DA GERUSALEMME, L'EX RABBINO CAPO DI MOSCA RAV PINCHAS GOLDSCHMIDT
"La guerra è una catastrofe per la Russia.
La cortina di ferro si sta richiudendo"

In parte in esilio, in parte a casa. La nuova vita a Gerusalemme per l'ex rabbino capo di Mosca rav Pinchas Goldschmidt è carica di contraddizioni. Aver lasciato quelle che per oltre trent'anni è stata casa sua, dove ha contribuito a ricostruire un tessuto ebraico, è stata una scelta difficile. Ma, come ha raccontato alla tedesca Süddeutsche Zeitung di recente, la pressione da parte delle autorità russe su di lui perché assecondasse pubblicamente l'invasione dell'Ucraina lo ha spinto a trasferirsi in Israele. Qui ha studiato da giovane e qui vive parte della sua famiglia. “Conosciamo molto bene il Paese, i miei genitori vivono qui, abbiamo figli e nipoti qui. Quindi da un lato è anche casa mia, ma naturalmente mi sento davvero in esilio”, ha spiegato il rav al giornalista Peter Münch, in quella che è stata la sua prima intervista pubblica dall'abbandono forzato di Mosca.
Tra le prime domande, una sulla pressione subita dal Cremlino per dare appoggio all'aggressione avviata il 24 febbraio scorso. “Chiunque parli della guerra corre il rischio di essere punito e imprigionato. Eravamo sotto pressione perché la comunità ebraica si esprimesse ufficialmente a favore della guerra. Poiché non avevamo la possibilità di dire qualcosa di critico, inizialmente abbiamo deciso di non dire nulla. - ha spiegato rav Goldschmidt - Per me è stato un grande problema morale: rimango in silenzio, eppure devo fare qualcosa. Per questo motivo io e mia moglie abbiamo deciso di lasciare la Russia”. Come i coniugi Goldschmidt, altre migliaia di persone nella prima metà del 2022 hanno deciso di fare l'aliyah dalla Russia. Secondo i dati del Ministero per l'Aliyah e l'Integrazione, ai primi di luglio ad emigrare sono state 16.598 persone. Il doppio rispetto al 2021 e il 40 per cento in più rispetto a chi è arrivato nello stesso periodo dall'Ucraina. Ora il Cremlino sta cercando di ostacolare questo flusso, colpendo l'Agenzia ebraica a Mosca. Passando attraverso i tribunali infatti, le autorità russe vorrebbero far chiudere l'ufficio locale dell'ong basata a Gerusalemme. Una notizia che sui social il rav Goldschmidt ha commentato con un certo sarcasmo: “in realtà la Russia ha fatto di più per promuovere l'emigrazione in Israele negli ultimi mesi di quanto abbia fatto l'Agenzia Ebraica negli ultimi dieci anni”.
La guerra, come raccontano i numeri, ha spinto molti russi a chiedere, attraverso la Legge del Ritorno, la cittadinanza israeliana e a trasferirsi direttamente nel paese. Il perché lo spiega in poche parole Goldschmidt alla Süddeutsche. “Questa guerra è una catastrofe totale non solo per l'Ucraina e l'ebraismo ucraino, ma anche per la Russia, che sta facendo un grande passo indietro verso l'Unione Sovietica”. La comunità ebraica del paese continua ad andare avanti, ma i problemi da tempo si stanno aggravando. “Negli ultimi anni, ad esempio, più di dieci rabbini sono stati espulsi per vari motivi. Questo indica che la situazione è molto delicata”.
Il giornalista Peter Münch poi chiede conto dei rapporti del mondo ebraico con Putin. “Ci sono conflitti all'interno dell'ebraismo russo quando si parla di Vladimir Putin?", chiede Münch. E aggiunge: "Per esempio, il rabbino capo della Russia, Berel Lazar, è sempre stato considerato un confidente del presidente ed è rimasto nel Paese”. “Essere vicini a un governo o a un presidente può portare molti vantaggi, ma alla fine c'è un prezzo da pagare. - la replica di Goldschmidt - Ma spetta ad altri giudicare da che parte della storia si vuole stare”.
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DOSSIER ITALKIM
"La mia aliyah, scelta di consapevolezza"

