L'INDAGINE DELL'INSTITUTE FOR JEWISH POLICY RESEARCH

Il conflitto, l'identità, i numeri
E un leader assurto a simbolo

È noto come determinare con precisione quanti ebrei vivano in paesi come l’Ucraina e la Russia sia questione complessa e delicata: durante il periodo sovietico la vita ebraica è stata ostacolata a tal punto da rendere difficile la trasmissione identitaria alla generazione successiva, e il conteggio della popolazione ebraica può cambiare notevolmente a seconda di come si definisce chi effettivamente è ebreo.
È da questa avvertenza che parte l’ultimo report pubblicato dall’Institute for Jewish Policy Research (JPR), intitolato “How many Jews may be caught up in the conflict in Ukraine?“, ossia “Quanti ebrei potrebbero essere coinvolti nel conflitto in Ucraina?”.
In un articolo pubblicato sul Jewish Chronicle il 10 marzo Jonathan Boyd, che del JPR è direttore, ha raccontato come con i suoi colleghi a volte scherzino su chi – giornalista, commentatore, politico o anche leader comunitario – abbia fatto la stima sulla dimensione di una popolazione ebraica più inverosimile.
Come spiega sia nell’articolo che nel report sono diversi i modi in cui i demografi possono definire cosa corrisponda alla definizione “popolazione ebraica”: la prima, che è anche la più usata, si basa su coloro che si auto definiscono ebrei rispondendo, in un sondaggio, a una domanda su religione o etnia. In questo caso gli ebrei ucraini sono circa 45 mila, una percentuale di circa uno su mille, che corrisponde al dato che si avrebbe in Russia seguendo lo stesso principio (arrivando quindi a circa 155 mila ebrei). Se si considerano ebrei coloro che hanno almeno un genitore ebreo allora in Ucraina, dove l’ebraismo è considerato una questione più ancestrale che religiosa, si arriva a una popolazione di circa 90 mila individui. E in Russia si parla di 320 mila persone. Con gli aspetti religiosi dell’ebraismo soppressi e la cultura yiddish quasi distrutta dopo la seconda guerra mondiale, gli ebrei sovietici potevano affermare la propria ebraicità solo per il fatto di essere parte di un gruppo minoritario con discendenza comune.
Se si considerano tutti i componenti di nuclei familiari di cui almeno un membro si auto identifica come ebreo – la definizione di “popolazione ebraica allargata” – allora i numeri salgono ancora, e si arriva a 140 mila in Ucraina e 460 mila in Russia. È un dato rilevante sia a causa dei matrimoni misti, molto comuni, sia perché le agenzie ebraiche ovviamente estendono il loro sostegno ai familiari, indipendentemente dal fatto che siano ebrei o meno.
Si tratta di dati che crescono ancora quando si utilizza come criterio la legge israeliana sul ritorno, che determina chi ha diritto alla cittadinanza. È un’informazione particolarmente pertinente in una situazione come quella attuale. Dato che il diritto di rivendicare la cittadinanza israeliana si applica a chiunque discende da almeno un nonno ebreo e si estende anche alla famiglia più prossima si arriva a un conteggio di circa 200 mila ebrei in Ucraina e 600 mila in Russia.
Questi dati, che come spiega il report vengono dallo studio JPR del 2020 intitolato “Jews in Europe at the turn of the Millennium: Population trends and estimates”, portano a una popolazione ebraica complessiva tra Ucraina e Russia che può variare tra le 200 e le 800 mila persone.
Per quanto riguarda la sola Ucraina va notato che la popolazione ebraica – oggi concentrata prevalentemente a Kiev, Dnipro, Kharkiv, Odessa e Donetsk – è notevolmente diminuita negli ultimi trent’anni, dal crollo del comunismo. Nel 1989 era di 487.300 persone, ma l’ondata di emigrazione che ha avuto luogo alla caduta del muro ha portato a un cambiamento radicale della dimensione della popolazione ebraica ucraina, esacerbato da un naturale cambiamento demografico: dati recenti sulla composizione per età mostrano come circa il 70 per cento degli ebrei in Ucraina oggi abbia più di 45 anni mentre solo il 5 per cento si trovi nella fascia d’età compresa tra gli 0 e i 14 anni.
Uno di loro, in questo momento, ha catturato l’attenzione di tutto il mondo interpretando proprio quello che tradizionalmente è un ruolo ebraico. Un outsider che sta cercando di proteggere e mantenere la propria identità – in questo caso nazionale – tra minacce crescenti alla propria indipendenza. Non è forse una contraddizione che sia proprio un ebreo a impersonare lo spirito combattivo, la testardaggine e la volontà di un intero popolo, proprio dove l’inclusione e l’accettazione sembravano impossibili.

