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10 gennaio 2019 - 5 shevat 5779
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società

I ricchi, i poveri, gli ebrei

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Quando si parla degli ebrei, tanto nei discorsi comuni quanto in quelli degli studiosi si ritrova, e questo colpisce già abbastanza, una continuità e una relativa omogeneità dello stereotipo che vede gli ebrei come ricchi, al di là dell’evidenza storica o dell’esperienza. Sebbene una lunga serie di descrizioni della miseria degli shtetl o dei quartieri ebraici in Nord Africa, o dell’oscurità e della degradazione del ghetto di Roma sia, almeno a partire dal XIX secolo, lo sfondo di moltissimi romanzi, racconti di viaggi e descrizioni più o meno storiche, sebbene gli storici abbiano più volte ricostruito la complessità delle società ebraiche nelle diverse storie di cui gli ebrei erano protagonisti, l’immagine secolare dell’ebreo plutocrate e della naturale associazione degli ebrei alla ricchezza si afferma oggi come in passato ai più diversi livelli discorsivi, negando la realtà quotidiana visibile e le testimonianze che vengono dal passato. Il peso di questa contraddizione, a volte inavvertita o sottovalutata dagli ebrei colti che si sforzano di celebrare il contributo degli ebrei al progresso economico del mondo occidentale, spesso introiettata dagli ebrei giorno dopo giorno, ha prodotto curiose conseguenze. Effettivamente, se da un lato la storiografia antiebraica o antisemita tra il XIX e il XX secolo, fino al Die Judenunddas Wirtschaftsleben di Sombart del 1911, ha spesso rappresentato gli ebrei come soggetto collettivo vago e dalla volontà non facilmente distinguibile, vista la sua favolosa ricchezza e la sua abilità non meno prodigiosa di avere a che fare con i numeri e il denaro e di far nascere il capitalismo finanziario e industriale, dall’altro tutta una cultura economica ebraica askenazita legata soprattutto alla Wissenschaft des Judentums e ben rappresentata dalle tre notevoli opere scritte tra il 1906 e il 1930 da Ignaz Schiper, puntava a riconoscere come valida e fondata l’immagine degli ebrei visti come gruppo la cui importanza storica e, per così dire, il significato razionale dal punto di vista di una storia del progresso europeo era stata riassunta dalla ricchezza e dalla capacità imprenditoriale.

Giacomo Todeschini

Traduzione di Beatrice Bandini e Mariateresa Serafino, tirocinanti presso la redazione giornalistica dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane.

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MACHSHEVET ISRAEL

Sul tradimento (e sulla fedeltà) 

img headerNon voglio scrivere l’ennesimo panegirico sullo scrittore israeliano Amos Oz. Non ne ha bisogno. Propongo invece di riflettere su una litote, ripetutamente usata in molti encomi a lui dedicati e persino dal presidente dello Stato di Israele Reuven Rivlin: “Non è stato un traditore, sebbene i suoi avversari politici lo abbiano accusato di tradimento”. Non ha tradito né la causa sionista né i valori dell’ebraismo quando ha difeso i diritti dei palestinesi o è andato a raccogliere olive con loro su terreni confiscati o ha inviato i suoi libri ai ‘nemici di Israele’ condannati e incarcerati. La sua filosofia politica è ben espressa dall’idea che proprio con i nemici occorre dialogare; e insisteva: con i nemici non dobbiamo farci l’amore, ma la pace; e la pace non scaturisce dai buoni sentimenti ma dal compromesso; è comunque più pericoloso un fanatico (a qualsiasi causa asservito) che un nemico politico. E’ un approccio a suo modo realista e pragmatico, forse opinabile ma degno di rispetto. Nondimeno, l’ombra di quell’accusa è destinata ad accompagnarne la fama di storyteller e di intellettuale engagè. Ma cos’è, davvero, il tradimento? Cosa significa essere traditore? Il tema lo affascinava, almeno a giudicare dal fatto che attorno alla figura del più noto, supposto e mai verificato, traditore della cultura occidentale – la figura di Giuda, guarda caso un ebreo che ne avrebbe tradito un altro – Amos Oz ci ha scritto un romanzo intenso e complesso (intitolato appunto Giuda, edito nel 2014 da Feltrinelli ed ambientato in una notturna Gerusalemme kafkiana), che è al contempo una riflessione sui diversi sionismi dei primi decenni del XX secolo, dove le accusa di tradimento della causa erano non meno frequenti di oggi. Allora, ‘chi tradisce chi’ quando si entra nell’agone dei fatti storici e delle loro interpretazioni?

Massimo Giuliani, docente al Diploma Studi Ebraici, UCEI 

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società        

Quell'odio antisemita
fuori e dentro gli stadi  

Ormai sta diventando normale. Tragicamente normale. Ordinaria amministrazione. Odio antisemita quotidiano. Insulti razzisti in razione giornaliera Dentro gli stadi, fuori degli stadi. Persino durante le feste. Sui muri delle città. Come è capitato ieri a Roma, dove energumeni della curva (presumibilmente, ma che conta? È uguale per tutti) giallorossa hanno voluto oltraggiare le tifoserie nemiche con un volantino con su scritto: «Lazio, Napoli, Israele, stessi colori, stesse bandiere: merde». Dove l'inserimento bianco e azzurro, del tutto fuori contesto calcistico, della bandiera di Israele nell'insulto collettivo sembra rafforzare l'offesa ai napoletani e ai laziali; siete come gli ebrei. La stessa logica, chiamiamola così, che ispirò il gesto dei tifosi laziali quando lasciarono con intenti di derisione immagini di Anna Frank nella curva giallorossa.

Pierluigi Battista, Corriere della Sera,
10 gennaio 2019  


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orizzonti 

II museo che fa domande alla Storia

Indirizzata com'è ai suoi concittadini di un tempo remoto, la conclusione del neuroscienziato e Premio Nobel Erich Kandel al suo discorso di apertura alla nuova Haus der Geschichte (Casa della Storia) nel cuore della capitale austriaca, appare carica di ironia: «Consiglio ai viennesi di camminare molto: dai miei studi appare evidente che questa attività aiuta a contrastare la perdita di memoria». Oggi nell'Olimpo della scienza, Kandel ha ancora «un ricordo vivido» di suo padre costretto a pulire con uno spazzolino da denti il selciato davanti al suo negozio, ma «l'amarezza, la rabbia e la diffidenza sono diventate accettazione, e riconciliazione». Una ritrovata serenità, suggellata la primavera scorsa dalla posa di una pietra d'inciampo davanti alla casa da cui dovette fuggire all'età di 9 anni.


Flavia Foradini, Il Sole 24 Ore Domenica,
6 gennaio 2019 


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Shir Shishi - una poesia per erev shabbat

Tei

img headerIsraele si colloca lungo la depressione siro-africana, la Rift Va7)

Sarah Kaminski, Università di Torino 

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