-2014, ci sono stati in totale 38 milioni e 782.693 di ingressi in Israele, di cui 22 milioni e 864.400 cittadini israeliani, contro 38 milioni 631.900 di partenze dal paese, di cui 22 milioni 942.300 israeliani. Queste cifre quasi incredibili per un paese di 8 milioni e
700.000 abitanti danno un’idea dell’intensità dei contatti tra Israele e il resto del mondo. Molte di queste partenze e di questi arrivi sono di persone che viaggiano e soggiornano all’estero più di una volta nel corso di un determinato anno. Israele è parte integrante della vita economica, accademica, turistica nell’era della globalizzazione. Vivere in Israele non significa rimanere posteggiati a vita, e questo è vero oggi in una certa misura per tutti i paesi del mondo. L’emigrazione definitiva non può essere completamente isolata da altri tipi di partenza temporanea e di ritorno al paese di residenza. È molto difficile definire l’emigrazione permanente, perché si può sempre tornare dopo qualche anno, o anche soggiornare a lungo termine all’estero, ma tornare per brevi periodi di tempo, rompendo così il periodo di permanenza di un anno all’estero che è il principale indicatore del numero di migranti. Questa incertezza aiuta a nutrire un ricorrente discorso selvaggio e in parte inspiegabile sul numero degli “emigranti” israeliani all’estero.

Sergio Della Pergola, Università Ebraica di Gerusalemme

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le proteste contro l'obbligo di leva per gli studenti delle yeshivot

I haredim, l'esercito e la frattura da ricomporre

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Due video girati a Gerusalemme sono circolati molto in questa settimana. Entrambi legati alle proteste del mondo haredi (i cosiddetti ultraortodossi) contro l'obbligo di leva per gli studenti delle yeshivot (svuole religiose). Un tema sempre caldo in Israele, tornato attuale in agosto dopo che la Corte Suprema ha dichiarato l'incostituzionalità dell'accordo governativo che consente l'esenzione dall'esercito per la maggior parte dei haredim. Due di loro sono stati arrestati in settimana per non aver risposto alla cartolina di richiamo dell'esercito. E così migliaia di ultraortodossi sono scesi in piazza in loro sostegno e per protestare nuovamente contro la coscrizione obbligatoria. La tensione è salita e i due video citati ne danno una parziale rappresentazione: in uno, si vede un poliziotto israeliano estrarre la pistole e puntarla contro i dimostranti, dopo essersi trovato le cuore di una delle manifestazioni. La polizia israeliana, a riguardo, ha dichiarato che un'indagine preliminare ha indicato che "l'ufficiale si è trovato all'interno di un gruppo di manifestanti violenti che lo hanno circondato e hanno lanciato pietre e oggetti contro la sua auto di pattuglia, bloccando il suo percorso, mentre continuavano ad avvicinarsi in modo minaccioso, insultandolo e scuotendo l'auto di pattuglia. Ad un certo punto, l'ufficiale si è sentito minacciato e ha cercato di farli allontanare. In ogni caso l'ufficiale è stato convocato per chiarimenti”. Nell'altro video, girato anche sui social network italiani, si vede invece una soldatessa israeliana fuori servizio affrontare da sola una folla di manifestanti haredi: Nomi Golan, la soldatessa, stava tentando di far passare un’auto attraverso il gruppo di dimostranti che stavano bloccando la strada per protesta. Il video mostra Golan respingere, usando tecniche di arti marziali, il gruppo di uomini intorno a lei che la insultano e minacciano.
I due video, molto discussi, raccontano di un problema insoluto della società israeliana: quello dell'integrazione dei haredim e in particolare della loro partecipazione alla difesa dello Stato.  “La storia di questa controversia sociale riflette la storia dello Stato d'Israele”, ha scritto la presidente della Corte Miriam Naor nelle 148 pagine della citata sentenza sulla leva obbligatoria.

