LA SCELTA DI NETANYAHU PER APPROVARE ALCUNE MODIFICHE CHIAVE
Un presidente provvisorio per la Knesset
Yair Levin verso la nomina
Per il Premier incaricato Benjamin Netanyahu è necessario nominare subito un nuovo speaker della Knesset. I suoi alleati – il partito religioso Shas e l’estrema destra di Otzma Yehudit e del Sionismo religioso – hanno condizionato il loro ingresso nel futuro governo d’Israele all’approvazione in parlamento di tre provvedimenti. Uno diretto ad espandere i poteri del futuro ministro della Pubblica sicurezza, il leader di Ozma Yehudit Itamar Ben Gvir; uno per garantire al futuro ministro dell’Economia Bezalel Smotrich, leader del Sionismo religioso, la responsabilità dell’unità che gestisce tutte le questioni relative all’espansione degli insediamenti e alla vita quotidiana di chi ci vive; un terzo che permetta a Ayreh Deri, che si avvia a diventare ministro dell’Interno e della Sanità, di ottenere l’incarico nonostante una condanna – sospesa – per frode fiscale. Affinché queste modifiche vengano calendarizzate, la coalizione di Netanyahu ha bisogno di sostituire l’attuale presidente della Knesset, Mikey Levy (membro dell’attuale opposizione), con un suo rappresentante. Contrasti interni al Likud, riportano i media locali, hanno però complicato questo iter e così il Premier incaricato avrebbe scelto di nominare un presidente ad interim. Il nome scelto per questo ruolo provvisorio è quello di Yair Levin, che lo ha già ricoperto in passato. Poi con il giuramento del nuovo governo, Levin andrebbe a ricoprire una carica ministeriale e sarebbe quindi sostituito da uno speaker a quel punto definitivo. I nomi che si fanno sui giornali israeliani sono quelli di David Amsalem, Amir Ohana, Ofir Akunis e Danny Danon.
“La lezione di mio padre: niente è impossibile se si osa”
Per la prima edizione del premio annuale del Centro che aveva appena fondato a Genova, intitolandolo alla memoria di Primo Levi, Piero Dello Strologo pensò subito in grande. “Porterò qui Elie Wiesel”, aveva detto ai suoi collaboratori. Wiesel era fresco di vittoria del Nobel e un conferenziere richiesto in tutto il mondo. Sembrava un’impresa impossibile ma riuscì, dando al premio, fin dalle origini, una proiezione e un respiro internazionale. Oltre trent’anni di lavoro che hanno richiamato a Genova grandi nomi del nostro tempo e che hanno reso l’istituzione di cui è stato non solo il fondatore, ma anche anima, cuore e polmone, una realtà tra le più vivaci del panorama culturale nazionale. Nell’imminenza del primo anniversario dalla scomparsa la sua creatura più amata gli ha reso ieri un commovente omaggio, iscrivendone il nome nell’albo dei vincitori.
“Per mio padre tutto si poteva ottenere, bastava osare” le parole del figlio Ariel, che ha ritirato il premio insieme a sua fratello Emanuele. Ricordo biografico, ma anche approfondimento di alcuni temi che più stavano a cuore a Dello Strologo nel corso della cerimonia svoltasi a Palazzo Ducale: il ruolo degli intellettuali nel tempo presente, i rapporti tra Stato e minoranza ebraica, eredità e retaggio dell’ebraismo sefardita. Una vivificazione del suo lascito, con l’impegno a portarne avanti missione e messaggio. “Ha dato un apporto fino all’ultimo istante, adattandosi anche al nuovo contesto della pandemia. Da marzo del 2020 a dicembre del 2021 è stato il promotore di circa 170 incontri online. Un patrimonio a disposizione, nella sua quasi totalità, sul canale YouTube del Centro. La sfida che ci lascia in eredità – afferma Ariel – è quella di proseguire nel suo solco, aprendoci ancora di più alle nuove generazioni”.
