Pierpaolo Pinhas Punturello, rabbino
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Il
mio maestro, Rav Shlomo Riskin HaCohen shlita, un giorno mi ha
raccontato un aneddoto sulla fanciullezza del suo maestro, Rav Yosef
Baer Solovietchik zzl. “Mentre da bambino stava andando in sinagoga per
il Kol Nidrè, lo scioglimento dei voti con il quale si apre la funzione
dello Yom Kippur, Rav Moshe Solovietchik, padre del Rav Yosef Baer gli
disse: “Guarda figlio mio, guarda quel sole che inizia a tramontare,
quello è il sole che fa entrare lo Yom Kippur, il giorno più sacro e
più gioioso per il popolo ebraico, il giorno in cui nostro Padre ci
perdona e ci accoglie di nuovo tra le sue braccia”. Non esiste gioia
più grande e non esiste dono più grande del perdono e dell’abbraccio
dopo il perdono. Forse questa è una dimensione del Kippur che andrebbe
recuperata, diffusa, insegnata di nuovo di generazione in generazione.
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Gadi
Luzzatto
Voghera,
storico
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Marco
Besso (1843-1920) era il prototipo dell’ebreo assimilato. Impegnato
nelle esaltanti dinamiche dell’emancipazione pareva immemore delle sue
radici e del loro significato. Ma era quel che si dice “l’ebreo del
kippur”, una categoria che bisogna conoscere e riconoscere. Così
scriveva in una sua riflessione, ormai anziano: “Avevo torto marcio [a
non digiunare] perché se vi è una pratica religiosa che per i suoi alti
fini meriti rispetto, essa è proprio questa che si raccomanda dalle
religioni di tutto il mondo e che in molti paesi, come nell’America del
Nord, in Prussia, in Svizzera, è precetto civile e nazionale prescritto
a tutti i cittadini, perché si abbia almeno una volta all’anno un
giorno di raccoglimento pieno ed intero col pensiero rivolto unicamente
all’adempimento dei propri doveri morali, all’emendazione dei propri
falli”.
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"Maradona ct?
Una sciocchezza"
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“Gli
stereotipi sono duri a morire. Ne sanno qualcosa i tanti storici che si
sono cimentati a fondo con la figura di Pio XII. Su papa Pacelli –
nonostante la ricerca di vario orientamento culturale e religioso si
sia da tempo incaricata di smantellare la ‘leggenda nera’ di pontefice
filo-nazista o, nella minore delle ipotesi, di personalità indifferente
alla tragedia degli ebrei perseguitati – permane questa lente
deformante. E prova ne sono le polemiche, in verità più giornalistiche
che storiografiche, che si aprono di tanto in tanto, in Italia e nel
mondo, sulle eventuali complicità o sui ‘silenzi’ papali”. È quanto
scrive Giovanni Grasso, su Avvenire, introducendo il convegno svoltosi
ieri all’Università Marconi di Roma sulla figura di Pio XII negli anni
della guerra. Tra gli oratori di cui si riportano stralci di pensiero
gli storici Anna Foa e Andrea Riccardi.
Sul Corriere della sera una ricostruzione molto pessimistica di
Francesco Battistini sull’incontro avvenuto ieri tra Obama e Netanyahu.
Scrive Battistini: “Fra appuntamenti all’Onu e alla Casa Bianca,
l’altra sera il premier israeliano Bibi Netanyahu è andato a cena a
Manhattan, ha scelto un ristorante non kosher con menù di maiale e ha
fatto arrabbiare gli ebrei ultraortodossi. Non è stato quello, però, il
boccone più amaro del suo viaggio americano: i 40 minuti con Obama, due
leader che si detestano come pochi, sono difficili da far digerire
secondo la trita formula dell’incontro costruttivo”.
