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3 gennaio  2019 - 27 tevet 5779
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orizzonti

Ungheria, la fotografia del mondo ebraico

img headerQuest’estate a Budapest ha visto la luce un’importante ricerca sociologica dal titolo “Ebrei ed ebraismo in Ungheria nel 2017”, nata con l’obiettivo di definire gli aspetti principali legati all’ebraismo magiaro, dalla sua demografia all’attaccamento per Israele, passando per le esperienze legate all’antisemitismo ed alle opinioni politiche. La ricerca, condotta nell’arco di due anni dai sociologi András Kovács, professore alla Central European University, ed Ildikó Barna, docente alla Università ELTE, è il proseguo dell’investigazione sullo stesso tema avvenuta nel biennio 1999-2000 dai medesimi autori. Infatti, nel 1999 venne pubblicato il primo studio sociologico sull’ebraismo ungherese nel dopoguerra, in quanto sotto il regime comunista questo tema era ritenuto un tabù. Oggi, invece, si è sentita la necessità di rinnovare i risultati della ricerca di diciotto anni fa, essendo cambiato molto nella società ungherese e nella composizione della sua comunità ebraica. Non a caso, i risultati della recente investigazione vengono comparati con quelli della prima, in modo tale da avere un quadro completo del cambiamento e dello sviluppo interno ed esterno a questa comunità. La ricerca è composta da 12 capitoli, che analizzano diverse sfumature dell’ebraismo ungherese, tra cui gli aspetti demografici, le tradizioni culturali e religiose, l’identità, la Shoah, l’antisemitismo, le relazioni con Israele, e le opinioni politiche. Tuttavia, prima di analizzare alcuni dei risultati dell’investigazione, risulta necessario soffermarsi sul campione utilizzato per compierla. Infatti, la ricerca si basa su un campione di 1.879 maggiorenni di ambo i sessi, intervistati di persona con una media di un’ora e mezza ciascuno. Non esistendo un registro dei membri della comunità ebraica, le persone intervistate sono state scelte seguendo la loro auto-identificazione, in virtù di almeno un nonno di origine ebraica, come prevede la “Legge del Ritorno”.

Michele Migliori, Pagine Ebraiche, gennaio 2019 

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MACHSHEVET ISRAEL

Elezione, appartenenza, responsabilità  

img headerCome noto di Israel è stata contestata, prima ancora dell’incolumità fisica, l’istanza di essere popolo distinto. Tale contestazione è rinvenibile nei grandi universali che (non a caso) hanno forme dirette o meno di parentela con l’ebraismo stesso, come cristianesimo e islam, ma anche, con differenti ragioni, in Illuminismo e comunismo. Al variare degli argomenti permane il fastidio di fronte alla volontà, proprio da parte di chi ha coltivato l’idea di un Dio universale, di rimanere popolo distinto. Di tale fastidio capita di prendere misura nella vita quotidiana, con chi mal digerisce l’idea per cui determinate prescrizioni riguardino solo un insieme di persone. Come riportato nel libro appena uscito di Hana Kasher (Elion al kol ha-goim, Idra 2018) Leibowitz riconduce il concetto di ‘popolo scelto’ alla shmirat mizvot, l’osservanza dei precetti. Così elezione è entrare in una dimensione di obbligo che idealmente – ossia a prescindere dal grado di osservanza effettivo – informa la vita quotidiana di Israel. A rilevare è che la nozione di obbligo, inteso quale prescrizione, porta con sé la possibilità di un’esclusione. Il che non riguarda solo Israel ma ogni comunità che, come tale, si distingue dal resto: vi sono obblighi che ricorrono (solo) su chi è ebreo, così vi sono obblighi che ricorrono (solo) su chi è membro di questa o quella comunità o nazione.

Cosimo Nicolini Coen 

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società        

Populismo e democrazia
 

Ferite dalle diseguaglianze, teatro della rivolta dei ceti medi, indebolite dal populismo e intimorite dal rischio di stagnazione finanziaria, le democrazie in Gran Bretagna, Nord America ed Europa continentale affrontano il 2019 consapevoli che sarà l'anno della resa dei conti. I fronti geografici di questa evoluzione politica sono tre perché dal 2016, l'anno di Brexit e dell'elezione di Trump, l'Occidente ha al suo interno altrettanti percorsi di crisi. Su ognuno di questi il 2019 promette dei momenti spartiacque, capaci di innescare conseguenze più estese. In Gran Bretagna, a marzo, la Brexit diventerà realtà con un distacco formale dall'Unione europea che potrà essere «soft» - moderato - come auspica la premier Theresa May oppure «hard» - brusco - come invoca l'ala dura dei sovranisti guidata da Boris Johnson. Nel primo caso avremo un divorzio Londra-Ue lento, progressivo, teso ad attutirne l'impatto nel corso di 24 mesi, nel secondo invece tutto si consumerà in maniera brutale nell'arco di un mattino travolgendo come uno tsunami una miriade di legami umani, commerciali, politici e militari fra i due lati della Manica.

Maurizio Molinari, La Stampa,
30 dicembre 2018 


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orizzonti 

Finite le Primavere aumenta la repressione

No. Decisamente dall'universo arabo di questi tempi non vengono esempi edificanti. Dici Medio Oriente e pensi al terrorismo, allo scontro tra sciiti e sunniti, ai massacri in Siria, alle dittature, come quella egiziana, che in nome della sicurezza reprimono qualsiasi opposizione, alla corruzione, alle efferatezze di Al Qaeda e Isis, alle donne velate, ai migranti africani trattati come schiavi in Libia. Il Qatar aveva cercato di creare l'immagine positiva di un soft power accattivante. Ma Al Jazeera, la sua tv-bandiera, ha perso la patina di giornalismo indipendente perché troppo influenzata dai voleri dei regnanti di Doha. E le polemiche sui Mondiali di calcio del 2022 vedono i principi del Qatar sempre più sospettati di aver comprato a suon di petrodollari la Fifa, tanto che la sede potrebbe essere spostata. In Arabia Saudita il caso Jamal Khashoggi (il giornalista ucciso a Istanbul) ha screditato l'erede al trono, il «principe nero» Mohammad bin Salman. Da presunto traghettatore verso la modernità si è trasformato in un dittatore capriccioso, responsabile delle stragi in Yemen, più repressivo degli ayatollah iraniani.

Lorenzo Cremonesi, Corriere La Lettura,
30 dicembre 2018  


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