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Gadi Luzzatto Voghera, direttore Fondazione CDEC
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c’è dubbio che la normativa ebraica tradizionale si esprima in termini
negativi circa l’opportunità che un ebreo entri in un luogo di culto
cristiano. Come spiegava il rabbino Shlomo M. Brody in un articolo
apparso sul Jerusalem Post nel 2012, l’opinione si fonda
prevalentemente su Maimonide e Rabbi Yehudah Hahassid, due onorati e
riconosciuti commentatori medievali che in sostanza indicano due
problemi: il rischio della Avodà Zarà (idolatria, poiché la tradizione
cristiana identifica Gesù con la divinità) e il cosiddetto Marit ‘ayin,
cioè l’apparenza ingannevole, in questo caso la possibilità che si
possa anche solo pensare che un ebreo stia compiendo atti devozionali
in un tempio cristiano. I commentatori successivi hanno discusso di
volta in volta su casi particolari come la partecipazione a cerimonie
di incoronazione di sovrani o a funerali solenni (ci sono stati diversi
casi di autorità religiose ebraiche che hanno agito in tal senso).
Tuttavia in linea generale il divieto viene considerato ancora valido.
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David
Bidussa,
storico sociale
delle idee | Giovedì
prossimo, a Milano, a Palazzo di Lombardia, per iniziativa di
“Associazione Figli della Shoah”, Yad Vashem e Regione Lombardia, si
parlerà di “Fare i conti con la nostra storia”.
Oblio e ricordo, scriveva molti anni fa Tzvetan Todorov, sono le due
procedure che costruiscono la memoria, che è ciò che tratteniamo del
passato. Il passato ricordato non può essere identificato
automaticamente con lo studio scientifico del passato che chiamiamo
«storia», perché esso è sempre legato ad identità in formazione,
interpretazioni del presente e rivendicazioni di potere. Per questo i
conti con la storia sono sempre aperti e non si scrive la storia una
volta per tutte.
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I gilet dell'odio antisemita
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Aggressione
antisemita al filosofo francese Alain Finkielkraut, raggiunto ieri a
Parigi da un nutrito gruppo di “gilet gialli”. Terrificanti le parole
che gli sono state rivolte contro: da “Sporco ebreo” a “Il popolo ti
punirà”.
Scrive il Corriere: “I gilet gialli che aggrediscono Finkielkraut, due
dei quali indossano la kefiah palestinese, non gli perdonano il
sostegno allo Stato di Israele e il fatto di avere osato denunciare in
passato, alla radio, in tv e sui giornali, la deriva islamista e
integralista di una parte dei musulmani di Francia, soprattutto nelle
periferie. L’altra colpa del filosofo, secondo chi lo insulta, è di non
essere un vero francese, di non fare parte del popolo francese, perché
è ebreo”.
“Il movimento dei gilet gialli, che domani compirà tre mesi –
sottolinea Repubblica – appare sempre più infiltrato da una frangia di
estrema destra che vuole sdoganare in piazza l’odio antisemita. Durante
il precedente corteo del movimento, sabato scorso, la scritta Juden,
usata come marchio durante il nazismo, è apparsa su un negozio ebreo di
bagel. Nei giorni scorsi un’opera di street art ispirata a Simone Veil,
superstite dei campi di sterminio, madrina della legge sull’aborto e
prima presidente donna del Parlamento europeo, è stata ricoperta da una
svastica”.
Riflette al riguardo Maurizio Molinari, direttore de La Stampa: “La
sovrapposizione fra esaltazione del ‘popolo’, insulti antisemiti, odio
antisionista e promesse di espulsioni rappresenta quanto di più simile
e contemporaneo può esserci alla dinamica con cui si innesca l’odio
antiebraico nelle piazze, identificando nella casuale vittima di turno
il male assoluto, da additare ed estirpare per il ‘bene delle masse’. È
la stessa feroce dinamica con cui si originavano i pogrom in Russia al
tempo degli zar, in Germania al tempo dei nazisti e nei Paesi arabi, da
Baghdad a Tripoli, fra gli Anni Quaranta e Cinquanta”.