L’appuntamento, sostiene il giornalista, avrebbe avuto il pregio di
chiarire almeno due cose: “Che il presidente Usa non s’aspetta più
nulla dal governo di Gerusalemme, per lui chiaramente disinteressato a
risolvere la questione palestinese; che il premier israeliano è ormai a
zero nella capacità d’influire sulle scelte mediorientali degli Stati
Uniti”. Un problema di entrambi, scrive Battistini, perché l’uno “non
può fare a meno dell’altro” e tutt’e due nelle prossime settimane
dovranno affrontare una questione “che ora non sembra centrale, ma lo
è: il nucleare iraniano”.
Secca smentita della federazione palestinese riguardo alla possibilità
di vedere Diego Armando Maradona alla guida della nazionale di calcio:
“È una sciocchezza” (Corriere dello sport).
Nell’Europa che si scopre vulnerabile di fronte alla minaccia di propri
cittadini partiti per la Siria e l’Iraq al fine di contribuire alla
crescita del Califatto un’imprudenza delle forze di sicurezza bavaresi
avrebbe involontariamente favorito questo esodo. A scriverne è Fiamma
Nirenstein sul Giornale.
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YOM KIPPUR
La lezione della colomba
"Nel
Santuario Divino / la Colomba sta a cantare / iniziando dal mattino /
melodie per ricordare /come in una lunga storia / meraviglie del creato
/ celebrando la Tua gloria / fino a che vespro è arrivato”. Leggiamo
nella pregevole traduzione di Massimo Foa z.l. (“Selichot in rima”,
Morashà, Milano, 2008, p. 61) l’incipit della terza Selichah di Minchah
di Yom Kippur secondo il rito italiano. L’acrostico iniziale delle
strofe suggerisce il nome dell’autore, Binyamin figlio di Avraham della
famiglia romana degli ‘Anavim (Mansi), compositore di Selichot vissuto
nel XIV secolo. Il ritornello riprende il verso della Genesi (8,11) in
cui è descritto il ritorno della colomba all’Arca di Noach dopo che
questi l’aveva inviata a verificare che, terminato il Diluvio, la terra
si fosse asciugata. La colomba era già partita per la medesima missione
sette giorni prima, ma era tornata indietro immediatamente. Questa
volta ritornò sul far della sera con un ramo d’olivo nel becco.
Trascorsa un’altra settimana Noach la inviò per la terza volta ed essa
non tornò più.
Prima della colomba Noach aveva mandato il corvo. Narra il Midrash
(Bereshit Rabbà 33,5; R. Bachyè ad v.) che questo uccello si risentì
per essere stato scelto. Accusò addirittura Noach di volersi disfare di
lui perché apparteneva alle specie impure, quelle di cui è proibita la
consumazione e che non sono accolte in sacrificio: “Tu mi odi come il
tuo Padrone mi odia”. Nonostante il corvo accennasse a sua volta di
voler tornare nell’Arca perché i tempi del dopo-Diluvio non erano
ancora maturi, Noach non lo voleva riprendere. Fu il Santo Benedetto a
convincerlo: “Accoglilo, perché verrà un giorno in cui il mondo avrà
bisogno di lui”. Quando il Profeta Elia punì il malvagio re Achav
privandolo della pioggia e dovette nascondersi presso il torrente
Kerìt, furono proprio i corvi a portargli da mangiare due volte al
giorno per ordine di D. (1Melakhim 17,4 sgg.). Il corvo, animale
crudele verso i suoi stessi figli al punto di astenersi dal nutrirli
(Tehillim 147,9 e comm.), diede una lezione di sensibilità al Profeta
Elia: non si può far morire la gente di sete. Ma diede una lezione
anche a Noach: non si deve respingere nessuno, anche il più reietto può
fare Teshuvah.
Nell’episodio di Noach il verbo shuv, “tornare” appare più volte: nel
senso di “tornare nell’Arca”, ma anche in quello metaforico di “tornare
a D.” Tanto il corvo che la colomba ci insegnano la Teshuvah, ma si
tratta verosimilmente di due forme diverse del medesimo processo. Il
corvo rappresenta piuttosto quella che i nostri Maestri chiamano
Teshuvah per timore. È vissuta come per imposizione e in quanto tale è
sofferta. Anche il suo esito è più modesto: “le colpe volontarie si
trasformano in semplici errori”. Diverso è il caso della colomba. Essa
simboleggia l’Amore per D., tanto che molti poeti d’Israele, e fra essi
anche l’autore della nostra Selichah, adoperano la metafora della
colomba per indicare il Popolo d’Israele. “Grande è la Teshuvah per
amore, che ha la forza di trasformare le colpe volontarie in… meriti!”