La cerimonia ha visto la partecipazione del sindaco Marco Bucci e dell’attuale presidente del Centro Primo Levi Alberto Rizzerio. A svolgere gli interventi sono stati invece Saul Meghnagi, David Bidussa e Myriam Silvera. Dal palco Ariel Dello Strologo ha rivolto una duplice dedica: al popolo iraniano in lotta per la libertà, nel pieno in queste settimane di una prova decisiva, e a chi dedica il suo tempo ad aiutare i migranti in fuga dal proprio Paese “in cerca di una vita migliore”.
L'INTERVENTO PER IL CONFERIMENTO DEL PREMIO PRIMO LEVI ALLA MEMORIA
Piero Dello Strologo e la cultura del dialogo
Piero Dello Strologo fa parte di una generazione che ha attraversato la più grande tragedia del ventesimo secolo. Nel pensare a lui vengono in mente suoi contemporanei che hanno avuto un’esperienza analoga e si sono posti domande analoghe. Tra queste c’è Hans Jonas che, di fronte ai cancelli di Auschwitz, dove era stata uccisa la madre, a chi gli domandò quali fossero i suoi pensieri rispose: “Come faremo a parlare di tutto questo e chiedere agli uomini, soprattutto ai giovani, di avere fiducia l’uno nell’altro?”.
Forse Piero Dello Strologo si poneva una domanda analoga, quando volle dedicare la sua Associazione culturale a Primo Levi, che aveva avuto la forza di parlare, di raccontare, di interrogarsi, di interrogare, come molti altri non osavano fare. Forse lo legava a Primo Levi, oltre a rapporti di parentela, anche la domanda posta ne La tregua, se lasciare il proprio Paese dal quale ci si sentiva traditi da leggi ignobili o combattere dove si era nati e vissuti. La sua risposta fu quella di Primo Levi, rimanere e combattere, con le idee, con il sapere, con la sensibilità, con il confronto.
Forse si deve anche a questo l’impegno di Piero dello Strologo in quelle organizzazioni ebraiche con le quali aveva un legame contraddittorio e relativamente nuovo rispetto al passato.
Nel 1947 lo storico francese Jules Isaac fu tra i promotori della conferenza di Seelisberg nel corso della quale ebrei e cristiani lì riuniti concordarono un appello in dieci punti, rivolto alla leadership cristiana, per ottenere la cessazione di qualsiasi forma di predica e narrazione ostile agli ebrei. Il necessario preludio all’affermazione di un clima di maggior consapevolezza e apertura al dialogo che sarebbe stata la cifra del suo libro più celebre, Gesù e Israele, pubblicato l’anno successivo. Un testo dal grande impatto: dedicato alla moglie e figlia assassinate in campo di sterminio, avrebbe fatto il giro del mondo e sarebbe stato seguito da un’azione incessante per dare frutto alla speranza di un mondo migliore. Uno dei semi sul quale sarebbe poi germogliata la Dichiarazione Nostra Aetate.
Ad evidenziarlo, durante un incontro con i vertici dell’Amicizia Ebraico Cristiana di Francia di cui Isaac fu il fondatore, è stato oggi papa Francesco. Nel suo saluto a una delegazione giunta da Oltralpe, al cui interno figuravano vari leader ed esponenti dell’ebraismo francese, il papa ha infatti esordito sottolineando l’importanza di questo libro, la sua forza programmatica e di visione. Un testo, le sue parole, “che conserva tutta la sua attualità e richiama il ‘grande patrimonio spirituale comune ai cristiani e agli ebrei, volendo ‘incoraggiare e raccomandare la conoscenza e stima reciproca”. Durante l’udienza privata al papa è stato fatto dono di un audio libro in cui il pensiero di Isaac è interpretato dalla voce dell’attrice Guila Clara Kessous, artista Unesco per la pace e allieva di Elie Wiesel. Tredici ore e quindici minuti: tanto dura il suo ascolto. A monte, racconta Kessous a Pagine Ebraiche, sette anni di ricerca e lavoro. “Fu mia madre a farmi scoprire l’opera di Isaac quando era bambina. È una figura che ha segnato la mia crescita e formazione, spingendomi ad agire nel segno del Dialogo. Decisivo – afferma – è stato poi l’intervento del mio maestro Elie Wiesel: fu lui a instradarmi verso questo specifico progetto, un anno prima di morire”. Una richiesta che ha dato il via “a un processo di immedesimazione profondo, attraverso il quale ho cercato di entrare nel cuore e nella testa di Isaac”. Personalità verso la quale l’artista, che nei prossimi giorni incontrerà anche rappresentanti del mondo ebraico e valdese, spiega di nutrire “una grande ammirazione”.