Membro illustre della comunità degli italkim è Sergio Della Pergola, accademico e demografo di fama. Natali a Trieste, una miracolosa salvezza al tempo delle persecuzioni nazifasciste con espatrio in Svizzera, studi e gioventù a Milano e infine Gerusalemme dove risiede ormai da oltre mezzo secolo. La scelta dell’Aliyah, almeno per lui, maturò in un momento dirimente: la Guerra dei Sei Giorni del giugno del 1967. “Mi trovavo a Gerusalemme da qualche mese per un dottorato all’Università ebraica quando arrivò la guerra”, racconta Della Pergola. “Un’esperienza traumatizzante, con la stessa università che fu cannoneggiata dai giordani. E poi il post-guerra, quella sensazione diffusa in tutta Israele che dopo aver salvato la pelle sarebbe potuta comunque arrivare la pace”. Una combinazione di emozioni che lo avrebbero spinto a restare, senza neanche pensarci più di un tanto. “La mia sottolinea fu una scelta libera, programmatica, ideologica. Anche logica”. I semi di quella fascinazione erano però maturati da anni, e non solo nel salotto di una casa, quella in cui era cresciuto, dove si respirava da sempre sionismo. “Fu al tempo della maturità, quando come premio per gli studi ottenni un viaggio in Israele insieme ad alcuni amici. Lo attraversammo per intero in autostop. La sensazione che provai fu quella di un Paese ‘puro’, con entusiasmo e pionierismo indimenticabili. Me ne innamorai subito, in un modo che definirei fisico”.
(Nell’immagine Sergio Della Pergola assieme a Ibrahim Washahi, studente arabo-israeliano e compagno nel dormitorio dell’Università ebraica di Gerusalemme tra il 1966 e il 1967)
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LA SCOMPARSA DELLA PITTRICE, PUNTO DI RIFERIMENTO DELLA PADOVA EBRAICA
Silvana Weiller Romanin Jacur (1922-2022)

Pittrice poliedrica con una forte attenzione al tema dell’identità, Silvana Weiller Romanin Jacur aveva esordito esponendo una serie di bozzetti di scena al Caffè Pedrocchi: uno degli storici punti di ritrovo della cultura e intellettualità padovana, testimone in passato di eventi chiave del nostro Risorgimento. Da qui era iniziata la sua carriera di artista intenzionata a farsi largo in un mondo a larga prevalenza maschile. Una missione centrata attraverso una serie di mostre e iniziative che le sono valse nel tempo un riconoscimento nazionale.
Scomparsa nelle scorse ore all’età di 100 anni, era nata a Venezia nel 1922 e si era appassionata all’arte fin da giovane. Le leggi razziste la colpirono mentre si trovava a Milano, dove frequentava il liceo Parini. Come tanti altri correligionari dovette così proseguire gli studi presso la scuola ebraica allestita in via Eupili: l’unica consentita dal regime. Un nuovo shock, l’occupazione nazista del Paese in seguito all’armistizio, portò lei e la famiglia alla decisione di fuggire in Svizzera. Al ritorno in Italia con in tasca il diploma conseguito al Corso Libero di Nudo presso l’Ecole Cantonal d’Art di Lausanne troverà, nella Padova del dopoguerra, una città ideale in cui muoversi e operare. Prezioso già allora il suo coinvolgimento all’interno di una Comunità ebraica attesa alla difficile prova della ripartenza. Portano infatti la sua firma alcuni rotoli disegnati per abbellire le sale comunitarie.
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PAGINE EBRAICHE - I DIPINTI DI SILVANA WEILLER ROMANIN JACUR
Dal Mar Rosso all’Odessa di Babel,
ebraismo e identità su tela