(Yomà 86b). La fonte della metafora è in realtà in un versetto dello
Shir ha-Shirim. D. si rivolge alla Sua amata, la Comunità d’Israele: “O
mia colomba che abiti negli anfratti della roccia, nel segreto dei
dirupi, mostrami il tuo aspetto, fammi udire la tua voce, perché la tua
voce è dolce e il tuo aspetto è leggiadro” (2, 14). Spiegano i nostri
Maestri che la colomba è simbolo di pudicizia e soprattutto di fedeltà
assoluta: “come la colomba non abbandona mai il suo compagno, così la
Comunità d’Israele non abbandona mai il Santo Benedetto” (Zohar, P.
Reeh). I Chakhamim parlano a questo proposito di deveqùt,
“attaccamento”.
C’è peraltro un diverso aspetto meno noto in relazione alla colomba sul
quale voglio qui brevemente soffermarmi. Il trattato Parah della
Mishnah si occupa delle disposizioni relative alla preparazione delle
ceneri della parah adummah, la “vacca rossa” necessaria per purificarci
dal contatto con salme: altrimenti non avremmo potuto entrare nel
Santuario di Yerushalaim. Le sue ceneri dovevano essere mescolate
nell’acqua e asperse sulla persona da purificare, secondo una procedura
che qui non può essere descritta dettagliatamente. Anche la fornitura
d’acqua era soggetta a regole precise. Un passo della Mishnah in
questione (9,3) si interroga se si può adoperare a questo scopo
dell’acqua dalla quale abbiano bevuto animali e conclude che tutte le
specie invalidano l’acqua bevendola all’infuori della colomba.
La Mishnah stessa argomenta che mentre tutti gli altri animali
rilasciano della saliva mentre bevono, la colomba si limita a succhiare
l’acqua senza contaminarla con qualcosa di suo. Se teniamo presente che
nel linguaggio metaforico dei nostri Profeti l’acqua è simbolo della
Torah che ci disseta spiritualmente recepiamo il messaggio in tutta la
sua profondità. La Torah stessa richiede che noi la libiamo, ma stando
attenti a gustarla nella sua purezza, senza pretendere di aggiungervi
nulla di estraneo. Solo così la Torah potrà essere per noi davvero
elixir di lunga vita, una volta che le ceneri della “vacca rossa”
avevano proprio lo scopo di lavare l’impurità della morte dal mondo.
Questo è certamente il significato dell’attaccamento e della fedeltà a
D. che la colomba rappresenta.
Rav Alberto Moshè Somekh
(Pagine Ebraiche ottobre 2014)
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QUI ROMA
Vita prima della bufera
C’era
una volta una scatola che conteneva delle bobine. La famiglia Della
Seta la teneva con cura e la portava con sé durante ogni trasloco.
“Sapevo che erano vecchi video del matrimonio dei miei nonni. Ma era
impossibile vederli. Solo adesso posso affermare con certezza che sono
cimeli fondamentali per la storia dell’ebraismo italiano” a parlare
Claudio Della Seta, caporedattore del tg5. Come anticipato da Pagine
Ebraiche 24 la scorsa settimana, domenica 5 ottobre alle 16.15 presso
l’Istituto per il restauro e la conservazione del patrimonio libraio e
archivistico (via Milano 76) di Roma verranno presentati per la prima
volta i filmati, datati 1923, delle famiglie Di Segni e Della Seta. Ci
troviamo di fronte ad un unicum: sono infatti, al momento, le sole
riprese che testimoniano la vita ebraica italiana antecedente alla
Shoah e probabilmente i primi family movies italiani (questo perché la
pellicola usata è quella professionale di 35mm, i video amatoriali
apparvero solo negli anni a seguire). “Dopo aver visto per anni le
immagini in negativo, grazie alla dott.essa Maria Cristina Misiti
dell’ICPAL e Mario Musumeci del Centro sperimentale di Cinematografia,
mi sono ritrovato faccia a faccia con i miei nonni. Una conquista per
tutti; questo è infatti il progetto pilota della nuova iniziativa
dell’ICPAL riguardante il restauro cinematografico” spiega Della Seta.