Casherut e sostenibilità alimentare,
i giovani chef protagonisti al museo
Cibo, cultura e regole della Casherut. Insieme a sostenibilità e lotta allo spreco. Sono i temi al centro di un progetto sviluppato dal Museo della Padova ebraica insieme all’Istituto Superiore per il Made in Italy di Noventa Padovana. Tra gli obiettivi dell’iniziativa, che ha il sostegno della Regione Veneto, quello di “promuovere la conoscenza della cultura ebraica attraverso uno dei suoi elementi identitari più caratterizzanti: l’alimentazione”. I giovani chef, guidati dai loro insegnanti, hanno così elaborato ricette della cucina ebraica italiana e veneta, provenienti dal libro “La cucina nella tradizione ebraica” di Giuliana Ascoli Vitali Norsa. A coronamento del lavoro di questi mesi si terrà stasera una cena casher nei locali del museo. Tra le pietanze che saranno servite carciofi alla giudia, zucca barucca, le polpettine di pesce all’orientale, la torta di formaggio di Shavuot e molto altro.
Da Milano alla Svizzera, in fuga dalla persecuzione
Un pomeriggio letterario diverso dagli altri quello di ieri in Sala Carmi, che pure di presentazione di libri ne ha viste tante. Protagonista “Un angolo di pace. Un ebreo in fuga nella Svizzera del ‘43”, volume che raccoglie la storia di Riccardo Gandus, commerciante milanese trentaquattrenne che l’undici settembre del 1943 fuggì dalle persecuzioni nazifasciste riparando in Svizzera.
La rubrica “Opinioni a confronto” raccoglie interventi di singoli autori ed è pubblicata a cura della redazione, sulla base delle linee guida indicate dall’editore e nell’ambito delle competenze della direzione giornalistica e della direzione editoriale.
È compito dell'UCEI incoraggiare la conoscenza delle realtà ebraiche e favorire un ampio ed equilibrato confronto sui diversi temi di interesse per l’ebraismo italiano: i commenti che appaiono in questa rubrica non possono in alcun modo essere intesi come una presa di posizione ufficiale dell’ebraismo italiano o dei suoi organi di rappresentanza, ma solo come la autonoma espressione del pensiero di chi li firma.
La prossima emergenza
Non credo sia un azzardo affermare che da più di venti anni Europa e America sono passate senza soluzione di continuità da una emergenza a un’altra. Forse, maliziosamente, la domanda più realistica da farci riguardo al futuro non è quando finirà l’emergenza aperta dalla guerra che la Russia ha mosso all’Ucraina, ma quale sarà la prossima.
Abbiamo trattato, nella scorsa puntata, del modo in cui la figura di Mosè è richiamata nella Commedia, dove è evocata quattro volte (alle quali si dovrebbe però anche aggiungere la citazione implicita, di cui abbiamo già parlato, contenuta in Purg. XVIII. 134, ove si parla degli ebrei come “la gente a cui il mar s’aperse”: e fu Mosè a fare aprire quel mare), in tutte e tre le cantiche. E ci siamo quindi chiesti in che misura il viaggio di Dante abbia avuto come modello d’ispirazione quello del profeta, così come gli altri tre viaggi più famosi tramandati dalla tradizione dell’Occidente, ossia quelli di Abramo, Ulisse ed Enea.
Credo che tracciare un parallelo tra questi cinque viaggi (Abramo, Mosè, Ulisse, Enea, Dante) possa aiutare non solo a cogliere il senso del messaggio dantesco, ma anche – che è la cosa che direttamente ci interessa – del legame di esso nei confronti dell’ebraismo.
