L'IMPRESA DEL NAPOLI E I SEGNI DI UNA STAGIONE GLORIOSA

Da Giorgio Ascarelli a Enrico Bassani,
quei presidenti ebrei che fecero il calcio

Scriveva Giuseppe Pacileo, decano dei giornalisti partenopei: “Dal lontano passato del calcio napoletano emerge una figura che ogni appassionato della maglia azzurra deve considerare indimenticabile: Giorgio Ascarelli. Egli non può essere altrimenti definito che un mito”.
Sa infatti di mito “quel nome, molto più che non altri ancora più lontani nel tempo, per la dimensione e la compiutezza realizzata a pro del calcio napoletano in periodi di stupefacente brevità”. Mitico anche, aggiungeva il giornalista, “per quella sorta d’aureola del martirio che gli regalarono, sebbene postuma, l’anormalità idiota delle leggi razziali e la normalità ignobile dell’umana ingratitudine”. Era il suo modo per denunciare quanto quel nome, il nome del fondatore e primo presidente del Napoli, fosse stato dimenticato. Una “umana ingratitudine” che ha finito per dissipare nel ricordo ciò che questo grande imprenditore e filantropo ebreo aveva fatto per la collettività locale. Dotandola di una squadra di calcio, di uno stadio di proprietà e soprattutto di molte strutture sociali all’avanguardia.
Napoli è in festa per il terzo scudetto, conquistato ufficialmente ieri sera anche se nell’aria già da mesi. Ed è un’impresa per la quale per primo gettò le basi proprio Ascarelli, fondando il nuovo club nell’estate del 1926 e proiettandolo fin da subito ad alti livelli. Era la sua ambizione, anche se non potè goderne più di tanto gli effetti vista l’improvvisa scomparsa, avvenuta nel marzo del ’30, all’età di 36 anni. Un lutto cittadino e un rimpianto che da Napoli abbracciò l’Italia intera. Non sul Mattino, ma sulla Gazzetta dello sport fu scritto: “Non è il dirigente che si commemora con la solita parola buona, con la lode mesta e accorata che è di prammatica. La figura di Ascarelli è così gigantesca, è così varia e notevole per i diversi aspetti ch’essa richiama alla memoria, che la penna si sente ora troppo impari al suo compito immenso e pare non sappia far altro che lasciar stridere sulla carta il dolore che è dentro”.
Si era nell’ottavo anno dell’Italia fascista. Otto anni dopo l’antisemitismo di Stato avrebbe cancellato tutto quello che Ascarelli aveva fatto nella sua breve ma intensa vita, relegandone la figura sempre più ai margini. Nella grande festa scudetto che si protrarrà inevitabilmente per settimane, l’occasione per fare memoria di questa straordinaria personalità. E di una stagione non solo sportiva che vide numerosi dirigenti ebrei “fare” la storia del calcio italiano.


