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17 Febbraio 2019 - 12 Adar 5779
PAGINE EBRAICHE 24


ALEF / TAV DAVAR PILPUL
alef/tav
Gadi Luzzatto Voghera, direttore Fondazione CDEC
Non c’è dubbio che la normativa ebraica tradizionale si esprima in termini negativi circa l’opportunità che un ebreo entri in un luogo di culto cristiano. Come spiegava il rabbino Shlomo M. Brody in un articolo apparso sul Jerusalem Post nel 2012, l’opinione si fonda prevalentemente su Maimonide e Rabbi Yehudah Hahassid, due onorati e riconosciuti commentatori medievali che in sostanza indicano due problemi: il rischio della Avodà Zarà (idolatria, poiché la tradizione cristiana identifica Gesù con la divinità) e il cosiddetto Marit ‘ayin, cioè l’apparenza ingannevole, in questo caso la possibilità che si possa anche solo pensare che un ebreo stia compiendo atti devozionali in un tempio cristiano. I commentatori successivi hanno discusso di volta in volta su casi particolari come la partecipazione a cerimonie di incoronazione di sovrani o a funerali solenni (ci sono stati diversi casi di autorità religiose ebraiche che hanno agito in tal senso). Tuttavia in linea generale il divieto viene considerato ancora valido.
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David Bidussa,
storico sociale
delle idee
Giovedì prossimo, a Milano, a Palazzo di Lombardia, per iniziativa di “Associazione Figli della Shoah”, Yad Vashem e Regione Lombardia, si parlerà di “Fare i conti con la nostra storia”.
Oblio e ricordo, scriveva molti anni fa Tzvetan Todorov, sono le due procedure che costruiscono la memoria, che è ciò che tratteniamo del passato. Il passato ricordato non può essere identificato automaticamente con lo studio scientifico del passato che chiamiamo «storia», perché esso è sempre legato ad identità in formazione, interpretazioni del presente e rivendicazioni di potere. Per questo i conti con la storia sono sempre aperti e non si scrive la storia una volta per tutte.
 
I gilet dell'odio antisemita
Aggressione antisemita al filosofo francese Alain Finkielkraut, raggiunto ieri a Parigi da un nutrito gruppo di “gilet gialli”. Terrificanti le parole che gli sono state rivolte contro: da “Sporco ebreo” a “Il popolo ti punirà”.
Scrive il Corriere: “I gilet gialli che aggrediscono Finkielkraut, due dei quali indossano la kefiah palestinese, non gli perdonano il sostegno allo Stato di Israele e il fatto di avere osato denunciare in passato, alla radio, in tv e sui giornali, la deriva islamista e integralista di una parte dei musulmani di Francia, soprattutto nelle periferie. L’altra colpa del filosofo, secondo chi lo insulta, è di non essere un vero francese, di non fare parte del popolo francese, perché è ebreo”.
“Il movimento dei gilet gialli, che domani compirà tre mesi – sottolinea Repubblica – appare sempre più infiltrato da una frangia di estrema destra che vuole sdoganare in piazza l’odio antisemita. Durante il precedente corteo del movimento, sabato scorso, la scritta Juden, usata come marchio durante il nazismo, è apparsa su un negozio ebreo di bagel. Nei giorni scorsi un’opera di street art ispirata a Simone Veil, superstite dei campi di sterminio, madrina della legge sull’aborto e prima presidente donna del Parlamento europeo, è stata ricoperta da una svastica”.
Riflette al riguardo Maurizio Molinari, direttore de La Stampa: “La sovrapposizione fra esaltazione del ‘popolo’, insulti antisemiti, odio antisionista e promesse di espulsioni rappresenta quanto di più simile e contemporaneo può esserci alla dinamica con cui si innesca l’odio antiebraico nelle piazze, identificando nella casuale vittima di turno il male assoluto, da additare ed estirpare per il ‘bene delle masse’. È la stessa feroce dinamica con cui si originavano i pogrom in Russia al tempo degli zar, in Germania al tempo dei nazisti e nei Paesi arabi, da Baghdad a Tripoli, fra gli Anni Quaranta e Cinquanta”.

