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 22 maggio 2018 -  8 sivan 5778
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umorismo

Cos’è una barzelletta ebraica

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SJeremy Dauber / JEWISH COMEDY: A SERIOUS HISTORY / W.W. Norton & Company
Devorah Baum / THE JEWISH JOKE / Profile Books
Devorah Baum / FEELING JEWISH /Yale University Press

Si può ridere dell’umorismo ebraico? Forse no. Gli studiosi di barzellette sugli ebrei hanno certamente rivelato l’esistenza di lati oscuri in quei signori e signore Goldberg, nel loro rabbino molto paziente, nel mendicante incredibilmente forbito che si presenta alla loro porta. Freud, per esempio, scoprì che l’umorismo degli ebrei era particolarmente autodenigratorio. La sua analisi non era scientifica, i dati non erano altro che le sue barzellette preferite, ma la sua conclusione sembra più o meno vera. Ruth Wisse, professoressa di yiddish ad Harvard, nel 2013 ha affermato che scherzare troppo potrebbe in effetti essere negativo per gli ebrei. E ovviamente, una buona parte di umorismo ebraico riguarda argomenti non divertenti, come i pogrom e l’Olocausto.
Il primo capitolo di un nuovo studio di Jeremy Dauber, professore della Columbia University, considera la comicità ebraica come una risposta all’antisemitismo e alla persecuzione. È un capitolo colmo di tragedia e sofferenza, ma Dauber riconosce la molteplicità dell’umorismo ebraico e si oppone saggiamente a qualsiasi sua caratterizzazione. Invece, organizza il suo libro attorno a sette temi, dei quali gli altri sei sono: la satira delle regole ebraiche, giochi di parole colti e allusivi, la volgarità e il corpo, ironia metafisica mordace, l’ebreo popolano comune e la natura ambigua dell’ebraicità.
Dauber sostiene che la prima risata dell’ebraismo si trova nel Libro della Genesi, quando l’anziana Sara derise la profezia secondo la quale avrebbe avuto un figlio dall’ancora più anziano Abramo, ma alla fine dovette ricredersi.

The Economist

Traduzione di Sara Volpe e revisione di Federica Alabiso, studentesse della Scuola Superiore Interpreti e Traduttori dell’Università di Trieste, tirocinanti presso la redazione giornalistica dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.

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storia

Ritratto di una famiglia del Novecento

img headerAnna Foa / LA FAMIGLIA F. / Laterza

È una storia di famiglia immersa nei grandi rivolgimenti della storia d'Italia, quella raccontata da Anna Foa nel bel libro “La famiglia F.”, di recente uscito per Laterza.
Figlia del politico, giornalista e sindacalista italiano Vittorio Foa, la storica si dedica con quest'opera a ricostruire vicende di cui ha una conoscenza diretta, di prima mano, mantenendo però un approccio rigoroso, “scientifico” (come in un vero e proprio saggio, alla fine del libro sono annessi una bibliografia e un indice dei nomi).
Al centro, la storia dei Foa, ebrei piemontesi da generazioni, e del ramo materno, i Giua, socialisti e lontani da convincimenti religiosi (il capostipite, Michele Giua, docente di chimica a Torino, era di origini sarde). Due famiglie profondamente radicate nella Torino che fu fondamentale baluardo dell'antifascismo e della Resistenza.
La figura di Vittorio emerge in tutta la sua statura: personalità di spicco della storia della sinistra italiana, fervente antifascista, fu arrestato nel 1935 a seguito della spiata di Pitigrilli, il delatore di origini ebraiche al servizio dell'Ovra. Uscito di prigione nel 1943, aderì alla Resistenza, militando nel partito d'Azione. Considerato uno dei padri fondatori della Repubblica, nel dopoguerra Vittorio Foa è stato tra i più amati protagonisti della politica e della cultura italiana.

mdp 

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memoria

'Kafka, il mio insegnante di ossessioni nascoste'

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img headerPhilip Roth / ROMANZI 1959-1986 / Meridiani Mondadori

