NOEMI DI SEGNI E OREN DAVID INSIEME A TRENTO
Simonino e il coraggio della verità
Raccogliendo un invito del presidente della sezione trentina dell'associazione Italia-Israele Marcello Malfer, la presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Noemi Di Segni sarà in visita a Trento questa domenica. Nel programma, oltre a un incontro col sindaco Alessandro Andreatta e con il vescovo emerito Luigi Bressan, è prevista la visita della mostra "L'invenzione del colpevole. Il 'caso' di Simonino da Trento, dalla propaganda alla storia" allestita presso il Museo Diocesano Tridentino. Al centro dell'allestimento la ben nota vicenda del Simonino, dichiarato vittima di un omicidio rituale ebraico e venerato per secoli come martire innocente. Una mostra quindi ricca di significato, cui Pagine Ebraiche di febbraio in distribuzione dedica ampio spazio. Scrive Massimo Giuliani: "Correggere un errore religioso e un pregiudizio dettato da ignoranza è possibile, persino cambiare una tradizione sbagliata che dura da secoli. Ci vuole il coraggio della verità, senso critico e ragion storica".
Accompagneranno la presidente UCEI l'ambasciatore israeliano presso la Santa Sede Oren David e la presidente della Comunità ebraica di Merano Elisabetta Rossi Borenstein.
Il caso Simonino da Trento è una delle pagine più oscure dei rapporti tra cattolici ed ebrei. La storia è sintetizzabile così: marzo 1475, giovedi santo per i cristiani, un bimbo di nome Simone di poco più di due anni scompare dalla sua casa a Trento; due giorni dopo l’ebreo Samuele di Norimberga denuncia alle autorità il ritrovamento del corpo del bimbo nella roggia sotto la propria abilitrazione; nel giro di poche ore sono arrestati lui, la moglie e tutti gli altri ebrei presenti in città. Accusa? Omicidio rituale. Era infatti credenza allora diffusa che sotto pasqua gli ebrei “usassero” uccidere i bambini cristiani per estrarne il sangue e metterlo nell’impasto delle matzot di Pesach. Nella sua totale assurdità, quest’idea circolava in Europa già dal XI secolo. Manco a dirlo, il giorno dopo l’arresto degli ebrei il Simonino fu celebrato come un martire della chiesa e cominciò a fare miracoli. Mentre gli ebrei maschi venivano interrogati sotto tortura e messi al rogo (le donne torturate e imprigionate affinché si convertissero), la chiesa annoverava un santo in più, il cui culto a livello locale durò quasi cinque secoli. I rabbini scomunicarono la città di Trento, che da allora non ebbe più una comunità ebraica. Ma nel 1961 una maestra ebrea triestina, Gemma Volli, andò a Trento e sollecitò che si facesse chiarezza su questo culto basato su un’ingiustizia e un grave pregiudizio antiebraico.
Poco dopo un prete con vocazione di storico, Iginio Rogger, fece ricerche, chiese al vescovo un’indagine seria e arrivò alle conclusioni che quel bimbo non fu mai ucciso per ragioni rituali e che le vere vittime furono proprio gli ebrei ashkenazi di Trento. Una complessa macchina di propaganda, diretta dal vescovo-principe Hinderbach, che aveva “inventato il colpevole”, gli ebrei naturalmente, per accrescere il prestigio della sua città e competere con Innsbruck. Nel 1965 il vescovo di Trento abolì quel culto abusivo: le misere spoglie del Simonino furono tolte dalla chiesa e sepolte in luogo segreto. Venne riconosciuto che l’accusa era falsa e che le confessioni erano state estorte con la violenza. Negli anni a seguire gli storici Diego Quaglioni e Anna Esposito studiarono e pubblicarono le carte del processo. I rabbini tolsero il cherem alla città. Ma a fronte di qualche nostalgico e per ribadire i fatti occorreva rinfrescare sia la memoria che la storia. Per questo il Museo diocesano tridentino, sito in Piazza Duomo, ha organizzato in collaborazione con l’Università di Trento una mostra iconografica e didattica per spiegare cosa sia stata quella macchina di propaganda. L’hanno giustamente intitolata “L’invenzione del colpevole”: un percorso storico nell’arte e nell’oggettistica ma anche un viaggio nel pregiudizio religioso e sociale. Non ultimo, vuole mandare un messaggio: correggere un errore religioso e un pregiudizio dettato da ignoranza è possibile, persino cambiare una tradizione sbagliata che dura da secoli. Ci vuole il coraggio della verità, senso critico e ragion storica. Ma è possibile. La mostra è aperta fino a metà aprile. Curatori e studiosi hanno anche prodotto un catalogo ricco non solo di immagini ma anche di testi per spiegare e capire cosa sia stata, nel tempo, l’accusa del sangue e il peso che ha avuto nella storia degli ebrei.
