…maestri

Sarà l’avanzare dell’età, saranno gli imprevisti della vita, ma con il passare del tempo hai la strana sensazione che si stia rafforzando in te la convinzione che essere ebrei non possa significare soltanto accettare passivamente un’identità ricevuta, per strana coincidenza o per scelta. E ti chiedi se per essere e sentirsi ebrei possa bastare una bella biblioteca di libri ebraici e la lettura di tanti autori ebrei, o essere orgogliosi di Freud e di Einstein; o se sia sufficiente ricordare ogni giorno la Shoah, o appoggiare toto corde Israele e Netanyahu. Anche l’osservanza della casherut è cosa che, alla fine, non costa più di tanta fatica. È accettazione passiva di una dieta che, alla fine, non ti fa sentire molto diverso da un rigoroso vegetariano.
Mi si dirà che la Torah lo dice chiaro in che cosa consista l’essere ebrei: na’asé wenishma’, prima fa’ e poi capirai/crederai. E per ‘fare’ si intende l’osservanza delle mitzwoth, tutte possibilmente – o per lo meno tutte quelle effettivamente osservabili. Eppure ti coglie il sospetto che ‘fare’ possa significare anche qualcos’altro, qualcosa di cui weshinantam levanecha, ‘e le insegnerai ai tuoi figli’, è solo l’inizio. Il discrimine fra il fare e il capire si fa percepire in modo sensibile quando si tratta di trasmettere qualcosa a chi viene dopo di te. E poi quando fai sulla tua pelle i conti su ciò che sei riuscito a trasmettere alla generazione che ti segue.
Molto di ciò che ‘facciamo’ è simbolico. E assai di rado si riesce a conciliare quel simbolico con l’azione meritoria, quella che si concentra su chi ti sta di fronte, o accanto. È sempre più facile coltivare belle parole, e dispensarle tutt’intorno, piuttosto che sporcarsi le mani con la realtà faticosa del quotidiano, agendo misconosciuti sul prossimo. Non abbiamo bisogno di retori, abbiamo bisogno di Maestri di ebraismo che sia vita.

Dario Calimani, Università Ca’ Foscari Venezia

(8 agosto 2017)