Contemporaneo di Ascarelli era Renato Sacerdoti, tra i fondatori della Roma e suo secondo presidente. In politica la pensavano diversamente: simpatizzante del socialismo Ascarelli, pienamente a suo agio con la camicia nera Sacerdoti. Ciò, oltre a una precedente conversione al cristianesimo, non lo mise però in salvo dalle leggi razziste che colpirono anche lui e i suoi cari. “La sua diabolica furberia, fondata sull’attitudine tipicamente ebraica a corrompere con il denaro le persone per spingerle a delinquere e ad addossarsi le responsabilità di delitti ai quali non avrebbero forse mai ricorso senza le circostanze che li hanno avvicinati all’odioso giudeo, è stata vinta dalla sagacia della polizia italiana” esulterà il Popolo d’Italia, l’organo del fascismo, annunciandone l’arresto negli stessi giorni in cui l’antisemitismo veniva istituzionalizzato da Mussolini e dai suoi sodali. Seguiranno mesi travagliati, una condanna al confino, il ritorno nella capitale dopo il crollo del regime, la necessità di nascondersi dopo l’occupazione nazista di Roma. Fino al ritorno nel mondo del calcio, che vide come una personale rivincita rispetto a chi l’aveva costretto a farsi da parte. Cantava la curva della Roma, nel mitico inno Campo Testaccio (l’impianto dei primi sogni e successi): “Semo giallorossi e lo sapranno tutti l’avversari de st’artranno. Fin che Sacerdoti ce stà accanto, porteremo sempre er vanto, Roma nostra brillerà”. Una strofa oggi rimossa, ma eloquente per cogliere il suo peso nelle vicende quasi centenarie del club. Di cui sarà di nuovo presidente negli anni Cinquanta, dotandolo tra gli altri del talento di un campione come Alcides Ghiggia. “Solo tre persone sono riuscite a zittire il Maracanã: Frank Sinatra, papa Giovanni Paolo II e io” raccontava il campione nato a Montevideo, gongolando al ricordo del “Maracanazo”. Quando, con un suo goal, aveva messo in ginocchio il Brasile nel Mondiale casalingo già dato per vinto.
Da non dimenticare anche il nome di Raffaele Jaffe, di professione insegnante, che a inizio Novecento aveva fondato il Casale Football Club. Un’epoca pionieristica segnata dalla vittoria di un clamoroso scudetto da parte della squadra monferrina, negli stessi giorni in cui l’Europa sprofondava nel baratro di una guerra mondiale come conseguenza dell’attentato di Sarajevo. In quei giorni però a Casale si parlava soprattutto dell’impresa dei ragazzi di Jaffe, vittoriosi nella doppia finale contro la Lazio. E “ragazzi” non è un termine improprio, visto che l’ossatura dell'undici titolare era formata dagli studenti del Leardi in cui questo austero prof infiammatosi d’improvviso per l’arte pedatoria insegnava. Anche Jaffe, come Sacerdoti, si convertirà in seguito al cristianesimo. Ma i provvedimenti antisemiti del ’38 raggiungeranno anche lui, costringendolo a lasciare l'incarico di preside dell’istituto Lanza. Arriveranno poi giorni ancora più duri: l’arresto per mano fascista, il trasferimento a Fossoli, la deportazione ad Auschwitz-Birkenau (da dove, ormai 67enne, non farà ritorno). La Fondazione Cdec di Milano conserva un suo epistolario. Decine sono le lettere alla moglie, cui in prossimità del trasferimento in lager chiederà: “Voglio che tu sia sempre la donna forte che ho conosciuto, che ho ammirato adorandola e che è stata per lunghi anni il faro luminoso della mia esistenza. Spera come spero io, e prega il cielo perché un giorno si possa ancora essere riuniti nella nostra casetta, angelo mio. Tu devi essere coraggiosa, anche al di là dei limiti delle tue forze”.


Poco nota è la storia di Enrico Bassani, il padre di Giorgio, che fu presidente della Spal dal 1921 al 1924. Sotto la sua guida il sodalizio estense raggiunse un punto molto alto, la semifinale nel torneo 1921-22. In origine anche Bassani senior fu attratto dal fascismo, salvo poi discostarsene nettamente dopo il delitto Matteotti. L’ultimo anno, e forse non è un caso, della sua presidenza. Periodo di cui non sopravvivrà nessun cimelio, nella casa di famiglia spogliata di quasi ogni traccia antecedente la persecuzione. Solo un angelo di gesso (L’anzulon) accoglierà il ritorno dei Bassani nella loro proprietà.
Molti altri ancora sono i segni ebraici nel calcio italiano degli albori. Nel solo Veneto, una delle regioni più ricche di storie, da menzionare è il contributo del preside del Regio Istituto Tecnico Giuseppe Orefice che fu tra quanti, nel 1902, diedero vita al Vicenza. Un posto nella leggenda spetta senz’altro anche al barone Giorgio Treves De’ Bonfili, fondatore nel 1910 del Padova. E a Davide Fano, fondatore del Venezia, che nacque nel contesto della Trattoria Corte dell’Orso. Treves De’ Bonfili era quel che si suol dire un eclettico: primo presidente, primo allenatore e persino, all’occorrenza, anche calciatore. 
Un po' più a Nord, nel primo dopoguerra, l'ebreo Leo Brunner affiderà la guida della Triestina a un giovane allenatore cresciuto nel rione di San Giacomo. Sarà l'artefice di un'impresa, la prima di tante, portando la squadra della città giuliana al secondo posto della graduatoria (seconda solo al Grande Torino). Il suo nome era Nereo Rocco, il "Paron". Una carriera formidabile che prenderà il via proprio nel segno di quell'intuizione. 

