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22 Dicembre 2017 - 4 Tevet 5778
PAGINE EBRAICHE 24


ALEF / TAV DAVAR PILPUL

alef/tav

Pierpaolo Pinhas Punturello, rabbino
Rav Yosef B. Soloveitchik insegna che ciò che tiene legato il bambino al padre è la necessità della scoperta delle proprie origini, la fonte, la causa della propria esistenza, l’urgente bisogno di cercare i propri ormeggi, lo scongiurare “la paura di essere inseguito senza senso come una foglia secca guidata dal vento in una notte scura di novembre”, secondo le stesse parole del rav. Per te, amore mio, che inizi il tuo cammino lontano e vicinissimo a me, che non ci sia mai freddo, né notte scura di novembre, né viaggio di foglia senza senso.
 
Gadi
Luzzatto
Voghera,
direttore
Fondazione CDEC
Il termine “sionismo” in alcuni ambienti mediatici e politici viene sempre più spesso sottratto alla sua concretezza storica per proiettarlo in una dimensione immaginaria utile per scrivere striscioni, bandiere e manifesti politici, ma poco interessante per conoscere la storia e interpretarla in maniera critica. Nel bel mezzo della Grande Guerra nasceva in seno all’ebraismo italiano un nuovo settimanale. Si trattava di “Israel”, una testata nella quale confluivano il “Corriere Israelitico” di Trieste (all’epoca terra contesa) e la “Settimana Israelitica” di Firenze. In un’epoca di scontro fra contrapposti nazionalismi, vecchie e nuove nazioni andavano affermando in vario modo le loro aspirazioni. Fra queste, anche gli ebrei europei – che erano stati massacrati e vilipesi a centinaia di migliaia a partire dalla seconda metà dell’800 da una crescente violenza antisemita che conosceva nuove e inedite connotazioni politiche – avevano aperto una stagione di nazionalismo. Anche nella minoritaria esperienza italiana questa aspirazione aveva conosciuto importanti espressioni teoriche e intellettuali, guidate in particolare dai rabbini e giornalisti Dante Lattes e Alfonso Pacifici che si erano infine ritrovati attorno a un progetto comune proprio durante la prima guerra mondiale. Un settimanale da subito molto diffuso, ideologicamente connotato in direzione di un risveglio della coscienza nazionale ebraica. Ma, nel contempo, un organo di stampa che contribuì alla diffusione e al radicamento dei principi della tradizione ebraica in una minoranza per lo più assimilata e lontana dalle tradizioni. Negli anni del fascismo il giornale divenne una delle poche palestre di libertà di stampa dell’intero panorama italiano, fastidioso al punto da essere oggetto di un attacco squadrista che nel 1938 ne provocò la chiusura. Solo nel 1944 (a Roma liberata) il settimanale poté riprendere le pubblicazioni.
 
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Onu, l'Italia vota
contro gli Usa
C’è anche l’Italia tra i paesi che alle Nazioni Unite hanno votato sì alla risoluzione presentata da Yemen e Turchia contro il riconoscimento di Gerusalemme capitale di Israele deciso dall’amministrazione Trump e l’intenzione di spostare l’ambasciata americana annunciata dall’inquilino della Casa Bianca. “Gli Stati Uniti si ricorderanno di questo giorno” ha sottolineato l’ambasciatrice Nikki Haley al termine del voto. Mentre il collega israeliano Danny Danon ha detto, a proposito della risoluzione: “Finirà nell’immondizia della Storia”. “A schierarsi apertamente contro la risoluzione – scrive Repubblica – solo in nove: oltre, ovviamente a Stati Uniti ed Israele, ecco Guatemala, Honduras, e i minuscoli stati di Nauru, Palau, Togo, Micronesia e Isole Marshall. La cosa più vicina a un appoggio, che Trump ha ottenuto da alleati storici come Canada, Australia, Messico e perfino le Filippine dell’amico Duterte, è stata l’astensione: in 35 hanno scelto di non sostenere gli Stati Uniti votando contro la mozione, ma nemmeno li hanno criticati con un voto a favore”.
Scrive Bernard-Henri Levy sul Corriere: “Gerusalemme è chiaramente, e da sempre, la capitale di Israele. Avverto tuttavia qualcosa di assurdo, e anche di scandaloso, nell’indignazione planetaria suscitata dal riconoscimento, da parte degli Stati Uniti, di questa evidenza”. L’intellettuale francese non nasconde però le sue perplessità sulla mossa di Trump: “Sarebbe stato infinitamente meglio calare questa carta vincente, la decisione di riconoscere Gerusalemme come capitale, all’interno di un vero piano di pace, il solo in grado di garantire l’inalienabile diritto di questo paese all’esistenza e alla sicurezza. Ma il quarantacinquesimo presidente degli Stati Uniti non se n’è curato minimamente: mirava alla spacconata politica – scrive BHL – non a scrivere la Storia”.
Sul Giornale Fiamma Nirenstein parla della posizione italiana come di un ‘peccato mortale’. “Tutti i suoi ultimi primi ministri – scrive la giornalista ed ex parlamentare – hanno parlato alla Knesset pretendendo amicizia immortale. Tutti hanno visto la bellezza della città amata da 3mila anni, mai capitale di nessun altro, e il rispetto democratico per le tre componenti religiose”. Il voto, aggiunge, “è stato un misto di antisemitismo, di paura, di cecità di chi non vede che solo la verità può indurre un processo di pace, e che le menzogne odierne non hanno mai spinto i palestinesi a rinunciare al terrorismo e al rifiuto di Israele”.
Profonde anche le ripercussioni nel mondo dello sport. Come abbiamo avuto modo di anticipare ieri pomeriggio sui nostri canali social, il ciclista turco Ahmet Orken ha infatti lasciato la Israel Cycling Academy, prima squadra professionistica israeliana di ciclismo. Come ha spiegato lo stesso atleta in una drammatica comunicazione, a pesare sono state le minacce ricevute da madre e fratello (che vivono in Turchia). Scrive la Gazzetta: “La sua avventura è finita ieri. Un bruttissimo colpo per chi crede nei valori assoluti dello sport”.
 