Massimo Giuliani, Pagine Ebraiche febbraio 2020
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LE REAZIONI ALL'INIZIATIVA DELL'ONU
"La lista contro le aziende israeliane
un danno per la pace e i palestinesi"
“Boicottare le aziende israeliane non fa progredire la causa della pace e non crea fiducia tra le parti. Facciamo appello ai nostri amici in tutto il mondo affinché si esprimano contro questa vergognosa iniziativa che ricorda i periodi bui della nostra storia”. È il messaggio del Presidente d’Israele Reuven Rivlin in risposta alla lista nera pubblicata dall’Alto commissario delle Nazioni Unite per i diritti umani in cui vengono elencate le imprese che hanno legami commerciali con gli insediamenti israeliani in Cisgiordania. Israele, per bocca di Rivlin, del Premier Benjamin Netanyahu e di diversi ministri, ha fortemente contestato la mossa portata avanti dal Consiglio per i diritti umani dell’Onu definendola una “vergogna” e un inciampo alla pace. “L’Onu ha ceduto al Bds”, titola in prima pagina Yedioth Ahronoth, il quotidiano più diffuso d’Israele.
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IN RICORDO DELLA FAMIGLIA EFRATI
Roma, una targa per la Memoria
“Il 16 ottobre 1943 furono rastrellati da questo luogo e deportati ad Auschwitz dieci cittadini romani strappati alla loro vita dall’odio nazista solo perché ebrei. Abramo Umberto Efrati con la moglie Maria Di Segni in attesa di un bambino e otto loro figli. Enrica, Angelo, Cesare, Fortunata, Grazia, Giuditta, Dora e Marco. Soltanto due di loro fecero ritorno”.
E il testo della targa scoperta oggi a Roma in memoria della famiglia Efrati, in via del Portonaccio 194, su iniziativa della Fondazione Museo della Shoah e dell’amministrazione cittadina.
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Setirot - L'uso strumentale della storia
Che orrore la speculazione in malafede sulla memoria, sul ricordo; e che vergogna l’uso strumentale della storia. Lo spettacolo a cui anche quest’anno ci è toccato assistere intorno alla data del 10 febbraio – foibe e questione orientale – la dice lunga riguardo a ciò che tutti, noi tutti, vogliamo sapere o non sapere a seconda di quanto ci è più “comodo”, e non soltanto politicamente. In fondo, ammettiamolo, le tragedie del passato continuano a riguardare chi le ha vissute, o chi di quelle tragiche sofferenze è discendente. Insomma chi le ha nella carne, nel cuore, nell’anima.
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L'uomo che piantava gli alberi
In occasione di Tu Bishvat, il capodanno degli alberi, il Get (Giovani ebrei Torino) ha organizzato la proiezione del film di animazione di Frédérick Back “L’uomo che piantava gli alberi” (1987), tratto da un racconto omonimo di Jean Giono del 1953. Conoscevo già questo piccolo capolavoro della durata di appena 30 minuti e premiato con l’Oscar al miglior film di animazione, ma approfitto di questa nuova visione per tentare alcune concise riflessioni. Cinque anni di lavoro sono stati necessari per la produzione della pellicola, tutta composta da una sequenza di disegni a matita colorata sfumata su fogli di acetato.
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Il volume Egemonia nazionale. Gramsci, Medem e la questione ebraica nel Novecento, curato da Vincenzo Pinto ed edito da Salomone Belforte & C. (Livorno 2019), è composto da scritti di vari autori, ma i più significativi sono quelli dello stesso Pinto (“Quale autonomia? Gramsci e la questione nazionale ebraica”) e di Vladimir Medem (“La questione nazionale e la socialdemocrazia”).
Suscita un particolare interesse il testo di Medem, non perché quello di Pinto non presenti spunti di riflessione ma perché lo stesso Pinto sottolinea la scarsità delle fonti, ridotte a qualche cenno sparso nei Quaderni dal carcere e soprattutto a uno scambio epistolare di Gramsci con la cognata Tatiana Schucht.
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Machshevet Israel - Lekhà dodì come teologia politica
La bella idea di Roberto Benigni di leggere (parti del)lo Shir hashirim al Festival di Sanremo, con tanto di citazione di Rabbi Aqivà, si è stemperata durante la performance per un eccesso di letteralismo erotocentrico, dovuto alla volontà di contraddire la sessuofobia catto-italica. In termini rabbinici diremmo che lo pshat, la traduzione-interpretazione letterale, ha prevalso e oscurato gli altri approcci. Certo ogni versetto biblico non può prescindere dal suo pshat, ma si faccia eccezione – insegnano i maestri – per il Cantico, che va letto anzitutto in chiave metaforica.
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