Rapporti tesi tra amministrazione statunitense e diversi paesi europei,
Germania in testa. L’occasione della 55esima Conferenza di Monaco ha
svelato infatti diversi problemi aperti. E uno dei temi di principale
attrito, spiegano i quotidiani, sono state le relazioni con Teheran.
“Vogliono un altro Olocausto” ha detto il vicepresidente statunitense
Mike Pence a proposito del regime iraniano e della sua volontà di
“cancellare Israele dalla cartina geografica”. La cancelliera Merkel,
scrive Repubblica, “gli ha già risposto qualche minuto prima,
difendendo il tentativo di Germania, Francia e Regno Unito di mantenere
vivo un residuo di intesa e un canale di comunicazione con Teheran”.
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i gilet gialli e la condanna di macron "Aggressione a Finkielkraut
negazione di ciò che siamo"
Ieri,
a Parigi, il filosofo francese Alain Finkielkraut è stato vittima di
una ignobile aggressione antisemita da parte dei gilet gialli.
Terrificanti le parole che gli sono state rivolte contro: da “Sporco
ebreo” a “Il popolo ti punirà”, insieme a un brutale invito a fare le
valigie e ad andarsene a Tel Aviv. L’ultimo di una serie di episodi
inquietanti sulle intenzioni e la matrice di questo movimento che
continua a far parlare per la sua radicalità.
In una intervista di qualche anno fa con Pagine Ebraiche in occasione
dell'uscita del suo saggio Un cuore intelligente, Finkielkraut
sosteneva: “L’antisemitismo che conta oggi si proclama antirazzista. E
dobbiamo trovare il coraggio di dirlo. Il nuovo antisemitismo è un
antisemitismo islamo-progressista e si nasconde dietro agli slogan
dell’antirazzismo”.
Un colloquio carico di spunti attuali, che riproponiamo ai nostri
lettori a poche ore da questo brutale attacco rivolto a una delle
figure più significative della cultura francese e d'Europa. Nato a
Parigi nel 1949, figlio di sopravvissuti ai campi di sterminio,
Finkielkraut è stato allievo dell'Ecole Normale Superieure. A segnare
la sua formazione il pensiero di Hannah Arendt, Martin Heidegger,
Emmanuel Lévinas e Vladimir Jankelevitch. Nemico dichiarato del
relativismo e del pensiero debole, in questi anni Finkielkraut si è
fatto molti nemici. Ciò nonostante continua ad essere voce ascoltata e
richiesta per la capacità di affrontare i temi di più stretta
attualità.
L'aggressione parigina al filosofo è stata così commentata dal
presidente francese Emmanuel Macron: "La negazione assoluta di ciò che
siamo e deve essere una grande nazione come la nostra". Leggi
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l'intervista con pagine ebraiche "Soltanto i libri salveranno
un cuore intelligente"
Ci
sono ripari al dolore, scudi ai pericoli, luci perenni nella notte
dell’odio e dell’intolleranza. Esistono, e sono a portata di mano. Sono
polizze per la salvezza che si trovano sui nostri scaffali, basta
prenderle in mano, sfogliarle. Basta mettersi a leggere. Sulla
copertina della sua ultima raccolta di pensieri, Alain Finkielkraut non
ha voluto niente di vistoso. Solo il suo nome, quello del prestigioso
editore che non ha paura in una stagione di ossequienza di tenerlo in
catalogo (Stock/Flammarion a Parigi, Adelphi a Milano) e l’enigma
fiammeggiante in quelle tre parole che ne fanno il titolo, “Un cuore
intelligente”, l’espressione definitiva e la ricetta di saggezza
incastonata dal re Shlomo nel libro biblico dei Proverbi. Lui arriva
con la luce dolce nella mezza stagione di una Mantova orgogliosa di
essere luogo d’incontro e capitale di cultura. Geniale, impertinente,
quasi insopportabile, come chi lo apprezza ha imparato a conoscerlo,
non sembra accettare mezze misure e non sembra praticare la giustizia
salomonica. Non quella, almeno, che comunemente intende chi pratica i
luoghi comuni. L’intervistatore si addentra così in un terreno certo
affascinante, ma aspro e per nulla rilassante. Tanto che la prima
domanda, capovolgendo i ruoli, la pone l’intervistato: “Ma come è
possibile fare un’intervista senza un registratore”?
