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4 febbraio 2016 - 26 Shevat 5776
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L’INCHIESTA DEL GUARDIAN

Primavere arabe, il mea culpa degli scrittori

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Nel gennaio 2011 erano passate solo poche settimane da quando Mohamed Bouaziz, venditore ambulante tunisino, si era dato fuoco sulle strade della sua città per protestare contro il sequestro della sua merce e gli abusi subiti dalle forze dell’ordine. Poche settimane in cui l’onda di quella che cominciava a essere definita “primavera araba” aveva iniziato a lambire i paesi del Nord Africa e del Medio Oriente, dopo aver costretto alle dimissioni il presidente tunisino Zine El Abidine Ben Ali, alla guida del paese da oltre vent’anni, dopo aver conquistato il potere nel 1989 con un colpo di Stato. In quei giorni, il quotidiano britannico Guardian chiese a numerosi scrittori arabi di esprimere la loro opinione su quanto stava accadendo. Scrittori, poeti, giornalisti di nazionalità varie, egiziana, siriana, marocchina, libica, che espressero, pur con diverse sfumature, grande ottimismo, la convinzione che qualcosa nei propri paesi si stesse muovendo verso maggiore libertà, democrazia e prosperità. Cinque anni dopo, lo stesso giornale ha domandato nuovamente loro di fare il punto sui cambiamenti iniziati allora. “I was terribly wrong”, “mi ero tremendamente sbagliato” si intitola la raccolta delle testimonianze pubblicata negli scorsi giorni. Che guardano al buio di queste giornate e si domandano se vi sia ancora spazio per qualche ottimismo.

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Religioni e civiltà

Il bilancio di guerra dell’Isis

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Facciamo i conti in casa altrui. Magari anche le pulci. Ancora una volta il vero problema è capire quanto siano attendibili i pochi dati che si hanno a disposizione, raccolti dalle Intelligence occidentali. Poiché è parte della stessa guerra la confusione sui numeri, i valori, le misure. Il riferimento, ancora una volta, è al sedicente califfato messo in piedi, tra Iraq e Siria, da Abu Bakr al- Baghdadi. Il quale deve operare su due fronti: quello militare e quello civile. Nel secondo caso si potrebbe pensare a una qualche forma di assestamento, ma non è necessariamente così. Continua a mantenere un discreto seguito nelle campagne, mentre arranca nelle aree urbane. Sul piano militare, dove innanzitutto prevalgono le esigenze della forza combattente, la capacità di assorbimento delle risorse disponibili supera qualsiasi investimento di altro genere. Dal momento dell’avvio della loro espansione, i miliziani dello Stato islamico, in circa un biennio, dovrebbero avere raccolto complessivamente poco meno di un miliardo di dollari di proventi. La provenienza di questi, si tratta oramai di fatto risaputo, dipende da molti elementi, tra i quali l’esazione fiscale, la vendita del greggio sottobanco ma anche e soprattutto la politica di rapina dei beni altrui. Una condotta, quest’ultima, che si rivela di breve respiro, poiché aliena le simpatie di chi subisce il danno. Non di meno, la difficile comprensione delle dinamiche interne al Daesh sta anche nella rigida centralizzazione del comando, alla quale - tuttavia - si affianca l’autonomia delle componenti combattenti.

Claudio Vercelli, storico
Pagine Ebraiche, febbraio 2016


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Religioni e civiltà

Le insidie nell’Islam d’Europa 

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I drammatici episodi di terrorismo del 2015 hanno avuto come conseguenza l’inasprimento di un vero e proprio scontro di civiltà. Dove rischia di portarci questa contrapposizione?
Luca Filli, Brescello

Mohammed, il padre di Samy Amimour, uno degli attentatori suicidi della strage del Bataclan, raccontò a Le Monde di essersi recato in Siria per cercare di convincere suo figlio a tornare a casa e lasciare il Daesh. Storia analoga quella di Omar Abaaoud, padre del belga Abdelhamid, il presunto stratega degli attentati di Parigi, il quale ugualmente non si capacita della "cattiva strada" intrapresa dal figlio. “Le nostre vite sono distrutte. Noi dobbiamo tutto a questo paese” dichiara ai giornalisti. Questa e tante altre testimonianze delineano ogni qual volta, l'incomprensione e un netto divario tra padri e figli, tra vecchie e nuove generazioni di beurs. In un illuminante libro del 2002, dal titolo L'Islam Globale, Khaled Fouad Allam – ricordato anche su queste pagine a seguito della sua recente scomparsa – sottolineò proprio nel suo proemio questa distanza, raccontando il dialogo tra una madre nata in Algeria e la propria figlia francese studentessa alla Sorbona, la prima legata al suo mondo d'origine ma ormai integrata nel moderno tessuto francese, la seconda slegata all'identità della madre ma aderente a una nuova umma che viene esibita con la scelta di portare il hijab.

