Il dovere di ricordare
“Ma nishtanà ha laila ha ze miccol ha lelot? In cosa differisce questa sera dalle altre sere?”
Con queste parole da oltre duemilacinquecento anni iniziamo la lettura della Haggadà, che segna l’inizio ufficiale della festa di Pesach. Zeman cherutenu – epoca della nostra libertà; è così che i Maestri del Talmud hanno voluto chiamare questa festa che ricorda la liberazione da una schiavitù – fisica e morale – durata oltre quattrocento anni, che ha tentato di cancellare gli usi e i costumi di un’etnia che portava con sé da almeno altri quattro secoli. Sono trascorsi da quel momento tremilacinquecento anni circa, ma le domande che ci facciamo e le risposte che ci diamo sono sempre le stesse.
Come è possibile che un popolo dinamico come il nostro, che tende sempre in ogni momento a guardare avanti per vedere uno spiraglio di luce, in un buio semi totale, si soffermi per oltre tre millenni a chiedersi e ripetersi sempre le stesse cose?
La Torà, prima ancora che gli ebrei uscissero liberi, ammonisce dicendo: “Quando sarai libero, hai il dovere di ricordare la schiavitù egizia”.
Il dovere di ricordare è considerato, sia dalla Torà che dai Maestri del Talmud, una delle cose fondamentali della nostra vita e della nostra tradizione. Non può esserci storia senza la memoria di ciò che fu; un ebreo non può considerarsi libero se non ha un attimo al giorno in cui non ricordi di essere stato schiavo in Egitto: “Lema’an tizkor et iom zetekhà me erez mizraim col iemè chaiekha – affinché ti ricordi il giorno in cui uscisti dall’Egitto, tutti i giorni della tua vita”.
La schiavitù è anche intesa come la negazione del diritto di espressione delle proprie opinioni, delle proprie tradizioni.
Il termine chamez che noi traduciamo – cibo lievitato – va anche inteso come elemento chimico che fermenta e quindi si gonfia.
Tutto ciò che si gonfia, spiegano i Chakhamim, tende ad esplodere e provocare danni, a volte irreparabili.
La violenza non è solo fisica ma anche morale e psicologica; non è detto che la schiavitù debba essere un’oppressione soltanto materiale. In contrapposizione al chametz (che si gonfia), la Torà ordina di mangiare le mazzot – il pane umile, quello piatto (che non si gonfia). Concedere libertà vuole anche dire abbassarsi con umiltà ad ascoltare il nostro prossimo, concedendogli il diritto di manifestare un’opinione, anche se diversa dalla nostra. Le pulizie delle case ebraiche di questi giorni debbono essere il segnale dimostrativo che ognuno ha la volontà di allontanare, da esse e da noi stessi, ogni tipo di violenza e di prevaricazione contro chi ci troviamo davanti: nostro fratello.
Un midrash cabalistico insegna che, nel momento del biur chametz, quando bruceremo tutto ciò che appartiene all’anno passato, dobbiamo concentrarci come se le fiamme che annullano quel chametz, entrassero all’interno del nostro corpo e annullassero tutta la violenza che è nascosta nel nostro cuore e nelle nostre viscere. Così come non si può celebrare il seder in una casa dove non sia stato fatto biur chamez, così noi non possiamo considerarci liberi fintanto che non ci siamo tolti da dentro i rancori e le cose che ci provocano reazioni violente verso il nostro prossimo.
“Per sette giorni non dovrà trovarsi chametz nelle vostre abitazioni” comanda la Torà! Le abitazioni sono anche i nostri corpi che ospitano le nostre anime. In previsione di questi giorni così sacri per il nostro popolo, togliamo questo chamez da ogni luogo di nostra appartenenza e disponiamoci ad ascoltare le esigenze del nostro prossimo, mettendo in pratica le parole con cui inizia la haggadà: “Kol ditzrikh jetè ve je khol Kol dikhfin jetè ve ifsach – Chi ha bisogno venga e mangi, chi ha bisogno venga e faccia Pesach”. Chag Pesach Kasher Ve Sameach
Rav Alberto Sermoneta, rabbino capo di Bologna
(15 aprile 2022)