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16 gennaio 2018 -  28 tevet 5778
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MEMORIA & LETTERATURA

Primo Levi, rileggere per meglio capire

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"Settanta anni fa usciva a Torino presso un piccolo editore Se questo è un uomo. Era l'opera di uno sconosciuto aspirante scrittore, che raccontava agli italiani la vicenda dei campi di sterminio nazisti. In questi sette decenni questo libro si è trasformato in un classico della nostra letteratura. Com'è potuto accadere che questo volume, riprodotto su una carta povera del dopoguerra - era il 1947 - sia divenuto così importante?" Sono le parole con cui si presenta il nuovo numero di Riga, appena uscito, dedicato a Primo Levi a vent'anni dal primo volume monografico dedicatogli dalla rivista fondata da Marco Belpoliti ed Elio Grazioli. Pubblicata dall'editore marcos y marcos, con questa ultima uscita arriva al numero 38, che si apre con un testo inedito di Aldo Zargani, per continuare con alcuni testi poco noti di Levi, interviste apparse sui giornali o registrate dal 1963 al 1986 e alcune brevi dichiarazioni su vari argomenti. La parte centrale del volume riproduce la maggior parte dei saggi che già comparsi nel volume di Riga del 1997, cui si aggiungono un testo sul rapporto con Israele e un racconto della ricezione in America. Chiudono gli atti del convegno "Primo Levi antropologo ed etologo" del 2016. L'intervista da cui è estratto il testo che pubblichiamo in queste pagine si intitola "Storia della mia vita" ed è stata registrata nel 1982 da Pier Mario Fasanotti e Massimo Dini. Si tratta della più ampia di tre versioni della stessa intervista, pubblicata su Riga, che doveva essere inserita in un volume dedicato al mestiere di scrittore con colloqui di vari autori, ma il volume non uscì. È uscito invece sull'ultimo numero della rivista letteraria “Il Verri” un lungo articolo in cui Marco Belpoliti riprende e rielabora i testi pubblicati settimanalmente, per qualche mese, nella newsletter quotidiana Pagine Ebraiche 24, e intitolati “Levi papers”, sul lavoro dello scrittore. Ne riproponiamo qui due.

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MEMORIA & LETTERATURA

Primo Levi fra scrittura e narrazione

img headerAA.VV. / PRIMO LEVI / marcos y marcos

[La mia esperienza del Lager] è qualcosa di lontano nel tempo e non mi ferisce più. Non la sogno più, per esempio; la sognavo sovente, e ora non la sogno più da molti anni. Però in primo luogo la percepisco ancora come l’avvenimento fondamentale della mia esistenza, dalla quale non si può prescindere, senza la quale sarei diverso; per un altro verso, l’averne scritto è stato per me un’altra avventura, altrettanto grossa, altrettanto ingombrante e stranamente le due esperienze si compensano e si mescolano: il fatto negativo del Lager e il fatto positivo di averne scritto e di essermi arricchito scrivendone, di aver fornito una documentazione, aver fatto una testimonianza. Questa esperienza è positiva e va a compensare l’altra e si è anche, in un certo modo, sostituita all’altra come una specie di memoria artificiale. Mi funge da memoria. P r o p r i o adesso sto cercando di fare un’altra cosa, cioè di rielaborare queste esperienze in senso generale, cioè di scrivere una serie di saggi – se sarà un libro ancora non lo so – su alcuni aspetti del fenomeno deportazione, che mi sembrano un po’ trascurati dalla letteratura, non solo dalla mia, da quella che ho scritto io, ma anche dagli altri. Alcuni aspetti, per esempio, la comunicazione, cioè quanta parte abbia avuto per molti, se non per tutti, il fatto della mancanza di comunicazione, quanto il difetto di comunicazione, l’interruzione, il taglio del telefono insomma, abbia pesato per accrescere la sofferenza della deportazione, fino a renderla mortale. La maggior parte dei miei colleghi ebrei sono morti per non aver potuto trasmettere notizie, erano isolati, come dei sordomuti ciechi, incapaci di sopravvivere.

L’intervista da cui è estratto questo testo,“ Storia della mia vita” è stata raccolta da Fasanotti e Dini nel 1982 ed è pubblicata integralmente su Riga.

