Scuola e religione

Sara Valentina Di PalmaLa domanda è a bruciapelo, di quelle che non mi verrebbe mai in mente di porre al mio prossimo per questioni di riservatezza, opportunità e libertà, ma il tuo prossimo evidentemente è molto diverso: perché escludi tua figlia dall’insegnamento della religione cattolica? Si tratta comunque di cultura, ed io vorrei crescere i miei figli nella cultura del paese in cui vivono!
Per inciso, la figlia esclusa ha come madre una donna cresciuta cattolica e divenuta atea, mentre l’interrogatrice (ha infatti il sapore dell’interrogatorio condotto con tono di accusa, piuttosto che del dialogo) è cattolica praticante, cresciuta come tale in una realtà molto cattolica, e non ha figli.
Ascolto la risposta ammirandone il tono pacato, e il tentativo infruttuoso di smontare le apodittiche certezze altrui sostenendo che pochi insegnanti nell’ora di religione affrontano uno studio comparato sulla fede nel mondo, ed i più trattano solo la religione cattolica e non dal punto di vista culturale, storico o di costume, ma teologico e normativo. Viene sollecitato anche il mio parere, subito zittito poiché non conforme, con l’aggiunta del raccapriccio di scoprire che ho l’aggravante di non essere neppure cattolica – cosa che pare essere peggiore di essere diventati atei, forse da quello con un po’ di insistenza ci si può ravvedere?
L’episodio mi lascia l’amaro in bocca e mi riporta a cose lontane. Una suora che dice ad una bambina ebrea di aver pregato per la sua anima, chiedendole di leggere un episodio della vita dei santi così commoventi e capaci di farci immedesimare: “«Leggi tu che ci metti tanto sentimento» mi dicevano, e io mi sentivo trascinare nel cerchio. L’esaltazione delle sante diventava la mia e il mio timbro saliva mentre le ragazze mi fissavano attonite e perplesse. Dopo, in camerata, recitavamo come sempre lo ‘Shemà’ a voce alta, ma è come quando si mastica qualcosa di gommoso che non è cibo”, racconta Lia Levi sulla sua esperienza di bambina nascosta in un convento romano durante la Shoah (Lia Levi, Una bambina e basta, Edizioni e/o 1999, pp. 84-85).
Poi ripenso allo sconcerto di una conoscente davanti alla spiegazione della nascita del cristianesimo in un testo di storia di prima media, con i sacerdoti e gli anziani ebrei (di cui si specifica, fedeli alla legge ebraica) accusano Gesù di Nazaret di essere un bestemmiatore. Non lontano davanti alla spiegazione del popolo ebraico in un testo di storia di quarta elementare, che io stessa ho corretto dopo essere stata chiamata a leggerlo da un bambino perplesso, in cui la storia della nascita degli ebrei, ultima parte del libro dopo i fenici, iniziava scrivendo più volte il tetragramma, continuava con qualche banale inesattezza (Salomone aveva costruito ‘un’ tempio) e si chiudeva con la foto di un Maghen David giallo con la scritta Jude durante la Shoah (così in sintesi gli ebrei nacquero, scomparvero, riapparvero confusamente molto tempo dopo).
Su questo posso riflettere mentre mi trovo in una sala di attesa di un centro medico pubblico. Sul muro di fronte a me, mi cadono gli occhi, il calendario di settembre, di cui leggo essere mese dedicato a Maria Santissima Addolorata (del resto come non esserlo, quando i perfidi giudei le hanno ucciso il figlio?), in cui mi colpisce particolarmente l’esaltazione della croce (che ingenuamente avrei ritenuto un supplizio orribile e non qualcosa da esaltare, ma potrei interpretare male). Il giorno 14 settembre, lo memorizzo così, per cultura generale.
In un testo pubblicato quasi otto anni fa dal maestro di scuola primaria e scrittore Caliceti, rammento, una bambina di sette anni proveniente dal Marocco raccontava così la sua impressione della refezione scolastica: “Io ho visto per la prima volta la croce nella mensa della scuola. Io lo so cosa è, una croce, un segno della religione italiana. Io dopo l’ho visto delle altre volte, anche in televisione, però la tv italiana, non quella araba. A me se c’è questa croce e basta non dà fastidio, se però c’è attaccato il morto mi sembra un po’ brutto perché mentre mangi vedi sempre questo Dio che muore e per me non è una cosa bella” (Giuseppe Caliceti, Italiani, per esempio. L’Italia vista dai bambini immigrati, Feltrinelli 2010, p. 85).
Che belli erano gli anni della mia scuola elementare, invece (già il sapore del vocabolo ‘elementare’ suona molto più dolce di ‘primaria’, ma chissà perché nel nostro paese pare che il rinnovamento formale, spesso arzigogolato ed ardito, delle definizioni suggerisca cambiamenti sostanziali, e non posso non sentire un brivido ogni volta che sul treno viene rammentato lo svolgimento del servizio di “controlleria”).
Che gioia l’ora di alternativa alla religione, che non era un parcheggio per svolgere altri compiti o girare al seguito dell’insegnante dirottata su altre classi…noi studiavamo la vita e la religione di una bambina indiana, un bambino cinese, e così via, con schede bellissime da colorare realizzate dalla nostra insegnante. Eravamo solo sette o otto, compresa la prima bambina cinese che avessi mai conosciuto, la ricordo ancora, Pei-Mei che si pronuncia ‘Pemi’. Anni liberi e bellissimi.
Certo, in quella scuola sperimentale modernissima con il tempo pieno e niente scuola il sabato né compiti, con laboratori di teatro e di arte, con una maestra per materia, c’è stata anche la parentesi buia della classe terza, con l’insegnante di italiano in maternità sostituita da una che nelle ore di lezione più dell’analisi grammaticale o del testo amava tantissimo parlare di due argomenti: la verginità della Madonna (come poi potesse parlarne a bambini di otto anni resta per me un mistero) ed i cartoni animati in TV. Io della Madonna non sapevo nulla e men che meno della sua verginità, ma per essere una bambina sui generis non bastava, non avevo neppure il televisore in casa.
Esclusa in classe fino all’ira funesta della genitrice sessantottina, la quale aveva notato con incredulità come all’improvviso mi pesasse andare a scuola e mi fossi riempita di tic nervosi. Bene, la maestra aveva smesso, e comunque doveva essersi un po’ risentita del richiamo disciplinare cui era stata sottoposta dalla direzione, se ad anni di distanza ogni volta che mi vedeva per strada si girava ostinatamente dall’altra parte. In fondo, a causa mia non aveva più potuto impartirci nozioni di cultura generale.

Sara Valentina Di Palma