Rapporti tesi tra amministrazione statunitense e diversi paesi europei, Germania in testa. L’occasione della 55esima Conferenza di Monaco ha svelato infatti diversi problemi aperti. E uno dei temi di principale attrito, spiegano i quotidiani, sono state le relazioni con Teheran.
“Vogliono un altro Olocausto” ha detto il vicepresidente statunitense Mike Pence a proposito del regime iraniano e della sua volontà di “cancellare Israele dalla cartina geografica”. La cancelliera Merkel, scrive Repubblica, “gli ha già risposto qualche minuto prima, difendendo il tentativo di Germania, Francia e Regno Unito di mantenere vivo un residuo di intesa e un canale di comunicazione con Teheran”.
 
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  davar
i gilet gialli e la condanna di macron
"Aggressione a Finkielkraut

negazione di ciò che siamo"
Ieri, a Parigi, il filosofo francese Alain Finkielkraut è stato vittima di una ignobile aggressione antisemita da parte dei gilet gialli. Terrificanti le parole che gli sono state rivolte contro: da “Sporco ebreo” a “Il popolo ti punirà”, insieme a un brutale invito a fare le valigie e ad andarsene a Tel Aviv. L’ultimo di una serie di episodi inquietanti sulle intenzioni e la matrice di questo movimento che continua a far parlare per la sua radicalità.
In una intervista di qualche anno fa con Pagine Ebraiche in occasione dell'uscita del suo saggio Un cuore intelligente, Finkielkraut sosteneva: “L’antisemitismo che conta oggi si proclama antirazzista. E dobbiamo trovare il coraggio di dirlo. Il nuovo antisemitismo è un antisemitismo islamo-progressista e si nasconde dietro agli slogan dell’antirazzismo”.
Un colloquio carico di spunti attuali, che riproponiamo ai nostri lettori a poche ore da questo brutale attacco rivolto a una delle figure più significative della cultura francese e d'Europa. Nato a Parigi nel 1949, figlio di sopravvissuti ai campi di sterminio, Finkielkraut è stato allievo dell'Ecole Normale Superieure. A segnare la sua formazione il pensiero di Hannah Arendt, Martin Heidegger, Emmanuel Lévinas e Vladimir Jankelevitch. Nemico dichiarato del relativismo e del pensiero debole, in questi anni Finkielkraut si è fatto molti nemici. Ciò nonostante continua ad essere voce ascoltata e richiesta per la capacità di affrontare i temi di più stretta attualità.
L'aggressione parigina al filosofo è stata così commentata dal presidente francese Emmanuel Macron: "La negazione assoluta di ciò che siamo e deve essere una grande nazione come la nostra". 
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l'intervista con pagine ebraiche
"Soltanto i libri salveranno

un cuore intelligente"
Ci sono ripari al dolore, scudi ai pericoli, luci perenni nella notte dell’odio e dell’intolleranza. Esistono, e sono a portata di mano. Sono polizze per la salvezza che si trovano sui nostri scaffali, basta prenderle in mano, sfogliarle. Basta mettersi a leggere. Sulla copertina della sua ultima raccolta di pensieri, Alain Finkielkraut non ha voluto niente di vistoso. Solo il suo nome, quello del prestigioso editore che non ha paura in una stagione di ossequienza di tenerlo in catalogo (Stock/Flammarion a Parigi, Adelphi a Milano) e l’enigma fiammeggiante in quelle tre parole che ne fanno il titolo, “Un cuore intelligente”, l’espressione definitiva e la ricetta di saggezza incastonata dal re Shlomo nel libro biblico dei Proverbi. Lui arriva con la luce dolce nella mezza stagione di una Mantova orgogliosa di essere luogo d’incontro e capitale di cultura. Geniale, impertinente, quasi insopportabile, come chi lo apprezza ha imparato a conoscerlo, non sembra accettare mezze misure e non sembra praticare la giustizia salomonica. Non quella, almeno, che comunemente intende chi pratica i luoghi comuni. L’intervistatore si addentra così in un terreno certo affascinante, ma aspro e per nulla rilassante. Tanto che la prima domanda, capovolgendo i ruoli, la pone l’intervistato: “Ma come è possibile fare un’intervista senza un registratore”?
Strano, mi sono sempre chiesto il contrario: “Ma come è possibile intervistare qualcuno affidandosi a un registratore”?
L’intervista deve essere la fedelissima riproduzione di un messaggio. Non ci si può permettere variazioni sul tema.
E con il cuore intelligente, come la mettiamo? Ai giornalisti non è concesso?
L’intervista è una trascrizione migliorata. Niente di più. Perché senza forma in definitiva il contenuto non esiste. Ecco un terreno d’intesa possibile. Proviamoci senza mettere di mezzo l’elettronica.
Questa primavera fioriscono le novità in libreria e le manifestazioni culturali. Pagine Ebraiche, come di consueto, dedica al mondo del libro e alle novità più significative per la cultura e la vita ebraica un grande dossier. Il suo Un cuore intelligente, ora accessibile anche al lettore italiano, è uno dei più affascinanti richiami al mondo del libro e della lettura. E muove dalla radice del più ancestrale ancoraggio ebraico al valore della cultura. Perché?
Quando mi sono messo a scriverlo avevo in mente le parole di un grande filosofo, Paul Ricoeur: “Ho davanti a me tutti i libri aperti”. Che cosa intendeva dall’alto della sua immensa cultura e della sua saggezza? Solo un vanto di quanto conosceva, o piuttosto un richiamo al nostro bisogno di conoscere e di immaginare, alla dovere di leggere e soprattutto di sviluppare la nostra capacità di leggere?
Cosa deve salvarci, la letteratura, o la filosofia?
In questi termini rischia di essere un’enunciazione troppo sentimentale, quasi patetica. Diciamo che non possiamo fare a meno di una forza di mediazione. E’ la letteratura la grande mediatrice. In quelle pagine dobbiamo andare a cercare.
Quali sono i libri che stanno sempre aperti davanti ai suoi occhi?
Ho troppe lacune per potermi permettere di parlare come Ricoeur. Diciamo che tengo aperti sia testi filosofici che romanzi. Entrambi necessari per poter comprendere.
La letteratura può davvero essere una medicina, una salvezza?
La letteratura non è stata capace di impedire alcun massacro fra quelli che hanno contrassegnato il Ventesimo secolo. Ma senza la letteratura non saremmo più in grado di comprendere e di conseguenza resteremmo senza difesa. Il pericolo dell’opacità della comprensione è il rischio più grave.