Pagine Ebraiche, gennaio 2018

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Memoria & LETTERATURA

Levi papers: il lavoro dello scrittore

img headerAA.VV. / IL VERRI / Edizioni del Verri

Partigiano - È il primo foglio dattiloscritto che Levi acclude al libro della prima edizione del 1947 di Se questo è un uomo. Si tratta del nuovo inizio del libro. Non comincia più con il campo di Fossoli e con i deportati: «Alla metà del febbraio ’44, gli ebrei italiani nel campo di Fossoli erano circa seicento... » recitava l’edizione De Silva. Ora Levi parla dell’esperienza partigiana: «Ero stato catturato dalla Milizia fascista il 13 dicembre 1943 (...). Non mi era stato facile scegliere la via della montagna, e contribuire a mettere in piedi quanto, nella opinione mia e di altri amici di me poco più esperti, avrebbe dovuto diventare una banda partigiana affiliata a “Giustizia e Libertà”...». La cornice iniziale è mutata negli anni che vanno dal 1946 al 1958, quando esce la versione accresciuta di Se questo è un uomo presso Einaudi. La lotta partigiana entra nel libro sin dal suo esordio. Si tratta di uno dei cambiamenti sostanziali tra il libro del 1947 e quello del 1958. Sono lo stesso libro, ma non sono lo stesso libro. Nelle Opere c o m p l e t e pubblicate da Einaudi si leggono entrambi. Emilia - Aperto da quell’avverbio – «Così» –, che suona come un colpo di gong, è uno dei brani più commoventi di Se questo è un uomo. Si tratta di un passo aggiunto alla s e c o n d a edizione del 1958 nel capitolo Il viaggio; non c’era nel 1947. Come mai?

m.b., Pagine Ebraiche, gennaio 2018 

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LETTERATURA

Sulle orme di Bassani, una vita per Micòl

img headerWaltraud Mittich / MICÒL / Alphabeta Verlag

Nel 1962 Giorgio Bassani pubblicò il suo romanzo più famoso, Il giardino dei Finzi-Contini, che racconta l’amore impossibile di un giovane per Micòl, ragazza ebrea che finirà deportata. Un destino che Waltraud Mittich, scrittrice sudtirolese, non ha mai voluto accettare. Così in questo breve romanzo, il cui titolo è proprio Micòl, pubblicato da Alphabeta Verlag, editore che opera da più di vent’anni in Alto Adige, l’autrice immagina la vita che la bella e intelligente ragazza ebrea ferrarese avrebbe potuto vivere se le cose fossero andate diversamente, e ne riprende e prosegue la storia.
La Micòl della Mittich, sopravvissuta alla deportazione, dopo la guerra torna a Ferrara. E, seguendo varie vicissitudini, diventa una donna capace di elaborare un proprio canone di femminilità che la conduca alla libertà e all’autoaffermazione. L'autrice, con questo suo omaggio a Giorgio Bassani, tratteggia una possibile sorte alternativa di uno dei personaggi letterari più famosi della letteratura italiana del secondo '900. Il romanzo è tradotto dal tedesco da Giovanna Ianeselli e Stefano Zangrando.

Marco Di Porto

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STORIA

Moshe e la repubblica
degli orfani 

STORIa

Il Pacifico degli errori

Sergio Luzzatto /
I BAMBINI DI MOSHE / Einaudi

Una foto sbiadita, lontana nel tempo, vicina nell'immaginazione. David Kleiner, il padre, ha cappello e caffettano, come s'usava allora per tradizione tra gli ebrei dell'Europa orientale. La lunga barba, le spalle un po' curve, l'aria stanca e rassegnata. La madre tiene la schiena dritta, i begli occhi chiari guardano fissi verso l'obbiettivo. Si capisce che è lei, Zippora, la vera anima della famiglia. Un po' imbarazzata, in piedi, la figlia maggiore. Rivka è bravissima a scuola, intraprendente, volitiva. Moshe, il minore, ha l'atteggiamento vispo di chi vuol crescere in fretta, e ne sa già molte. L'immagine viene dallo shtetl, la cittadina ebraica di Kopyczyríce, nella parte dell'Ucraina allora sotto governo polacco. Siamo verso il 1925, Moshe ha undici o dodici anni e non sa quello che lo aspetta.

Giulio Busi,
Il Sole 24 Ore Domenica, 14 gennaio 2018


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Douglas Ford /
LA GUERRA
NEL PACIFICO /Il Mulino

Nel dicembre 1941, quando attaccarono Pearl Harbor, le Filippine e le colonie europee del Sudest asiatico, i giapponesi sbagliarono i calcoli, sottolinea lo storico inglese Douglas Ford nel libro La guerra nel Pacifico (traduzione di Francesco Francis, il Mulino, pagine 385, 28). Pensavano di condurre una «campagna limitata», che consentisse di occupare un'area ricca di materie prime (carenti nel loro arcipelago) e di difenderla con successo per costringere gli occidentali a una pace negoziata. S'illudevano, perché la reazione metodica e implacabile degli Stati Uniti, che misero in moto il loro preponderante apparato industriale, generò «una lunga guerra di logoramento» che Tokyo non aveva i mezzi per reggere.


Antonio Carioti, Corriere della Sera, 15 gennaio 2018


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