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  davar
il ciclista turco ingaggiato dalla academy 
"La mia famiglia minacciata,

addolorato ma devo lasciare"
“Una decisione che ci ha spezzato il cuore”.
Con queste letterali parole la Israel Cycling Academy ha comunicato, nel tardo pomeriggio di ieri, la risoluzione del contratto con il corridore turco Ahmet Orken.
Ad interrompersi è un sodalizio davvero speciale, che prometteva di andare ben oltre la dimensione agonistica. Un atleta turco (e musulmano) ingaggiato dalla prima squadra professionistica israeliana, alla vigilia dell’anno che porterà il Giro d’Italia a Gerusalemme (e con la Academy in lizza per una wild card, che molto probabilmente otterrà). In un Medio Oriente sempre più in frantumi, un messaggio in controtendenza che aveva avuto un forte impatto sull’opinione pubblica.
La richiesta di risoluzione è arrivata da Orken ed è stata motivata, così ha sostenuto l’atleta, “dall’effetto che i recenti eventi hanno avuto su di me e sulla mia famiglia”. Dove per “recenti eventi”, spiega la Academy in una nota, va inteso lo scenario di crisi che si è aperto dopo l’annuncio di Trump su Gerusalemme delle scorse settimane. Tra i paesi più apertamente ostili proprio la Turchia, con il presidente Erdogan che si è lasciato andare a dichiarazioni di estrema gravità guidando tra l’altro il fronte che ieri alle Nazioni Unite ha fatto sì che l'iniziativa fosse rigettata dall’assemblea (con il sì dell’Italia, insieme ai principali paesi europei). Non a caso, senza entrare troppo nel dettaglio ma lasciando intendere scenari particolarmente inquietanti, Orken ha riferito di “situazioni terribili” che hanno riguardato la madre e il fratello (che vivono in una città dell’Anatolia, Konya).
Ci ha provato in tutti i modi, la Academy, a fargli cambiare idea. Addirittura inviando il proprio general manager Ran Margaliot a casa Orken, dove ha avuto luogo un confronto con i familiari. “La decisione ci rattrista, naturalmente – commenta Margaliot – ma le porte della Academy rimarranno sempre aperte in caso di un suo ripensamento. La nostra sfida andrà comunque avanti, e così il messaggio di dialogo e coesistenza che vogliamo promuovere attraverso lo sport”.
Proprio Orken era stato uno dei protagonisti della cerimonia al Centro Peres per la Pace di Tel Aviv nel corso della quale, lo scorso novembre, i corridori della Academy (tra cui l’italiano Kristian Sbaragli) erano stati insigniti del titolo di “ambasciatore per la pace”. Il volto sorridente e disteso. La voglia di lanciare messaggi di normalità. “Entrare a far parte di una squadra israeliana non l’ho mai visto come un problema. Al contrario tutti intorno a me hanno sostenuto questa decisione con entusiasmo” ci raccontava Orken. Aggiungeva poi: “Aspettavo da tempo la possibilità di gareggiare con un team in crescita e con delle ambizioni. La più grande motivazione che mi ha spinto qui è stata quella di aggiudicarmi delle corse, ma sono anche consapevole dell’importanza di questa iniziativa su un altro piano: lanciare un segnale di pace e fratellanza”.
I suoi occhi parlavano chiaramente. Era una sfida che sentiva, non uno slogan privo di contenuti. Cercava l’abbraccio dei compagni, e i compagni cercavano lui.
Una bella storia, ora drammaticamente interrotta. E una triste pagina per tutti gli appassionati di ciclismo.