Francesco Moises Bassano, studente
Pagine Ebraiche, febbraio 2016


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Religioni e società

Gli islam d'Italia e lo Stato a caccia
dell'attimo fuggito

img headerIl bene nacque dal male, a volte capita. In quell’estate del 2006 il più tenace tentativo di tenere attorno a un tavolo tutte le voci dell'islam italiano, sintonizzandole con le nostre libertà e le nostre regole, iniziò per reazione a un proclama di odio. Oggi ci siamo abituati, odio e proclami ci incombono sull'uscio di casa. Allora ci parevano un po' meno reali, come la cicatrice di Ground Zero distante ormai cinque anni, guai degli americani, in fondo; o le predicazioni in arabo dei primi imam radicali, già pregne di violenza da sottoscala della storia, ma di cui quasi nessuno capiva nulla. Nicolas Sarkozy già chiamava racaille, teppa, i rivoltosi che incendiavano le banlieue parigine, ma al Bataclan mancava ancora una generazione di ferocia. A Nassiriya era esplosa un'altra bomba contro i nostri soldati, ma a qualcuno pareva un'eco lontana della prima strage del 2003: al funerale di Stato due politici erano stati sorpresi persino a ridacchiare. Romano Prodi era tornato premier per un soffio di voti (azzoppato al Senato). Gheddafi ci appariva più alleato che tiranno (nell'attesa del baciamano di Berlusconi). Gli islamici da noi erano poco più della metà di adesso e non sembravano un'orda (persino la Lega era più concentrata a dividere l'Italia che a scacciarne gli «invasori»). Tuttavia il 19 agosto, l'Ucoii, l'Unione delle comunità e delle organizzazioni islamiche italiane, che rivendica spesso una sorta di primato sulle altre associazioni musulmane (ricevendone in risposta ostilità e diffidenza), strappò questa tela con un manifesto dal titolo inequivocabile, pubblicato sul «Quotidiano Nazionale»: Ieri stragi naziste, oggi stragi israeliane. La conclusione era ancora più esplicita e delirante: «Marzabotto Gaza Fosse Ardeatine Libano».

Goffredo Buccini, Corriere La Lettura, 31 gennaio 2016

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Shir Shishi - una poesia per erev shabbat

Il canto delle Piante

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La festa degli Alberi del 15 di Shevat è appena passata ma l’antica recitazione hassidica, diventata un canto popolare grazie alla chansonnière israeliana Naomi Shemer (nata nel kibbutz Degania nel 1930) è sempre presente ed emozionante. Il riferimento letterario è antico e misterioso, il trattato Perek Shira, “Capitolo del canto”, considerato risalente al III secolo. Questo elogio alla natura viene ripreso dal grande maestro hassidico Nachman da Bratislava, vissuto alla fine dell’Ottocento. Nel 1976, Shemer lo compose per uno spettacolo oramai dimenticato da tutti mentre il Nigun delle Piante è diventato un successo ever green.
                                

Sappi che/ ogni pastore / ha una sua melodia speciale /Sappi che ogni pianta e pianta/ ha un suo canto speciale/ E dal canto delle piante si crea la melodia del pastore.

Quanto è bello/ quanto è bello e gradevole/ quando si ascolta il loro canto/ è giusto stare tra loro in preghiera/ e con gioia servire il Signore.

E dal canto delle piante/ il cuore si riempie e anela.

E quando il cuore/ di canto si riempie/ e desidera/ la Terra di Israele/ una grande luce/ allora si protrae e si dilaga/ dalla sacralità della terra/ su di lui.

E dal canto delle piante/ si crea la melodia/ del cuore.

Sarah Kaminski, Università di Torino

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