Si può dire che ogni narrazione (nel mondo antico, ma anche, in buona parte, in quello moderno e contemporaneo) abbia sempre rappresentato il racconto di un viaggio, di uno spostamento. Se un soggetto sta fermo e non si muove, in genere non c’è niente da raccontare. I libri di storia, per lo più, non sono altro che una sequenza di racconti di movimenti, migrazioni, navigazioni, spostamenti di uomini, famiglie, popoli, eserciti. Se li svuotassimo di tutte queste narrazioni (dei movimenti di Alessandro, Annibale, Scipione, Cesare, Traiano, Colombo, Napoleone, Garibaldi, delle armate di Hitler, Stalin, Roosevelt, Churchill ecc.), resterebbe ben poco. E lo stesso vale per i testi di mitologia (Agamennone, Didone, Giasone, Teseo…), così per molti romanzi di fantasia (Verne, Salgari, Melville, Collodi…). Basta guardare le carte geografiche di oggi, d’altronde, per renderci conto che almeno la metà dei Paesi in esse rappresentati sono frutto di gigantesche migrazioni, senza le quali il mondo attuale non esisterebbe.
La storia dell’umanità è iniziata con l’uscita di Adamo ed Eva da Gan Eden, quindi con una migrazione. Tutto si muove, senza il movimento non c’è storia e non c’è vita. La forza e la vitalità delle culture, delle lingue, delle religioni si misura dalla loro capacità di viaggiare, di approdare su nuove sponde.
Credo che, nel secolo scorso, l’idea del viaggio, del movimento degli uomini e delle idee abbia conosciuto due novità – almeno apparenti - rispetto alle epoche passate.
La prima è che il viaggio non deve essere necessariamente uno spostamento fisico, in quanto si può anche viaggiare mentalmente, restando fisicamente fermi. Si tratta di una grande scoperta, in particolare, di Freud, a lui ispirata, tra l’altro, dalla tragedia greca. I viaggi nell’inconscio sono lunghi, difficili e perigliosi, ma non implicano un movimento fisico. Ma forse, come vedremo, non si tratta di una novità assoluta.
L’altra novità è il fatto che il tormentato “secolo breve” ha tolto l’illusione che il viaggio debba avere necessariamente una meta, un obiettivo preciso. I viaggi di Abramo, Mosè, Ulisse, Enea, Dante, diversissimi tra loro, hanno tuttavia in comune il fatto di avere un approdo, una destinazione, anche se non necessariamente un lieto fine. Il viaggio di Ulisse – di cui abbiamo già parlato -, in Omero e in Dante, ha due finali opposti, ma comunque un esito chiaro. Lo stesso non si può dire per la poesia di Leopardi, Saba, Celan, Montale, così come per la scrittura di Kafka, Joyce, Morante, Philip Roth. La letteratura contemporanea è fatta in gran parte di racconti di smarrimenti, di viaggi senza arrivo. Teseo, spesso, si perde nel labirinto, non trova il minotauro, non salva nessuno.
Ma, come ho già osservato in una delle scorse puntate, sarebbe molto riduttivo vedere nella Commedia una parola “fine”, e tanto meno un “happy end”. Così come, nella Meghillà di Ester, è scritto che “non c’è un prima e un dopo nella Torah”, anche la Commedia ha un’evidente dimensione atemporale. Anche se il viandante torna “a riveder le stelle”, ciò che ha visto non è passato, e continuerà a inseguirlo. Come hanno detto, in vario modo (qualcuno, non con la parola, ma col gesto, ancora più eloquente, del suicidio), molti dei sopravvissuti ad Auschwitz, dai campi non si esce mai definitivamente. E la stessa cosa può dirsi da chi ritenga o pretenda (con temeraria audacia) di avere visitato l’Inferno.
Cosa ha in comune, il viaggio della Commedia – dal punto di vista del poeta -, e cosa di diverso rispetto agli altri quattro viaggi? Cosa hanno in comune e cosa di diverso le mete, le destinazioni degli stessi?
Si tratta di una domanda che investe il rapporto di Dante con l’essenza di tutta la cultura classica e, soprattutto, di quella civiltà ebraica che, da Abramo in poi, è sempre stata lo spazio del tragitto, dell’attraversamento.
Cercheremo di rispondere nelle prossime puntate.