Strano, mi sono sempre chiesto il contrario: “Ma come è possibile intervistare qualcuno affidandosi a un registratore”?
L’intervista deve essere la fedelissima riproduzione di un messaggio. Non ci si può permettere variazioni sul tema.
E con il cuore intelligente, come la mettiamo? Ai giornalisti non è concesso?
L’intervista è una trascrizione migliorata. Niente di più. Perché senza
forma in definitiva il contenuto non esiste. Ecco un terreno d’intesa
possibile. Proviamoci senza mettere di mezzo l’elettronica.
Questa primavera
fioriscono le novità in libreria e le manifestazioni culturali. Pagine
Ebraiche, come di consueto, dedica al mondo del libro e alle novità più
significative per la cultura e la vita ebraica un grande dossier. Il
suo Un cuore intelligente, ora accessibile anche al lettore italiano, è
uno dei più affascinanti richiami al mondo del libro e della lettura. E
muove dalla radice del più ancestrale ancoraggio ebraico al valore
della cultura. Perché?
Quando mi sono messo a scriverlo avevo in mente le parole di un grande
filosofo, Paul Ricoeur: “Ho davanti a me tutti i libri aperti”. Che
cosa intendeva dall’alto della sua immensa cultura e della sua
saggezza? Solo un vanto di quanto conosceva, o piuttosto un richiamo al
nostro bisogno di conoscere e di immaginare, alla dovere di leggere e
soprattutto di sviluppare la nostra capacità di leggere?
Cosa deve salvarci, la letteratura, o la filosofia?
In questi termini rischia di essere un’enunciazione troppo
sentimentale, quasi patetica. Diciamo che non possiamo fare a meno di
una forza di mediazione. E’ la letteratura la grande mediatrice. In
quelle pagine dobbiamo andare a cercare.
Quali sono i libri che stanno sempre aperti davanti ai suoi occhi?
Ho troppe lacune per potermi permettere di parlare come Ricoeur.
Diciamo che tengo aperti sia testi filosofici che romanzi. Entrambi
necessari per poter comprendere.
La letteratura può davvero essere una medicina, una salvezza?
La letteratura non è stata capace di impedire alcun massacro fra quelli
che hanno contrassegnato il Ventesimo secolo. Ma senza la letteratura
non saremmo più in grado di comprendere e di conseguenza resteremmo
senza difesa. Il pericolo dell’opacità della comprensione è il rischio
più grave.
Guido Vitale
(Disegni di Giorgio Albertini) Leggi
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qui torino - la cerimonia "Ebrei e valdesi, insieme
per tutelare i diritti di tutti"
“Ebrei
e Valdesi per i diritti di tutti”. Questa la scritta proiettata sulla
Mole Antonelliana di Torino in occasione dell’anniversario
dell’Emancipazione di ebrei e valdesi concessa da Carlo Alberto nel
1848 attraverso la promulgazione delle Lettere Patenti. Il ricordo
quest’anno cambia forma: non più l’accensione del falò nel centro della
città, ma un doppio appuntamento che pone al centro il tema della
libertà con uno sguardo critico verso il presente: i diritti umani e la
loro applicazione oggi.
Luoghi, tempi e modalità differenti tesi a coinvolgere quanto più
possibile la cittadinanza. Questo l’obiettivo espresso dai promotori
dell’iniziativa, in specifico la Chiesa Evangelica Valdese, il Centro
Culturale Protestante e la Comunità Ebraica, di concerto con la Città
di Torino.