Guido Vitale

(Disegni di Giorgio Albertini)
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l'orso d'oro al regista israeliano
Berlinale, trionfa Lapid
“Israele morirà prima di me, e io verrò seppellito al cimitero di Père-Lachaise” afferma Yoav con incrollabile determinazione. Un auspicio chiaro come il suo obiettivo: smettere di essere israeliano. Diventare francese. Alla fine del servizio militare scappa a Parigi con pochissime cose, uno zaino mezzo vuoto e un po’ di conoscenza della lingua ma a poche ore dal suo arrivo, in un bellissimo e gelido appartamento parigino completamente vuoto, anche quel poco gli viene sottratto. Tom Mercier, l’attore protagonista di Synonymes – il film diretto dall’israeliano Nadav Lapid che ha appena vinto l’Orso d’oro alla sessantanovesima edizione della Berlinale – si trova così completamente nudo, ora davvero senza nulla. Costretto a ripartire da zero.
Ma non c’è solo l’imprevedibile: Yoav aveva già fatto la scelta più drastica possibile per chi intende lasciarsi alle spalle una vita, un’identità, un paese: non pronuncerà più una sola parola della sua lingua materna.
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qui torino - la cerimonia
"Ebrei e valdesi, insieme

per tutelare i diritti di tutti"
“Ebrei e Valdesi per i diritti di tutti”. Questa la scritta proiettata sulla Mole Antonelliana di Torino in occasione dell’anniversario dell’Emancipazione di ebrei e valdesi concessa da Carlo Alberto nel 1848 attraverso la promulgazione delle Lettere Patenti. Il ricordo quest’anno cambia forma: non più l’accensione del falò nel centro della città, ma un doppio appuntamento che pone al centro il tema della libertà con uno sguardo critico verso il presente: i diritti umani e la loro applicazione oggi.
Luoghi, tempi e modalità differenti tesi a coinvolgere quanto più possibile la cittadinanza. Questo l’obiettivo espresso dai promotori dell’iniziativa, in specifico la Chiesa Evangelica Valdese, il Centro Culturale Protestante e la Comunità Ebraica, di concerto con la Città di Torino.
Le celebrazioni hanno preso il via nella serata di sabato nel cuore di San Salvario, quartiere che ospita gli edifici di entrambe le comunità religiose. Il ritrovo in Piazzetta Primo Levi, di fronte alla sinagoga illuminata, dove persone comuni e autorità – tra cui Sergio Chiamparino, Presidente della Regione Piemonte, Nino Boeti Presidente del Consiglio Regionale del Piemonte, Marco Giusta, Assessore Comunale alle Pari Opportunità – si alternano nella lettura dei 30 articoli della Dichiarazione Universale dei Diritti Umani, approvata nella terza sessione dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite a Parigi il 10 dicembre 1948.
A prendere brevemente la parola Patrizia Mathieu, presidente del Concistoro Valdese per sottolineare l’intento ultimo della manifestazione: condividere un impegno di militanza quotidiana che si esprime sotto forma di invito a procurarsi una copia della Dichiarazione, al fine di leggerla ogni giorno, portarla con sé, fino ad assimilarla. Un impegno che attraverso la lettura porta a far sì che il ricordo si sganci da formalismi e retorica, aggiunge Dario Disegni, Presidente della Comunità ebraica di Torino.