Ada Treves social @ada3ves

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L'INTERVENTO DEL RABBINO CAPO ASHKENAZITA D'ISRAELE

"Accogliere chi fugge è la priorità"

La priorità, in questo momento difficile, è accogliere chi fugge dalla guerra. “Non deve esserci una situazione per cui chi fugge dal fuoco e dall’ostilità non riesca a trovare un posto dove andare, un porto sicuro”: a dichiararlo all’emittente pubblica Kan il rabbino capo ashkenazita d’Israele rav David Lau, evidenziando l’importanza di aprire le porte del paese a chi ha bisogno. Tornato da un viaggio in Moldavia, dove ha visitato uno dei centri di accoglienza dei profughi ucraini, il rav ha spiegato che se da un lato lo Stato d’Israele ha il diritto e dovere di preservare la propria identità nazionale, dall’altro deve “prima aprire le porte” a chi non ha dove andare. “Persone che non trovano posto altrove, devono essere accolte finché non potranno tornare nelle loro case”, le parole di rav Lau. Nel frattempo nel paese si continua a discutere dell’ultimo dialogo tra il Primo ministro Naftali Bennett e il presidente ucraino Volodymyr Zelensky. Quest’ultimo ha nuovamente proposto Gerusalemme come luogo di mediazione con i russi. Sui social Zelensky ha scritto di aver parlato con Bennett dell’aggressione russa e della possibilità di avviare colloqui di pace. Ha poi chiesto assistenza per il rilascio del sindaco di Melitopol e di altri personaggi pubblici arrestati dall’esercito invasore.

(Nell'immagine: il rav David Lau durante la sua missione in Moldavia)

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PAGINE EBRAICHE DI MARZO - IL DOSSIER LIBIA

La Storia e quelle ferite da ricucire

Si dice spesso che l’Italia non sappia né voglia fare i conti, almeno in modo non superficiale, con il passato. Un problema non nuovo ma che ha trovato sempre nuove strade per manifestarsi e ripresentarsi all’attenzione del pubblico, anche durante questi due anni di pandemia. Emerge in questo senso una storia poco conosciuta all’esterno del perimetro di una comunità caparbia e resiliente: si tratta del destino subito dagli ebrei di Libia con l’entrata in vigore delle leggi razziste e il dipanarsi, fino alle estreme conseguenze, della persecuzione antisemita.
Da tempo ormai si danno per acquisite le dinamiche politiche e intimidatorie che portarono al loro esilio definitivo, negli Anni Sessanta del secolo scorso, nel segno di pogrom e violenze di altra matrice, quella araba, esasperatesi ulteriormente dopo la disfatta nella Guerra dei Sei Giorni contro Israele. Pochi però hanno guardato più indietro per cercare di capire cosa accadde sotto il fascismo e quali furono le conseguenze di una deriva ostile che privò gli ebrei libici prima dei più elementari diritti e poi, in un numero importante di casi, anche delle vite. Un vulnus non solo storico e morale, ma delle conseguenze anche assai pratiche come raccontiamo nelle pagine del dossier “Libia” su Pagine Ebraiche di marzo in distribuzione che si propone di fare il punto su vari aspetti. Rivelatore è il caso delle benemerenze negate da uno Stato, l’Italia, che in questo ambito ha mostrato a lungo il suo volto più cinico e inquietante. Fino almeno a un recente pronunciamento della Corte dei Conti che sembra dare il senso di un cambio di rotta che fa finalmente onore alla giurisprudenza. Un nuovo punto di partenza che è anche l’esito, come si spiega nel dossier, di uno sforzo per la verità e la giustizia promosso dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane e dai familiari delle vittime.


