Jacinthe Menasce (1925-2022)
“Rodi l’ho sempre dentro di me. È un’isola stupenda. A quel tempo c’erano gli ebrei, la comunità dei musulmani, la comunità ortodossa dei greci e tutti convivevano pacificamente…”.
Un equilibrio destinato ad infrangersi con la persecuzione nazifascista. Dei circa duemila ebrei rodioti catturati nel luglio del ’44 e poi avviati alla deportazione, poco più di un centinaio sopravvivranno all’inferno di Auschwitz-Birkenau. Gli ultimi testimoni di un mondo annientato, nella sua quasi totalità, nelle camere a gas. Quel mondo era rimasto nel cuore e nei pensieri più teneri di Jacinthe Menasce, classe 1925, che a Rodi ci era nata e cresciuta fino agli anni dell’adolescenza. Salvifica in quel drammatico frangente del conflitto che vedeva sempre più porte chiudersi per gli ebrei d’Europa la decisione di emigrare negli Usa, dove all’inizio del 1940 poté ricongiungersi a una sua sorella più grande. Nella morsa della Shoah finirono invece i genitori Mardocheo Menasce e Rebecca Marcos.
“Dopo la deportazione non ho saputo più nulla, nessuna lettera, nessun contatto” la sua testimonianza, letta al Centro Ebraico Il Pitigliani di Roma (dove viveva dall’inizio degli Anni Cinquanta) in occasione dell’ultima edizione del format Memorie di famiglia. “L’unica lettera che ho trovato, molto tempo dopo, è una lettera che mio padre aveva scritto in francese ad un amico nel Congo Belga per chiedere notizie di mio fratello. Che fossero morti l’ho saputo quattro anni dopo a New York…”.
Un’occasione anche per ricordare la vivacità culturale della “sua” Rodi ormai scomparsa. “Mio padre pensò di darmi il nome di mia nonna Ziguld, ebrea di origine turca. Parlava bene il francese, perché si era laureato in Libano. Così cercò, insieme ad un amico, la traduzione del nome Ziguld dal turco al francese e uscì Jacinthe”, raccontava alle sue intervistatrici Emanuela Rimini e Anna Foa. “Non vi erano scuole statali e, pur esistendo delle scuole ebraiche dell’Alliance Francaise, i miei mi mandarono in una scuola di suore vicino casa, dove con me c’erano solo altri tre bambini ebrei: la cosa interessante è che nelle ore di religione c’era anche il rabbino”. Ricordava ancora la donna: “Non andavamo in sinagoga tutti i sabati, ma accendevamo le candele di Shabbat e la kasherut era molto rispettata. All’inizio avevamo anche la carne kasher, poi l’hanno eliminata, ma essendo un’isola c’era pesce in abbondanza e poi avevamo un rabbino amico nostro che ci riforniva di pollame kasher”. A causa dell’introduzione delle leggi razziste il padre, la cui professione era quella di farmacista, in Italia non avrebbe più potuto esercitare. A Rodi invece potè farlo fino all’ultimo, distinguendosi per una grande dedizione e impegno. “Era molto in contatto con gli ospedali. Aveva questa responsabilità. Ecco perché i miei genitori non sono andati via”, le parole della figlia.
Chi l’ha conosciuta bene la ricorda come una donna dalla spiccata sensibilità artistica e intellettuale, capace di intrattenere conversazioni in molte lingue e con una passione forte per la musica. Negli anni americani aveva imparato a suonare il pianoforte e conosciuto, tra gli altri, il leggendario Leonard Bernstein. Al periodo negli Usa risale anche la conoscenza con Amedeo Di Castro, suo futuro marito, fuggito dall’Italia al tempo delle persecuzioni antisemite. Dalla loro unione sarebbero nati Margareth, scomparsa prematuramente, e Richard, attuale presidente del coro HaKol. Entrambi l’avrebbero allietata con dei nipoti. Custode delle antiche tradizioni rodiote, anche a tavola, Jacinthe si è sempre sforzata di sorridere e guardare con ottimismo al futuro. Un messaggio, la sua vita, di impegno e continuità nelle generazioni.
I funerali si sono svolti quest’oggi nel cimitero romano di Prima Porta.
Sia il suo ricordo di benedizione.