Alice Fubini
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qui roma - l'iniziativa 
'Educazione, linguaggio comune'
“È fondamentale mettere a confronto e trovare convergenze tra sistemi educativi differenti. Il risultato, nel caso dei tre monoteismi, che sono radice e presente d’Europa, è un codice comune alla base. Un terreno sul quale si può e deve costruire insieme, anche ricordando le esperienze positive del passato”.
Questo lo spirito con cui la professoressa Antonella Castelnuovo (nell’immagine) ha organizzato, tra 2015 e 2017, tre diversi convegni sul tema “Le religioni come sistemi educativi”. Prima l’Ebraismo, poi il Cristianesimo, quindi l’Islam. Un’esperienza rivelatasi foriera di molti spunti e che ha aperto la strada alla pubblicazione di altrettanti volumi, curati dalla stessa Castelnuovo e che saranno presentati domani mattina a partire dalle 9 nella Sala della Protomoteca del Campidoglio a Roma.
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il cordoglio dell'ebraismo italiano
Sergio Frassineti (1929-2019)
Ebraismo italiano in lutto per la scomparsa dell’ingegner Sergio Frassineti, che fu presidente della Comunità ebraica di Roma dal 1989 al 1993 e tra gli artefici della sua ricostruzione dai primi decenni successivi alla fine del secondo conflitto mondiale.
Protagonista dei momenti più significativi e simbolici, come la storica visita al Tempio Maggiore di papa Wojtyla, ma in prima linea anche nei momenti più drammatici, come l’attentato palestinese del 9 ottobre 1982 in cui restò ucciso il piccolo Stefano Gaj Tachè: una figura di riferimento per più generazioni di ebrei romani, che ne hanno potuto apprezzare nel corso di tanti anni la levatura professionale, morale e intellettuale e il costante e incisivo impegno nelle istituzioni ebraiche.
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pilpul

Il "nuovo" che sa di vecchio
Non avanza il neofascismo, semmai è la democrazia a retrocedere. Il primo, non a caso, si alimenta della crisi della seconda. Così è stato nel passato, così può essere per il presente e, soprattutto, nei tempi a venire. Peraltro, sarebbe comunque inutile cercare una ragione intrinseca ai fascismi storici. L’impresa è vana poiché essi si sono connotati soprattutto per ciò che dicevano di non volere essere, quindi nella loro natura illiberale, antidemocratica, antisocialista e così via. Se vi si cerca una dottrina coerente, al netto delle tante affermazioni roboanti e delle innumerevoli dichiarazioni esorbitanti, dei parossismi così come delle iperboli, si troverà ben poco. Semmai, invece, si coglierà come la loro forza sia inversamente proporzionale a quella delle istituzioni e degli ordinamenti democratici. Più avanzano questi ultimi, meno spazio c’è per i primi. E viceversa. Perché ha un senso parlare quindi di crisi delle democrazia, al giorno d’oggi? Quali ne sarebbero, nel qual caso, le ragioni e le connotazioni? Procediamo con ordine.

Claudio Vercelli
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Immagini - Shirin Neshat 
Il coraggioso gesto dei giovani iraniani che con cartelli “we remember” hanno ricordato il Giorno della Memoria della Shoah mi ha fatto pensare a Shirin Neshat e alla sua arte. Artista di fama internazionale che con il suo lavoro riesce sempre in modo incisivo ad affrontare la delicata tematica dell’interrelazione fra politica e religione quali elementi inscindibili nella cultura islamica. Shirin Neshat nasce in Iran nel 1957 ed emigra in California prima della rivoluzione islamica. Da allora ha sempre lavorato in America mettendo in discussione in modo provocatorio i fondamenti della cultura identitaria islamica senza tuttavia risparmiare critiche alle incoerenze della società occidentale.

Ruggero Gabbai
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