Periscopio – Rileggere Dante

lucreziSi è riunita, a Bologna e Ravenna, a metà settembre, la settantunesima sessione della SIHDA (“Société Internationale pour l’Histoire des Droits de l’Antiquité”, la società che unisce gli storici del diritto di tutto il mondo) e, per singolare coincidenza, la giornata di studi ravennate, svoltasi giovedì 14, ha coinciso con il 696° anniversario della morte di Dante, le cui spoglie mortali, com’è noto, sono custodite nel mausoleo della splendida città emiliana. Nel pomeriggio si è svolta una visita guidata tra i monumenti e i mosaici che ricordano i fasti dell’impero di Giustiniano, e gli organizzatori mi hanno concesso il grande onore di pronunciare, proprio davanti alla tomba del Poeta, una breve sintesi di un intervento da me consegnato, per tale ricorrenza, al congresso, intitolato: “Justice, law and revenge in Dante’s Comedy. Short remarks on Justinian’s speech in the sixth Canto of Paradise”.
In tali brevi note ho avuto modo di esternare alcune mie considerazioni (formulate, soprattutto, sulla scia della vasta conoscenza della Commedia che aveva mio padre, Bruno Lucrezi, che allo studio e all’interpretazione del poema ha dedicato gran parte della sua esistenza) sulla visione dantesca di concetti quali giustizia, diritto, vendetta, pietà, misericordia, potere, e in particolare, sulla peculiare, controversa collocazione che, all’interno del piano soteriologico disegnato dal Poeta, occupano la religione mosaica e il popolo ebraico (questione alla quale ebbi modo di accennare, su queste pagine, già alcuni anni fa, in risposta ad alcune semplicistiche e superficiali denigrazioni di Dante, in ragione del suo presunto “antisemitismo”). E ho cercato di mettere in luce i grandi debiti del Poeta nei confronti della cultura ebraica, verso la quale egli mostra, in più occasioni, di nutrire grande rispetto e profonda ammirazione. La concezione dantesca della giustizia, in particolare – intesa quale inderogabile e assoluto obbligo morale, rientrante tra le ineludibili responsabilità dei sovrani terreni – appare molto più vicina a quella ebraica che a quella cristiana – soprattutto come evoluta nei tempi moderni, piegata in direzione del perdono e della “rimessione dei peccati”: per Dante una giustizia senza sanzione non è concepibile, e nessun perdono è ammesso per chi non si sia sinceramente pentito e ravveduto. In linea con l’imperativo del Deuteronomio (16.20), “tzèdek, tzedek tirdòf”, “la giustizia, la giustizia seguirai”, l’ideale della giustizia, per Dante, deve essere perseguito più e più volte, sempre e di continuo. La fine della giustizia ci sarà solo con la fine del mondo e il Giudizio universale.
Certo, al centro dell’Inferno, in una delle tre bocche di Lucifero, Giuda è condannato a essere stritolato in eterno, accanto a Bruto e Cassio (colpevoli di avere voluto la morte del fondatore dell’impero terreno, Cesare, come lui aveva provocato la morte di Cristo, inauguratore del regno celeste); e tra i dannati troviamo anche Caifa, Anna e tutti i componenti del Sinedrio che condannò Gesù. Ma, a parte questo inevitabile riflesso dell’antigiudaismo medioevale, l’Inferno è pieno di papi e di preti, non certo di ebrei, tutti i padri di Israele precedenti alla venuta del Messia sono elevati nel Paradiso e non è dato di trovare alcuna parola di odio o disprezzo verso gli ebrei in quanto tali. I versi ” uomini siate, e non pecore matte, sì che ‘l Giudeo di voi tra voi non rida!” (Paradiso, 5.80-51) esprimono in realtà, contrariamente alla loro costante utilizzazione in senso antisemita, ammirazione per la devozione e lo zelo religioso degli ebrei, che i cristiani sono inviatati a seguire come esempio, mentre l’espressione “gente ingrata, mobile e retrosa” (Paradiso 32.132) non fa altro che ripetere la descrizione dell’Esodo della ribellione realizzata contro il volere di Dio e la giuda di Mosè. E appare provato che per l’intera concezione della Commedia Dante trasse ispirazione dalla composizione “L’Inferno e il Paradiso” di Immanuele Romano, dove viene descritto un analogo viaggio nell’aldilà realizzato dal profeta Daniele.
Certo, Dante resta profondamente medioevale, e il Medio Evo era quello che era. Ma c’è qualcosa di importante da dire riguardo alla famosa espressione contenuta nel sesto canto del Paradiso (92-93), riguardo alla “vendetta de la vendetta del peccato antico”, che sarebbe stata realizzata dal “buon Tito”, elogiato per avere distrutto il Tempio di Gerusalemme, “vendicando” così (con una “vendetta de la vendetta”) quella che era stata la “vendetta” della Passione di Cristo, resasi necessaria per mondare l’umanità dal peccato originale (il “peccato antico”). E’ indubbio che Dante, in linea con la costante teologia medioevale, sembra così riservare al popolo ebraico nel suo insieme una punizione globale e collettiva, al di là di quelle individuali riservate a Giuda, Caifa e Anna. Ma è anche vero che, nel canto successivo al sesto, il Poeta pare interrogarsi con sofferenza sulla giustificazione di una punizione collettiva (che, tra l’altro, avrebbe reso necessaria la stessa morte di Cristo, punito, per il suo solo essere uomo, per il peccato originale), rimettendone la spiegazione sul piano del mistero. E, soprattutto, su questo punto Dante non segue assolutamente le tetre e violente parole di autori quali Origene, Eusebio, Agostino, Giovanni Crisostomo, Ambrogio, che maledicono per sempre il popolo “deicida”, responsabile collettivamente ed eternamente della morte di Cristo. Quella responsabilità, nella visione dantesca, gravava sul Tempio come istituzione, e risulta definitivamente riparata, “una tantum”, con la caduta di Gerusalemme. La punizione è collettiva, ma non è eterna. Il popolo ebraico non è votato alla continua sofferenza, anche se, ovviamente, nell’impero cristiano – che non può conoscere alcun confine di spazio e di tempo -, non può esservi spazio per una sovranità ebraica.
Dante non fu mai emotivamente antisemita, anche se, in quanto profondamente cristiano e profondamente medioevale, non poté non fare suoi i fondamenti della teologia medioevale, che era intrinsecamente antisemita. Ma lo fece su un piano meramente freddo e razionale, senza alcuna forma di animosità personale (tanto presente, invece, in tanti luoghi della Commedia). Resta un triste e innegabile dato di fatto, però, che alcune sue espressioni – decontestualizzate e assolutizzate – sono state ripetutamente e ampiamente utilizzate, fino ai giorni d’oggi, in chiave antisemita.

Francesco Lucrezi, storico