orizzonti
Ungheria, la fotografia del mondo ebraico
Quest’estate
a Budapest ha visto la luce un’importante ricerca sociologica dal
titolo “Ebrei ed ebraismo in Ungheria nel 2017”, nata con l’obiettivo
di definire gli aspetti principali legati all’ebraismo magiaro, dalla
sua demografia all’attaccamento per Israele, passando per le esperienze
legate all’antisemitismo ed alle opinioni politiche. La ricerca,
condotta nell’arco di due anni dai sociologi András Kovács, professore
alla Central European University, ed Ildikó Barna, docente alla
Università ELTE, è il proseguo dell’investigazione sullo stesso tema
avvenuta nel biennio 1999-2000 dai medesimi autori. Infatti, nel 1999
venne pubblicato il primo studio sociologico sull’ebraismo ungherese
nel dopoguerra, in quanto sotto il regime comunista questo tema era
ritenuto un tabù. Oggi, invece, si è sentita la necessità di rinnovare
i risultati della ricerca di diciotto anni fa, essendo cambiato molto
nella società ungherese e nella composizione della sua comunità
ebraica. Non a caso, i risultati della recente investigazione vengono
comparati con quelli della prima, in modo tale da avere un quadro
completo del cambiamento e dello sviluppo interno ed esterno a questa
comunità. La ricerca è composta da 12 capitoli, che analizzano diverse
sfumature dell’ebraismo ungherese, tra cui gli aspetti demografici, le
tradizioni culturali e religiose, l’identità, la Shoah,
l’antisemitismo, le relazioni con Israele, e le opinioni politiche.
Tuttavia, prima di analizzare alcuni dei risultati dell’investigazione,
risulta necessario soffermarsi sul campione utilizzato per compierla.
Infatti, la ricerca si basa su un campione di 1.879 maggiorenni di ambo
i sessi, intervistati di persona con una media di un’ora e mezza
ciascuno. Non esistendo un registro dei membri della comunità ebraica,
le persone intervistate sono state scelte seguendo la loro
auto-identificazione, in virtù di almeno un nonno di origine ebraica,
come prevede la “Legge del Ritorno”.
Michele Migliori, Pagine Ebraiche, gennaio 2019
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MACHSHEVET
ISRAEL
Elezione, appartenenza, responsabilità
Come
noto di Israel è stata contestata, prima ancora dell’incolumità fisica,
l’istanza di essere popolo distinto. Tale contestazione è rinvenibile
nei grandi universali che (non a caso) hanno forme dirette o meno di
parentela con l’ebraismo stesso, come cristianesimo e islam, ma anche,
con differenti ragioni, in Illuminismo e comunismo. Al variare degli
argomenti permane il fastidio di fronte alla volontà, proprio da parte
di chi ha coltivato l’idea di un Dio universale, di rimanere popolo
distinto. Di tale fastidio capita di prendere misura nella vita
quotidiana, con chi mal digerisce l’idea per cui determinate
prescrizioni riguardino solo un insieme di persone. Come riportato nel
libro appena uscito di Hana Kasher (Elion al kol ha-goim, Idra 2018)
Leibowitz riconduce il concetto di ‘popolo scelto’ alla shmirat mizvot,
l’osservanza dei precetti. Così elezione è entrare in una dimensione di
obbligo che idealmente – ossia a prescindere dal grado di osservanza
effettivo – informa la vita quotidiana di Israel. A rilevare è che la
nozione di obbligo, inteso quale prescrizione, porta con sé la
possibilità di un’esclusione. Il che non riguarda solo Israel ma ogni
comunità che, come tale, si distingue dal resto: vi sono obblighi che
ricorrono (solo) su chi è ebreo, così vi sono obblighi che ricorrono
(solo) su chi è membro di questa o quella comunità o nazione.
Cosimo Nicolini Coen
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società
Populismo e democrazia
Ferite
dalle diseguaglianze, teatro della rivolta dei ceti medi, indebolite
dal populismo e intimorite dal rischio di stagnazione finanziaria, le
democrazie in Gran Bretagna, Nord America ed Europa continentale
affrontano il 2019 consapevoli che sarà l'anno della resa dei conti. I
fronti geografici di questa evoluzione politica sono tre perché dal
2016, l'anno di Brexit e dell'elezione di Trump, l'Occidente ha al suo
interno altrettanti percorsi di crisi. Su ognuno di questi il 2019
promette dei momenti spartiacque, capaci di innescare conseguenze più
estese. In Gran Bretagna, a marzo, la Brexit diventerà realtà con un
distacco formale dall'Unione europea che potrà essere «soft» - moderato
- come auspica la premier Theresa May oppure «hard» - brusco - come
invoca l'ala dura dei sovranisti guidata da Boris Johnson. Nel primo
caso avremo un divorzio Londra-Ue lento, progressivo, teso ad attutirne
l'impatto nel corso di 24 mesi, nel secondo invece tutto si consumerà
in maniera brutale nell'arco di un mattino travolgendo come uno tsunami
una miriade di legami umani, commerciali, politici e militari fra i due
lati della Manica.
Maurizio Molinari, La Stampa,
30 dicembre 2018
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orizzonti
Finite le Primavere aumenta la repressione
No.
Decisamente dall'universo arabo di questi tempi non vengono esempi
edificanti. Dici Medio Oriente e pensi al terrorismo, allo scontro tra
sciiti e sunniti, ai massacri in Siria, alle dittature, come quella
egiziana, che in nome della sicurezza reprimono qualsiasi opposizione,
alla corruzione, alle efferatezze di Al Qaeda e Isis, alle donne
velate, ai migranti africani trattati come schiavi in Libia. Il Qatar
aveva cercato di creare l'immagine positiva di un soft power
accattivante. Ma Al Jazeera, la sua tv-bandiera, ha perso la patina di
giornalismo indipendente perché troppo influenzata dai voleri dei
regnanti di Doha. E le polemiche sui Mondiali di calcio del 2022 vedono
i principi del Qatar sempre più sospettati di aver comprato a suon di
petrodollari la Fifa, tanto che la sede potrebbe essere spostata. In
Arabia Saudita il caso Jamal Khashoggi (il giornalista ucciso a
Istanbul) ha screditato l'erede al trono, il «principe nero» Mohammad
bin Salman. Da presunto traghettatore verso la modernità si è
trasformato in un dittatore capriccioso, responsabile delle stragi in
Yemen, più repressivo degli ayatollah iraniani.
Lorenzo Cremonesi, Corriere La Lettura,
30 dicembre 2018
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