I RABBINI E IL SIGNIFICATO DELLA FESTA IN TEMPO DI GUERRA
"Pesach, un messaggio di libertà
contro la violenza di chi opprime"
Lottare per la libertà, agire per il cambiamento, rifiutare l’indifferenza. Sono alcuni dei valori che ci tramanda la festa di Pesach che prenderà il via stasera, dopo il tramonto, con il tradizionale appuntamento del primo Seder. Un’occasione per riflettere attorno a domande che le generazioni ebraiche si pongono da millenni, nei contesti più diversi, con uno sguardo rivolto anche all’attualità del conflitto in Ucraina e ad altre questioni che suscitano allarme. A partire dall’escalation di terrorismo e violenza in Israele.
“Rav Joseph Soloveitchik evidenziava come l’uscita dall’Egitto avesse rappresentato un cambiamento radicale da molti punti di vista. Tra questi, uno fondamentale è legato alla mentalità. Il mondo antico infatti era basato sulla schiavitù, che si esplicitava in varie modalità” ricorda rav Alfonso Arbib, rabbino capo di Milano e presidente dell’Assemblea Rabbinica Italiana. Alla base di quel modello sociale “l’idea che il più forte ha il diritto di dominare il debole e anche di opprimerlo”. Con l’uscita dell’Egitto che sarà rievocata stasera partendo dal testo della Haggadah ecco imporsi il principio contrario, sancito tra gli altri da un insegnamento che non ha perso la sua centralità: “Nessuno ha il diritto di opprimere gli altri”. Lo si apprende anche dalle numerose mitzvot della Torah che si ricollegano esplicitamente all’uscita dall’Egitto e che sono incentrate, per l’appunto, sulla tutela di chi ha meno possibilità, di chi è in posizione svantaggiata rispetto a chi vuole sopraffarlo. Un messaggio assai significativo al giorno d’oggi, in un momento storico “in cui la tentazione di applicare la legge del più forte torna ad affacciarsi nel nostro mondo”.
Rav Giuseppe Momigliano, rabbino capo di Genova e assessore UCEI con delega agli Affari religiosi, invita a vivere questa festa – nonostante le molte notizie dolorose a ciclo continuo – “con serenità, fiducia e la pienezza di sentimenti ed emozioni”. Un Pesach quindi “che ci dia la carica che abbiamo bisogno di ritrovare, per rafforzare la motivazione e il senso del nostro impegno in campo ebraico”. Per il rav riflettere sull’Egitto significa anche ricordarsi come fosse, a quel tempo, “una grande potenza, ma basata sull’oppressione: non quindi una realtà in grado di determinare il percorso della storia secondo quello che la Torah concepisce nel passaggio dal passato al futuro”. L’uscita dall’Egitto, un progetto sempre vivo “per realizzare una società contrapposta a questa visione, ispirandoci a libertà, giustizia, fede nel Signore”. Compito dell’ebraismo davanti ai tanti scenari di crisi che sembrano sovrastarci, insiste il rav, “non è solo quello di condividere la sofferenza, ma anche di agire per un cambiamento”. E naturalmente, come insegna Pesach, “guardarci attorno, dare accoglienza: chi arriva va aiutato”.
Molti agganci con il presente anche per rav Gianfranco Di Segni, coordinatore della Traduzione del Talmud in italiano. “Pesach – afferma – è la prima redenzione del popolo d’Israele. Secondo i Maestri essa contiene in sé tutte le redenzioni future e prelude alla redenzione messianica”. Al riguardo c’è un’interessante discussione fra i Maestri su come saranno i tempi messianici. Per esempio, spiega il rav, “riguardo alla famosa profezia di Isaia secondo cui ‘il lupo dimorerà con l’agnello, il leopardo con il capretto ecc.’, c’è in effetti chi afferma che gli animali dell’era messianica saranno fisiologicamente e anatomicamente differenti da quelli attuali e gli animali carnivori diverranno erbivori”. È l’opinione seguita da rav Kook, il primo rabbino capo della Terra d’Israele nel secolo scorso. C’è però un’altra opinione riportata nel Talmud (Berakhot 34b) ed è quella di Shemuel, che afferma che il lupo e l’agnello sono in realtà simboli delle diverse popolazioni. L’unica differenza fra il tempo nostro e l’era messianica “è che non ci sarà più ‘l’asservimento di un popolo all’altro’, ossia quando nessun popolo aggredirà un altro popolo, allora quella sarà l’era messianica (un’opinione seguita anche dal Maimonide)”. C’è poco da aggiungere per il rav: “I nostri occhi vedono che ancora non siamo giunti a tale epoca. Ma come si suol dire, speriamo che il Messia venga presto ai nostri giorni, Amèn”.