 

Adam Smulevich


(Nelle immagini: Giorgio Ascarelli, fondatore e primo presidente del Napoli; il Casale di Raffaele Jaffe in un derby piemontese contro la Pro Vercelli; una formazione della Spal negli Anni Venti, sotto la presidenza di Enrico Bassani)

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TORAH

Doveri e responsabilità

Dopo aver parlato della qedushà – la santità – e dell’esempio che il popolo ebraico deve dare a tutte le altre nazioni della Terra, con la Parashà di Emor vengono date delle chiare e rigide indicazioni comportamentali ai kohanim. Se nella genericità il popolo ebraico è chiamato “mamalkhet kohanim – reame di sacerdoti” e per questo gli è stata comandata l’osservanza di 613 mitzwot, nella particolarità il kohen era colui che aveva l’obbligo di essere da esempio per il popolo. Le mitzwot che riguardavano i kohanim erano molto rigide. Si sa che chi è ai vertici di una società è obbligato a mantenere un comportamento ancor più esemplare rispetto ai suoi sudditi. 

Rav Alberto Sermoneta, rabbino capo di Venezia

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SORGENTE DI VITA

Diversi tra uguali, con la Costituzione

Si apre con un servizio sull’iniziativa “Diversi tra uguali”, che celebra i 75 anni dalla promulgazione della Costituzione, la puntata di Sorgente di vita in onda su Rai Tre domenica 7 maggio. Il progetto, organizzato dall’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane in partnership con il Museo Nazionale dell’Ebraismo Italiano e della Shoah di Ferrara e in collaborazione con Treccani, UGEI e AGE-Associazione Italiana Avvocati e Giuristi Ebrei, prevede sei dialoghi in sei diverse città, da Torino a Milano, da Napoli e Venezia, da Firenze a Ferrara, su alcuni temi chiave del dettato costituzionale, con il filo conduttore dell’articolo 3, dedicato all’uguaglianza e alla parità dei diritti. A prendere parte agli incontri, personalità del mondo delle istituzioni e della cultura ed esponenti del mondo ebraico. 

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5 maggio 1821  

“Ei fu...ecc...fu vera gloria? Ai posteri l’ardua sentenza”. I posteri siamo noi: vediamo dunque se è possibile trovare qualche elemento per valutare l’ operato di Napoleone. L’analisi storica è complessa e ovviamente richiederebbe una trattazione approfondita: cerchiamo di prendere in considerazione soltanto qualche spunto.
La rivoluzione francese e il conseguente impero napoleonico, spazzarono via la, o meglio le, religioni: queste erano considerate superstizioni da eliminare per far luogo alla “ragione”. In questo quadro la tendenza anche per gli ebrei era la soppressione della “religione”. Ma se era abbastanza facile “sopprimere” la religione, cioè gli obblighi di tutto quello che è la pratica religiosa, inclusa quella ebraica, lo stesso non si poteva dire degli ebrei, che venivano da secoli di discriminazione ed isolamento e costituivano un gruppo non solo compatto, ma compattato proprio dai secoli di discriminazioni. Le secolari norme (specificamente antiebraiche) , furono smantellate insieme alla religione, ma secoli di leggi, consuetudini e convincimenti non furono eliminate con la stessa facilità e con uguale velocità. Non solo, ma le discriminazioni in vigore prima della Rivoluzione e dell’impero napoleonico, avevano prodotto tra gli ebrei una professionalità praticamente obbligata. Non potendo possedere terre, né esercitare mestieri (che erano sotto la protezione di specifici santi) gli ebrei erano esclusi direttamente o indirettamente da tutti i “mestieri”. L’unica via di sopravvivenza era la finanza: il prestito di denaro era l’unica attività ammessa (o forse è più corretto dire non vietata). Ma questo creava occasioni facili e frequenti di risentimento. La simpatia che poteva essere creata dalla concessione di un prestito, veniva presto cancellata quando il banchiere chiedeva la restituzione (con interessi) del prestito stesso. Ecco allora venire a galla tutti i pregiudizi ed i luoghi comuni antiebraici, cui soggiaceva anche Napoleone.
La Storia dei divieti è millenaria, la cancellazione dovuta alla Rivoluzione francese e alla conquista napoleonica fu decisamente rapida, ma le professioni e lo spettro delle attività lavorative degli ebrei rimasero immutate: non si diventa da un giorno all’altro contadino o artigiano, se per generazioni si è fatto soltanto il prestatore di denaro. Napoleone riunì anche un “Sinedrio” (denominazione storica recuperata da Napoleone stesso), ma sostanzialmente le cose cambiarono solo limitatamente. Bisogna però riconoscere che se molte delle iniziative e speranze napoleoniche non si realizzarono, si deve a Napoleone la soppressione dei divieti che afflissero gli ebrei in tutti i Paesi per ispirazione della Chiesa: la parificazione degli ebrei agli altri cittadini cominciava e proseguì anche dopo la fine dell’imperatore.

Roberto Jona

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