appartenenza…

Nel rivelarsi ai fratelli, Yosèf dimostra la sua identità dicendo “I vostri occhi vedono … che è la mia bocca che parla con voi”. Alla domanda sul reale significato di questa frase, ossia come la bocca dimostri l’identità di qualcuno, Rashì risponde che parlò con loro “bi-lshòn ha-qòdesh”, nella lingua sacra, ossia in ebraico.
In realtà, questo fatto non dimostrerebbe niente: un personaggio politico influente può parlare varie lingue. Ma Yosèf sta dicendo di più: egli insiste che sono i loro occhi a vedere come lui parla, non le loro orecchie. Ciò significa che quello che contava non era tanto l’uso di una lingua piuttosto che di un’altra, ma il modo in cui la usava, il senso di identità che traspariva da lui nel parlare la lingua (e magari i concetti, i modi di dire familiari). È quel senso di identità che ci fa voltare per strada quando passa un turista israeliano, quando sentiamo dire “shalom”, o “kasher”. È quell’identità che dobbiamo coltivare, con lo studio e la pratica, se vogliamo che le generazioni che ci seguono sentano lo stesso senso di appartenenza e di proprietà di termini, concetti e valori.

Elia Richetti, rabbino

(21 dicembre 2017)