Si muovono sullo schermo la nonna Iole Campagnano e il nonno Silvio
Della Seta che, vestiti da sposi, hanno appena compiuto il grande
passo. Sullo sfondo i bisnonni Samuele Della Seta e Giulia Di Segni,
che verranno catturati durante la retata del 16 ottobre 1943 e non
torneranno più.
“I miei nonni riuscirono a salvarsi grazie all’amicizia
con i Marinelli, proprietari del famoso negozio di tessuti in Piazza
del Viminale, che, numerosissimi, ospitarono nelle diverse case la
famiglia” ricorda Claudio Della Seta. Nelle scene del matrimonio spicca
anche il bisnonno Giuseppe Campagnano, nonno Beppe, ebreo molto
osservante che vent’anni dopo, rifugiato in un convento durante
l’occupazione nazista, setacciava le strade di Roma con fare
instancabile per portare aiuto ai propri correligionari e per mettere
al riparo gli arredi della sinagoga, della quale era il guardarobiere.
Ma le immagini non finiscono: scene conviviali e di vacanze, tipiche
degli intimi filmini di famiglia: dal mare di Anzio, alla neve fino al
ghiotto scambio di pastarelle.
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QUI ROMA - giusti tra le nazioni
Una medaglia per il coraggio
“Il
dramma è che all’improvviso non sai più cosa fare, a chi aggrapparti”,
mormora qualcuno dal fondo della sala. Nel 1943, dopo una vaga
telefonata che lo invitava a mettersi in salvo, Oscar Tedeschi non
sapeva a chi aggrapparsi. Come mettere in salvo sua moglie Elena e i
figli, Dario e Lucilla, dalla furia nazista. Poi senza perdere di
lucidità si rivolge ad un cliente al quale faceva consulenza, la
Sartoria Cifonelli, ed a quel puntò si profilò la sagoma di una
giovanissima salvatrice: Vera Bazzini, impiegata di venticinque anni
che si offrì di ospitare a casa dei suoi genitori l’intera famiglia
Tedeschi. Settantuno anni dopo, nella sala del Centro Bibliografico
“Tullia Zevi” dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Vera,
novantasei anni (“Dica pure quanti anni ho, ne sono fiera”), ha
ricevuto dallo Yad Vashem la medaglia ed il riconoscimento di Giusta
tra le Nazioni. Stesso titolo anche per i genitori Eteocle Bazzini,
Adele Giorgi e per il cugino Nello Giorgi, purtroppo scomparsi.
“Premiamo Vera dentro il Centro fortemente voluto e realizzato grazie
allo stesso Dario Tedeschi – ha ricordato il segretario dell’UCEI
Gloria Arbib –
e siamo entusiasti di poter ospitare i protagonisti di
una storia a lieto fine dietro la terribile cornice delle
persecuzioni”. Passa poi la parola a Rafael Erdreich ministro
consigliere degli Affari Pubblici e Politici dell’Ambasciata d’Israele
in Italia: “Un Giusto tra le Nazioni si distingue per tre
particolarità: ha salvato la vita ad un ebreo durante la Shoah, ha
messo quindi in pericolo la propria e non ha mai ricevuto alcun
compenso. Vera Bazzini e la sua famiglia, con la loro onestà,
rappresentano tutto questo. Come diciamo in Israele: Sia benedetta la
memoria di questi uomini giusti.” Dario Tedeschi rievoca la
disperazione dei giorni precedenti: “Proprio in questo periodo
dell’anno, ricordo mio padre Oscar, così sperduto. Aveva dovuto
lasciare il lavoro in banca per motivi razziali ed aveva sulle spalle
la propria giovane famiglia. La proposta di Vera, che aveva visto in
precedenza in qualche riunione, fu davvero provvidenziale. Adele,
Eteocle e Nello non ci fecero mancare l’aiuto materiale. Nella loro
casa in via Foligno 47 ci trattavano come parte integrante, ci
aiutarono in ogni modo. Vera e Nello uscivano di notte e in accordo con
il nostro portiere recuperavano i nostri beni abbandonati evitando che
finissero in mano ad incursori, ci hanno in seguito procurato anche
documenti falsi. Ma la verità è che la cosa che più resta nel mio cuore
è l’aiuto morale, l’affetto. E vi assicuro, questo non è affatto
scontato se lo datiamo al 1943”.