(Foto di Brian Hodes – Velo Images)

Adam Smulevich twitter @asmulevichmoked


l'incontro al centro bibliografico
Gli ebrei e l'esperienza mistica,

nel Talmud il punto di partenza
“Non vivremo questa sera un’esperienza mistica. Iniziamo a sgombrare il campo da possibili equivoci su cosa sia la mistica ebraica”. Con questa affermazione ironica e paradossale, ma al tempo stesso sintetica di tutta la riflessione successiva, rav Benedetto Carucci Viterbi ha aperto il suo seminario “Vivere l’esperienza mistica”, che è parte del ciclo “Il popolo dei libri. Un viaggio attraverso i testi della tradizione ebraica”. Iniziativa che, da maggio 2017, si sta svolgendo mensilmente, presso il Centro Bibliografico Tullia Zevi, con l’obiettivo di fornire strumenti metodologici e chiavi di orientamento in questa vasta letteratura e sottolineare come lo studio e l’interpretazione attiva, individuale e al tempo stesso collettiva di questi testi, di generazione in generazione, costituiscano un elemento fondante della vita e della spiritualità ebraica.
È possibile individuare tratti caratteristici dell’esperienza mistica ebraica? Oppure declinare la mistica in genere secondo parametri specifici finisce per diventare una contraddizione in termini? Se il raggiungimento di un rapporto diretto con Dio è la finalità di qualsiasi esperienza mistica, l’introduzione di connotati culturali e religiosi specifici non rischia infatti di interporre in questo contatto una mediazione? Secondo rav Carucci non vi è in ciò alcuna contraddizione o svilimento della mistica: ogni tradizione ricorre necessariamente alle proprie categorie religiose e culturali per entrare in rapporto diretto con Dio.
A smentita di una superficiale ma consolidata vulgata che ha considerato la mistica ebraica come folklore popolare ed eterodosso, rav Carucci ha mostrato – sulla scia di Gershom Scholem, pioniere degli studi sulla Cabbalà e della sua valorizzazione – come essa si inserisca senza soluzione di continuità all’interno della tradizione, incardinandosi rigorosamente al suo interno e a sua volta fecondandola.


Raffaella Di Castro
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pilpul
Captatio benevolentiae
Criticare Israele davanti a un pubblico filoisraeliano e criticare i palestinesi davanti a un pubblico filopalestinese. Suona come una grande prova di coraggio e onestà intellettuale. In realtà non funziona. Voglio dire, funziona se lo scopo è sentirsi bene con se stessi, ma non funziona per convincere gli altri. Lo avevano capito benissimo già gli antichi: senza captatio benevolentiae non si va da nessuna parte. Se non disponiamo i nostri interlocutori ad ascoltarci con benevolenza tireranno giù la saracinesca delle orecchie prima ancora che noi abbiamo iniziato a parlare. Dire alle persone quello che non vogliono sentirsi dire, contrariamente a quello che a volte si afferma, non è un modo per distruggere certezze o instillare dubbi. Anzi, rafforza l’ascoltatore nelle sue certezze di segno opposto.

Anna Segre, insegnante
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Mother!
Nell’ultimo film di Darren Aronofsky, Mother!, l’umanità viene percepita agli occhi di una giovane coppia di fidanzati che vive in una bellissima casa in un luogo verde e remoto, come stupida, invasiva e arrogante, dominata dalla violenza e dal fanatismo. Il film è facilmente leggibile in chiave biblica, dove attraverso numerosi riferimenti allegorici s’instaura il rapporto maschile/femminile del Creatore con la Terra, e poi dell’uomo con ambedue.
Tra i registi attuali, Aronofosky è uno tra i più virtuosi e promettenti, nato in una famiglia ebraica di Brooklyn, ha sovente inserito nelle proprie pellicole richiami alla propria cultura d’origine, da “Pi – il teorema del delirio” sino al recente “Noach”, unendo a ciò un chiaro messaggio ambientalista. Ciò che ne è derivato è un cinema concettuale, non di rado disturbante, che può essere visto senza difficoltà da un pubblico di massa anche poco preparato. Di fronte al caos contemporaneo Mother! ci può offrire una diversa visione del nostro mondo, delle nostre fatiche e dell’odio che viene coltivato all’interno di una casa fatiscente sempre più stretta. Un tentativo forse a tratti presuntuoso da parte di un regista, ma che è utile a rimarcare l’havel havalim e come di fronte all’universo e alla grandezza di D.o non saremmo in fondo che nulla.


Francesco Moises Bassano



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