“Un gioco serissimo, anzi profondo”. Potrebbe cominciare da queste parole di Diego Valeri la riflessione sui racconti dipinti di Silvana Weiller. La serie dei cartoni e dei disegni prodotti dell’artista a partire dall’immediato dopoguerra sino a circa i primi anni sessanta, sono conosciuti da pochi e in parte purtroppo andati perduti. Eppure rappresentano, grazie al carattere della narrazione fiabesca, uno spaccato straordinario della sua creatività, nella quale il racconto biblico, attraverso un lessico incantatorio, si colora di magico. Ma andiamo con ordine e avviciniamoci con trepidazione a questa sontuosa parata di personaggi, interpreti di storie antiche, di quelle che si tramandano di generazione in generazione.
Quest’anno Silvana Weiller Romanin Jacur ha raggiunto il secolo di vita; un traguardo importante se non addirittura eccezionale, come d’altra parte eccezionale è stata la sua presenza sulla scena artistica patavina. Nel 1945, moglie di Leo Romanin Jacur, giunge a Padova dalla Svizzera. È una giovane sposa carica di speranze e soprattutto di voglia di ricominciare, fosse solo per quel figlio che porta in grembo. Vuole lasciarsi alle spalle il passato: di fronte a sé ha una strada tutta nuova da percorrere, disseminata di incertezze ma anche di aspettative. Una svolta fondamentale quindi, che prende l’avvio da una città diversa da quella che l’aveva vista ragazza spensierata e felice (nata a Venezia, è vissuta a Milano sino al 1943) e da una posizione sociale differente.
Marina Bakos
(Nell'immagine, un quadro di Silvana Weiller ispirato alla festività di Pesach)
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VOCE DI MEMORIA DELLA RODI EBRAICA DISTRUTTA DALLA SHOAH
Jacinthe Menasce (1925-2022)
“Rodi l’ho sempre dentro di me. È un’isola stupenda. A quel tempo c’erano gli ebrei, la comunità dei musulmani, la comunità ortodossa dei greci e tutti convivevano pacificamente…”.
Un equilibrio destinato ad infrangersi con la persecuzione nazifascista. Dei circa duemila ebrei rodioti catturati nel luglio del ’44 e poi avviati alla deportazione, poco più di un centinaio sopravvivranno all’inferno di Auschwitz-Birkenau. Gli ultimi testimoni di un mondo annientato, nella sua quasi totalità, nelle camere a gas. Quel mondo era rimasto nel cuore e nei pensieri più teneri di Jacinthe Menasce, classe 1925, che a Rodi ci era nata e cresciuta fino agli anni dell’adolescenza. Salvifica in quel drammatico frangente del conflitto che vedeva sempre più porte chiudersi per gli ebrei d’Europa la decisione di emigrare negli Usa, dove all’inizio del 1940 poté ricongiungersi a una sua sorella più grande. Nella morsa della Shoah finirono invece i genitori Mardocheo Menasce e Rebecca Marcos. “Dopo la deportazione non ho saputo più nulla, nessuna lettera, nessun contatto” la sua testimonianza, letta al Centro Ebraico Il Pitigliani di Roma (dove viveva dall’inizio degli Anni Cinquanta) in occasione dell’ultima edizione del format Memorie di famiglia. “L’unica lettera che ho trovato, molto tempo dopo, è una lettera che mio padre aveva scritto in francese ad un amico nel Congo Belga per chiedere notizie di mio fratello. Che fossero morti l’ho saputo quattro anni dopo a New York…”.
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La caduta del fascismo

25 luglio 2022 – 25 luglio 1943: un anniversario, questo della caduta del fascismo, che vale la pena di ricordare, soprattutto ora.
La caduta di Mussolini, il suo arresto all’uscita dalla seduta del Gran Consiglio che lo sfiducia, è certamente frutto di una congiura di palazzo, ma anche e soprattutto della crescente consapevolezza che la guerra con Hitler era perduta. Gli scioperi nelle fabbriche nel marzo, lo sbarco alleato in Sicilia. Il terribile bombardamento angloamericano di San Lorenzo, ne sono i chiari segnali.
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Oltremare - Prospettiva

Meno di quindici anni nel paese, e già posso dire "una volta, qui, non era così". E sarà perché tutto è veloce, o tutto comunque perlomeno sembra molto veloce, in Israele, ma davvero, bastano pochi anni per poter far girare in mente il film in bianco e nero con i cambiamenti anche soltanto fisici che avvengono, come nelle comiche ma non sempre divertentissimi. Un esempio è la salita delle quinte dietro la schiena dei bagnanti lungo le chilometriche spiagge di Tel Aviv.
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