Lo scorso 27 gennaio, Giorno della Memoria, ha rappresentato un’occasione storica per riappropriarsi e tornare a riflettere, come si deve, su questi fatti. Merito dell’Astrel, l’Associazione Salvaguardia Trasmissione Retaggio Ebrei di Libia, che si è spesa affinché fosse organizzata una cerimonia al cimitero del Verano a Roma. La prima mai tenutasi in Europa per far sì che nessun nome e nessun luogo sia mai dimenticato.

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IL RICONOSCIMENTO DI BERLINO ALLE SORELLE BUCCI

"Andra e Tati, una voce insostituibile"

“Siete la voce delle tante bambine, dei tanti bambini che patirono sofferenze indicibili. Fate sentire tutti i giorni questa vostra voce contro antisemitismo, odio e intolleranza e per la pace. Così renderete ogni giorno un servizio insostituibile alla Germania e al mondo intero”.
Così l’ambasciatore tedesco in Italia Viktor Elbling nel rivolgersi ad Andra e Tatiana Bucci, insignite dell’onorificenza di Cavaliere dell’Ordine al Merito della Repubblica Federale di Germania su proposta del presidente Frank-Walter Steinmeier. Un riconoscimento che impreziosisce di un ulteriore tassello una catena di iniziative volte ad onorare straordinarie voci di Memoria che hanno lasciato un segno di consapevolezza nella società. 

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LA DECISIONE DELLA PRIMA ATLETA PARALIMPICA NELLA STORIA DI ISRAELE

"Niente finale olimpica, scelgo lo Shabbat"

Partecipare a una finale olimpica, un sogno lungamente inseguito e finalmente a portata di mano. Oppure rispettare lo Shabbat, il giorno più sacro della settimana ebraica. Quello in cui ogni attività lavorativa è sospesa.
Davanti a questo bivio Sheina Vaspi, la prima sciatrice paralimpica nella storia d’Israele, non ha avuto dubbi. Con il cuore gonfio di dolore, certo – “perché per arrivare qui mi sono allenata duramente” – ma senza riserve ha fatto sapere agli organizzatori delle Paralimpiadi di Pechino di non contarla tra le partenti dello slalom speciale. Ci sono cose che non si toccano e tra queste, ha fatto capire l’atleta, che è affiliata al movimento Chabad, c’è l’ebraismo. Vaspi era arrivata a Pechino con una data cerchiata di rosso: domenica 13 marzo. Quella la data ufficiale della prova, anticipata però all’ultimo al sabato a causa di significative turbolenze atmosferiche date per imminenti. Un vero e proprio fulmine a ciel sereno per lei, per i suoi fan e per la federazione. “Naturalmente sono molto triste. Ma forse è un segno dall’Alto” ha affermato la sciatrice, che ha perso una gamba in un incidente stradale all’età di 10 anni. 

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Pace contro verità
Questo è il tempo della politica come argomentazione fredda. Pace in cambio della libertà mi ricorda i Sudeti, Monaco 30 settembre 1938. L’alternativa impegnativa mi sembra, invece, questa: pace contro verità. In ogni posto dove c’è verità, non c’è pace perché la verità non è conciliativa. Contemporaneamente in ogni posto dove c’è pace non c’è giustizia, perché la pace è frutto di un compromesso o della ricerca di un compromesso. Appunto: politica come argomentazione fredda.
                                                                         David Bidussa
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I demoni del passato
Affrontare con rigore analitico ed ermeneutico la vicenda bellica che contrappone la Russia all’Ucraina è come addentrarsi in un terreno minato. Se per gli studiosi, i ricercatori e gli analisti l’involuzione del quadro regionale, causato dall’aggressione di Mosca, non è di per sé troppo sorprendente – anche se ci si continua ad interrogare su tempi, modalità e reali obiettivi – la sua repentinità e la sostanziale nebulosità del target definitivo (fino a che punto si giungerà prima che le ostilità cessino?) costituiscono due fattori di forte incertezza nella formulazione di giudizi sufficientemente argomentati rispetto ai meri dati di fatto. Un simile stato di disagio non riguarda, invece, i giudizi di valore in quanto tali. 
                                                                          Claudio Vercelli
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