Sole splendente, cielo azzurro terso e vento sferzante: cammino per le strade dell'Upper West Side di Manhattan verso l'appuntamento con Philip Roth. A pochi mesi dall'uscita del primo Meridiano Mondadori dedicato alla sua opera da me curato, sto per incontrarlo nel suo appartamento. Entrando, sono inondata dalla luce dell'ampio luminosissimo soggiorno, con finestre-balcone estese per gran parte della parete di fronte, aperte allo spettacolo della città. Roth indossa una camicia color carta da zucchero e pantaloni di lana marrone chiara. Accanto a noi, in questo ambiente splendente di luce, un tavolino su cui sono appoggiati molti libri. Senza molti preamboli, la conversazione inizia spaziando dai ricordi famigliari all'Italia conosciuta da giovane, dagli incontri con altri scrittori alle riflessioni sui suoi libri, con scoperte talvolta sorprendenti. È un Roth accogliente e in gran forma. «Sono felice», ammette con tutta semplicità, quando gli chiedo come si senta, ora che ha appena pubblicato in America una sua nuova splendida raccolta di saggi (Why Write?, 2017) e sono da poco usciti, in contemporanea, in Italia e in Francia, i primi volumi dedicati al complesso della sua opera narrativa da parte delle due più prestigiose collane letterarie di questi due Paesi, i Meridiani Mondadori e La Pléiade di Gallimard.

Perché nella raccolta di saggi ha deciso di collocare il suo testo del 1973, «"Ho sempre voluto che ammiraste il mio digiuno", ovvero, guardando Kafka», come primo pezzo della raccolta?

«Innanzitutto, è un testo che mi piace così tanto. È come se mi fosse arrivato in dono. Insegnavo all'Università della Pennsylvania all'inizio degli Anni 70, tenevo un corso su Kafka, e avevo una classe meravigliosa, con studenti così brillanti. Dunque stavo per scrivere questo testo biografico su Kafka per la classe. E poi, mentre lo scrivevo, mi è venuta questa idea di immaginare che Kafka, rifugiatosi in America, fosse divenuto il mio insegnante di scuola ebraica. Perché io andavo alla Hebrew School dopo la scuola. La odiavo, ma sono contento di averlo fatto. Gli insegnanti, alcuni di loro, erano dei profughi. È lì che mi è venuta l'idea, perché avevamo questi profughi, queste povere persone tormentate. Tutti noi ragazzi ebrei eravamo perfetti nella scuola normale e dei birichini alla Hebrew School».

Elèna Mortara, La Stampa, 12 maggio 2018 

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storia

Militanza antifascista

società

Il razzismo è una palla

Anna Foa / LA FAMIGLIA F. / Laterza


Se non fosse stato per il cardinale Ildefonso Schuster, arcivescovo di Milano, questo libro della storica Anna Foa non avrebbe mai visto la luce perché l'autrice, quasi certamente, non sarebbe nata. Nella terribile estate del '44 sua madre Lisa, staffetta partigiana incinta di lei, riuscì infatti a lasciare la prigione di Villa Triste - a gestirla era la famigerata banda Koch - grazie soprattutto all'intervento di Schuster: un alto prelato già filofascista trasformatosi, durante la guerra civile, in abilissimo negoziatore umanitario tra Cln, «repubblichini» e tedeschi. «Con ogni probabilità, gli devo la vita», scrive Anna Foa ricostruendo, con piacevole taglio narrativo, il proprio album di famiglia.



Raffaele Liucci,
Il Sole 24 Ore Domenica, 20 maggio 2018


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Antonio Dikele Distefano / NON HO MAI AVUTO
LA MIA ETÀ
/ Mondadori

Nelle sue stanze entra sempre il vento, insieme alla luce bianca dei lampioni. Fa freddo, lì dentro, e c'è tristezza. Spaghetti all'olio di semi, schiaffi in faccia e lavarsi alla fontana. Antonio Dikele Distefano è cresciuto, e con lui una malinconia narrativa profonda. Non ho mai avuto la mia età (Mondadori) racconta il tempo breve di chi è stato bambino troppo poco, con addosso la pelle scura, dentro una periferia di panchine, cassonetti, ruspe. Si guarda dai bordi la vita degli altri, di quelli che in te vedranno sempre qualcosa di cattivo. Con gli amici Inno, Claud e Sharif si va sul tetto del centro commerciale, il tetto del mondo, per urlare i desideri a un cielo sordo e remoto. Nessuno ascolta, nessuno può aiutare nessuno.

Maurizio Crosetti, Repubblica Robinson, 20 maggio 2018

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