Levi Papers – Arriva la mia volta

belpolitiIl foglietto di carta è stato tagliato con le forbici in modo rapido per inserirlo nel libro, così che il bordo non è perfettamente dritto. Si tratta della aggiunta n.15. Va collocata alla pagina 39 della edizione De Silva, un brano nuovo che entra nell’edizione Einaudi del 1958. Il foglio inizia con “…è rigorosamente proibito”, e termina con: “Quando arriva la mia volta…”. Sono due frasi della prima edizione tra cui Primo Levi introduce il pezzo nuovo. Li ha ribattuti per far capire dove va inserito il testo del foglietto. Le righe nuove sono solo sei, battute a macchina: “Chi fa rispettare il divieto è un gigantesco Häftling francese, il quale risiede nella guardiola che sta fra le porte dei due ambulatori. È uno dei pochi funzionari francesi del campo: né si pensi che il passare la propria giornata fra le scarpe fangose e sbrindellate costituisca un piccolo privilegio. Basta pensare a quanti entrano in Ka-Be colle scarpe, e ne escono senza averne più bisogno…”. Il finale della frase contiene tre punti di sospensione. Finiscono con i tre punti ben poche frasi in Se questo è un uomo. La sospensione funziona come una sorta d’ironia, quella di cui è capace Levi in questo suo primo libro raccontando il Lager (Levi narratore è sovente ironico). Chissà perché ha introdotto questo passo? Forse per un’emersione improvvisa di memoria? Un dettaglio che voleva aggiungere? Non c’è una risposta certa. Come questa altre aggiunte nel libro del 1958 hanno un valore di memoria ridestata. Di sicuro vuole anche ricordare ai suoi lettori che ogni privilegio nel Lager ha un suo contrappeso: “né si pensi (…) costituisca un piccolo privilegio”. C’è forse un’altra ragione, quasi inconsapevole: l’attenzione che pone ai guardiani. Lo testimonia un altro guardiano della soglia. Si trova nella Tregua, nel capitolo intitolato Cesare, che in origine lo scrittore aveva titolato Katowice II. A sorvegliare l’ingresso del campo russo di smistamento in Polonia, a Katowice, c’è una sentinella russa. Quando ha riletto quella pagina della Tregua, ha aggiunto un segnale (una croce cerchiata), che corrisponde a un appunto manoscritto a piè di pagina: “Un mongolo (descriverlo); mai avvicendato, d’onde la sua noia”. Nella versione a stampa completa quella descrizione. Il passo diventa: “La sentinella era un mongolo gigantesco sulla cinquantina, armato di mitra e baionetta, dalle enormi mani nodose, dai baffi grigi spioventi alla Stalin e gli occhi di fuoco: ma il suo aspetto feroce e barbarico era assolutamente incongruente con le sue innocue mansioni. Non veniva avvicendato, e perciò moriva di noia”. C’è l’aggettivo “gigantesco” in entrambe le descrizioni, e poi il comune ruolo di custodi. Niente di più. Situazioni molto diverse. Il francese è comunque un deportato; il mongolo, un soldato russo, un vincitore della guerra. Sono diversi i contesti. Eppure qualcosa apparenta i due personaggi. Levi è uno scrittore che mostra continue repliche e ripetizioni. O meglio: richiami. Cita molto, e in modo non sempre evidente o diretto; e cita anche se stesso. Il segreto di questa ricorsività sta nella forma della sua attenzione, che è attirata dai medesimi dettagli. In questo caso: il custode “gigantesco”. L’aggettivo “gigantesco” torna ne Il canto di Ulisse, e prima in Iniziazione, capitolo nuovo, aggiunto nel 1958. Qui c’è ora il guardiano. Potenze delle soglie, dei riti di passaggio, per dirla con Van Gennep. E di riti di passaggio il giovane chimico torinese se ne intende.

Marco Belpoliti, scrittore

(22 gennaio 2017)