Le
celebrazioni hanno preso il via nella serata di sabato nel cuore di San
Salvario, quartiere che ospita gli edifici di entrambe le comunità
religiose. Il ritrovo in Piazzetta Primo Levi, di fronte alla sinagoga
illuminata, dove persone comuni e autorità – tra cui Sergio
Chiamparino, Presidente della Regione Piemonte, Nino Boeti Presidente
del Consiglio Regionale del Piemonte, Marco Giusta, Assessore Comunale
alle Pari Opportunità – si alternano nella lettura dei 30 articoli
della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, approvata nella terza
sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a Parigi il 10
dicembre 1948.
A prendere brevemente la parola Patrizia Mathieu, presidente del
Concistoro Valdese per sottolineare l’intento ultimo della
manifestazione: condividere un impegno di militanza quotidiana che si
esprime sotto forma di invito a procurarsi una copia della
Dichiarazione, al fine di leggerla ogni giorno, portarla con sé, fino
ad assimilarla. Un impegno che attraverso la lettura porta a far sì che
il ricordo si sganci da formalismi e retorica, aggiunge Dario Disegni,
Presidente della Comunità ebraica di Torino.
Alice Fubini Leggi
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qui roma - l'iniziativa
'Educazione, linguaggio comune'
“È
fondamentale mettere a confronto e trovare convergenze tra sistemi
educativi differenti. Il risultato, nel caso dei tre monoteismi, che
sono radice e presente d’Europa, è un codice comune alla base. Un
terreno sul quale si può e deve costruire insieme, anche ricordando le
esperienze positive del passato”.
Questo lo spirito con cui la professoressa Antonella Castelnuovo
(nell’immagine) ha organizzato, tra 2015 e 2017, tre diversi convegni
sul tema “Le religioni come sistemi educativi”. Prima l’Ebraismo, poi
il Cristianesimo, quindi l’Islam. Un’esperienza rivelatasi foriera di
molti spunti e che ha aperto la strada alla pubblicazione di
altrettanti volumi, curati dalla stessa Castelnuovo e che saranno
presentati domani mattina a partire dalle 9 nella Sala della
Protomoteca del Campidoglio a Roma. Leggi
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Il "nuovo" che sa di vecchio |
Non
avanza il neofascismo, semmai è la democrazia a retrocedere. Il primo,
non a caso, si alimenta della crisi della seconda. Così è stato nel
passato, così può essere per il presente e, soprattutto, nei tempi a
venire. Peraltro, sarebbe comunque inutile cercare una ragione
intrinseca ai fascismi storici. L’impresa è vana poiché essi si sono
connotati soprattutto per ciò che dicevano di non volere essere, quindi
nella loro natura illiberale, antidemocratica, antisocialista e così
via. Se vi si cerca una dottrina coerente, al netto delle tante
affermazioni roboanti e delle innumerevoli dichiarazioni esorbitanti,
dei parossismi così come delle iperboli, si troverà ben poco. Semmai,
invece, si coglierà come la loro forza sia inversamente proporzionale a
quella delle istituzioni e degli ordinamenti democratici. Più avanzano
questi ultimi, meno spazio c’è per i primi. E viceversa. Perché ha un
senso parlare quindi di crisi delle democrazia, al giorno d’oggi? Quali
ne sarebbero, nel qual caso, le ragioni e le connotazioni? Procediamo
con ordine.
Claudio Vercelli
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Immagini - Shirin Neshat
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Il
coraggioso gesto dei giovani iraniani che con cartelli “we remember”
hanno ricordato il Giorno della Memoria della Shoah mi ha fatto pensare
a Shirin Neshat e alla sua arte. Artista di fama internazionale che con
il suo lavoro riesce sempre in modo incisivo ad affrontare la delicata
tematica dell’interrelazione fra politica e religione quali elementi
inscindibili nella cultura islamica. Shirin Neshat nasce in Iran nel
1957 ed emigra in California prima della rivoluzione islamica. Da
allora ha sempre lavorato in America mettendo in discussione in modo
provocatorio i fondamenti della cultura identitaria islamica senza
tuttavia risparmiare critiche alle incoerenze della società occidentale.
Ruggero Gabbai
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