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Una presidente, tante direttrici |
La
Giornata Europea della Cultura Ebraica appena trascorsa ci ha offerto
l’occasione, tra le altre cose, di passare mentalmente in rassegna le
donne che hanno avuto ruoli di responsabilità all’interno dell’ebraismo
italiano e di renderci conto una volta di più del loro numero esiguo,
soprattutto quando si tratta di cariche importanti e visibili (basti
pensare che abbiamo avuto una sola Presidente dell’Unione delle
Comunità Ebraiche Italiane). In questo panorama un po’ desolante, che
peraltro riflette la desolazione della società italiana in generale,
fanno curiosamente eccezione i giornali ebraici, e non solo quelli di
oggi.
Anna Segre, insegnante
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A proposito di Davis |
Chissà
se una qualche eredità ebraica avrà influenzato anche l’ultimo
capolavoro dei fratelli Joel ed Ethan Coen, “A proposito di Davis”
(“Inside Llewyn Davis”, 2013): la storia di un incompreso e melanconico
musicista folk di Greenwich Village, che tra ristrettezze economiche,
problemi relazionali, ed insuccessi, troveremo perdutamente a errare
– accompagnato da un altrettanto spaesato gatto rosso – in una
prematura America degli anni ’60 alla ricerca della conquista dei
propri sogni e di una propria realizzazione.
Francesco Moises Bassano, studente
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Laicità |
“Se
volessi scendere ad un livello politico superficiale, come quello che
leggo in quelle dichiarazioni, la domanda che potrei fare è questa:
‘Perché nessuno è indignato per la presenza della sinagoga, nonostante
l’esercito israeliano continui imperterrito a bombardare e ad uccidere,
oltre che i terroristi, anche i civili, gli uomini, le donne e i
bambini?”.
Questa “perla’, tratta da Pisatoday.it, è attribuita al vicesegretario
del PSI pisano Luca Pisani, invocante la laicità dello Stato,
intervenuto nel locale dibattito, fotocopia ormai di molti altri, sul
progetto di costruzione di una moschea.
Ovvero, così posta la questione, quando l’ignoranza laica attenta alla Laicità stessa.
Gadi Polacco
Costruire |
“I
problemi sorgono quando certe forme della rappresentazione si
sostituiscono all’esercizio di un pensiero autonomo e critico … Vi è
sempre uno scarto irriducibile tra il divenire degli eventi e il modo
in cui il soggetto lo rappresenta a se stesso e agli altri – costruendo
‘riproduzioni’ della realtà circostante e sequenze di vita.” Introduce
così Claudia Damari il libro che ha scritto a quattro mani con Dan Soen
“Costruire la società. Israele tra passato e futuro” che racconta
Israele in modo non convenzionale, ovvero non in quanto Stato, ma in
quanto società. Queste parole, che per caso mi ritrovo a leggere alle
soglie di Kippur, mi evocano il senso di una giornata come questa e
come tutti quei momenti in cui vogliamo prendere coscienza e
sintonizzarci di nuovo con noi stessi e con la realtà. Un’occasione per
non cadere nei soliti schemi, ma continuare a costruire qualcosa di cui
siamo sempre sia osservatori che protagonisti.
Ilana Bahbout
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