Rav Michael Ascoli, che nell’ambito del progetto Talmud ha curato la traduzione del trattato Ta‘anìt, parla di un Pesach segnato dal tema Ucraina. “È importante che si evitino paragoni fuorvianti, ma al tempo stesso è essenziale che non si resti indifferenti”, dice a proposito dell’aggressione militare russa e delle sue conseguenze. Molti gli spunti che Pesach ci offre: in primis il fatto “che per la libertà, talvolta, bisogna anche combattere; che la libertà non la si conserva da sé”. In questo senso l’Egitto, archetipo di schiavitù, è anche la storia di un tiranno, il faraone, “e della capacità che dimostrò nel manipolare i suoi sudditi: anche allora una propaganda fatta bene”. Parole di consapevolezza sono invece il cuore della Haggadah. Un testo, si rimarca, “che ci insegna a dare loro un valore, a capirne il senso”. E un viaggio verso la libertà “che è anche caratterizzato da una doverosa assunzione di responsabilità”. Per rav Ascoli un elemento da far risaltare anche stavolta, “in questo primo Pesach ‘normale’ dopo due anni di Covid”. L’augurio è che la pandemia “ci abbia insegnato proprio questo: ad essere responsabili verso se stessi e verso gli altri, sempre”.
Il Seder di Pesach come occasione di spensieratezza ritrovata dopo due anni di pandemia, ma anche come momento di consapevolezza profonda per ragionare sul “significato di vita, di salvezza e di libertà di agire, specialmente per le difficilissime settimane di guerra in Ucraina che raggiunge le nostre realtà evidentemente non così remote come a volte immaginiamo”.
Così la presidente UCEI Noemi Di Segni in un messaggio all’ebraismo italiano per la festa di Pesach. La libertà come status e la liberazione che la precede, si ricorda, “sono condizioni per la pianificazione del proprio futuro che non può avvenire in solitudine e nel vuoto ma all’interno di un quadro di valori, primo fra tutti quello della vita e la dignità di esseri umani e nell’aggregazione al Popolo”. L’essere parte di una comunità ebraica per esercitare appieno la libertà di essere ebrei, conoscere e preservare la millenaria storia, la tradizione e il contributo allo sviluppo dell’umanità sono in tal senso “le nostre sfide quotidiane, che nelle giornate di festa – specialmente di Pesach – assumono assoluta concretezza, traducendosi in un vivace fare, organizzare, cucinare, pregare, narrare e tramandare”. Tutto questo, si evidenzia, “grazie all’impegno e alla collaborazione di tutti voi – presidenti, rabbanim, consiglieri, segretari, dipendenti, collaboratori, ragazzi, consulenti e volontari che con dedizione avete aiutato a giungere anche a questo giorno di vigilia di Pesach”. Il pensiero, scrive ancora Di Segni, “incrocia i diversi piani esistenziali e va a tutti coloro che sono limitati dal virus o altre malattie con l’augurio di pronta guarigione, alle famiglie in lutto – anche in Israele per gli attentati avvenuti di recente – esprimendo la nostra vicinanza, alle famiglie che si sono aggiunte alle nostre comunità trovando un angolo di luce, fuggendo dalla guerra nell’auspicio di poter alleviare una parte dell’orrore vissuto”.
“Ma nishtanà ha laila ha ze miccol ha lelot? In cosa differisce questa sera dalle altre sere?”. Con queste parole da oltre duemilacinquecento anni iniziamo la lettura della Haggadà, che segna l’inizio ufficiale della festa di Pesach. Zeman cherutenu – epoca della nostra libertà; è così che i Maestri del Talmud hanno voluto chiamare questa festa che ricorda la liberazione da una schiavitù – fisica e morale – durata oltre quattrocento anni, che ha tentato di cancellare gli usi e i costumi di un’etnia che portava con sé da almeno altri quattro secoli. Sono trascorsi da quel momento tremilacinquecento anni circa, ma le domande che ci facciamo e le risposte che ci diamo sono sempre le stesse.
Nel seder la narrazione della liberazione dalla schiavitù non può iniziare senza la domanda. Non si tratta solo di un espediente per attirare l’attenzione dei più piccoli: il Talmud prescrive esplicitamente che anche “due studiosi dotti, che conoscano le regole di Pesach si domandano l’un l’altro”, o addirittura, in mancanza di altre persone con cui sia possibile dialogare, “egli domanda a se stesso”. Domandare, soprattutto a se stessi, significa dubitare, non conoscere già la risposta in anticipo. Quindi possiamo arrivare al seder con tanti bei testi di commentatori autorevoli, oppure tante belle citazioni letterarie, o ancora con tante belle idee generate dalla nostra testa. Ma dovremmo essere pronti a dubitare, mettere tutto in discussione, porre altre domande. In un certo senso il seder è un’interrogazione a cui abbiamo il dovere di arrivare impreparati.
Con un post sui propri profili social il vignettista Vauro Senesi dà del "cretino” a coloro che lo accusano di antisemitismo per il naso aquilino di Zelensky, ritratto in una delle sue ultime vignette. Ci riesce quasi bene sino a quando non arriva al punto di affermare che “eventualmente ci si dovrebbe domandare come mai un ebreo si sia fatto sponsorizzare da un oligarca come Kolomoinskj (per altro anche lui ebreo, con passaporto israeliano), che ha finanziato i battaglioni nazisti come Azov e Ajdar”. Dunque il post di Vauro sembra avere l’intento di difendersi da qualunque accusa di antisemitismo, quando in realtà un altro (o forse il reale?) obiettivo pare quello di rimarcare il fatto che vi siano ebrei presunti finanziatori di battaglioni o gruppi neonazisti.