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dall'estero chiedono a gerusalemme di regolare le società forex

Trading online, un argine alle truffe

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Quando a metà settembre la trentenne israeliana Lee Elbaz è scesa dall'aereo che da Tel Aviv l'aveva portata a New York, non si aspettava che ad attenderla nel terminal dell’aeroporto Kennedy ci fossero due agenti dell'FBI con un mandato d’arresto: il capo d'accusa principale per la Elbaz è di concorso in truffa, per aver raggirato centinaia di clienti negli Stati Uniti mediante la società israeliana di trading online di cui lei è amministratore delegato. Alla Elbaz sono stati concessi gli arresti domiciliari, sia pure dietro cauzione di quasi due milioni di dollari, ma ora rischia una condanna fino a venti anni di carcere.
Questo episodio rappresenta l'ennesima conferma che l’attività illecita che da molti anni le società israeliane di trading online compiono ai danni di cittadini stranieri, soprattutto europei e americani, è divenuta ormai per Israele una fonte di problemi diplomatici con le autorità dei paesi dove risiedono le vittime: i governi degli Stati Uniti e del Regno Unito, in particolare, hanno deciso di intervenire direttamente per contrastare il fenomeno, come dimostra il clamoroso arresto effettuato a New York, e stanno esercitando forti pressioni sulle autorità israeliane affinché mettano fine a questa attività.

Aviram Levy, economista

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in israele scetticismo sull'accordo tra i due movimenti palestinesi

Hamas-Fatah, riconciliazioni pericolose

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“Tutte le parti convengono che è indispensabile che l'Autorità palestinese assuma la piena ed autentica responsabilità civile e della sicurezza di Gaza, senza ostacoli, e che lavoreremo insieme per migliorare la situazione umanitaria per i palestinesi che vi abitano”. A scriverlo in un comunicato ufficiale l’inviato speciale statunitense per il Medio Oriente, Jason Greenblatt (nell'immagine in un incontro con il Premier israeliano Benjamin Netanyahu), commentando la recente riconciliazione fra il movimento terroristico di Hamas, che controlla la Striscia, e Fatah, partito spina dorsale dell'Autorità nazionale palestinese che controlla la Cisgiordania. Secondo quanto riporta una nota diffusa dall’ambasciata Usa in Israele, Greenblatt ha spiegato che le parti ritengono “essenziale” lavorare insieme per migliorare la situazione umanitaria per i palestinesi che abitano a Gaza. “Gli Stati Uniti ribadiscono l'importanza di rispettare quattro principi: qualsiasi governo palestinese deve impegnarsi in modo non ambiguo ed esplicito per la non-violenza, riconoscere lo Stato di Israele, accettare accordi e obblighi precedenti tra le parti – incluso il disarmo dei terroristi - e impegnarsi per negoziati pacifici”, chiarisce Greenblatt. “Se Hamas deve svolgere un ruolo in un governo palestinese, deve accettare questi requisiti fondamentali”, conclude l’inviato Usa. Ad inizio settimana, il gabinetto di sicurezza israeliano ha annunciato che non negozierà con Gaza finché Hamas non risponderà alle richieste di Gerusalemme. Il Primo ministro israeliano Netanyahu ha affermato che Israele non avvierà i colloqui finché Hamas non riconoscerà lo Stato ebraico e non deporrà le armi, nel rispetto dei quattro principi stabiliti oltre dieci anni fa, a cui lo stesso Greenblatt ha fatto riferimento.
Lo scorso 3 ottobre si è svolta a Gaza la prima riunione tra il premier palestinese Rami Hamdallah e il leader di Hamas, Ismail Haniyeh, in seguito all’intesa di riconciliazione raggiunta al Cairo a settembre. Sulle armi in dotazione ad Hamas è intervenuto il presidente dell’Anp, Mahmoud Abbas, affermando che non accetterà uno scenario in cui il movimento palestinese continui ad avere un proprio arsenale. In base all'accordo di riconciliazione, l'Anp, guidata da Fatah, dovrebbe assumere il controllo della Striscia di Gaza il prossimo primo dicembre.
Da Hamas - che intanto ha inviato alcuni delegati a Teheran -  in settimana è arrivata l'ennesima dimostrazione della sua natura: "Il tempo in cui Hamas ha discusso di riconoscere Israele è finito, ora discuteremo quando Israele sarà cancellata", il violento messaggio inviato dai leader del movimento terroristico.

 
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