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3 ottobre 2014 - 9 Tishri 5775
PAGINE EBRAICHE 24
ALEF / TAV DAVAR PILPUL

alef/tav

Pierpaolo Pinhas Punturello, rabbino
Il mio maestro, Rav Shlomo Riskin HaCohen shlita, un giorno mi ha raccontato un aneddoto sulla fanciullezza del suo maestro, Rav Yosef Baer Solovietchik zzl. “Mentre da bambino stava andando in sinagoga per il Kol Nidrè, lo scioglimento dei voti con il quale si apre la funzione dello Yom Kippur, Rav Moshe Solovietchik, padre del Rav Yosef Baer gli disse: “Guarda figlio mio, guarda quel sole che inizia a tramontare, quello è il sole che fa entrare lo Yom Kippur, il giorno più sacro e più gioioso per il popolo ebraico, il giorno in cui nostro Padre ci perdona e ci accoglie di nuovo tra le sue braccia”. Non esiste gioia più grande e non esiste dono più grande del perdono e dell’abbraccio dopo il perdono. Forse questa è una dimensione del Kippur che andrebbe recuperata, diffusa, insegnata di nuovo di generazione in generazione.
 
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Gadi
Luzzatto
Voghera,
storico
Marco Besso (1843-1920) era il prototipo dell’ebreo assimilato. Impegnato nelle esaltanti dinamiche dell’emancipazione pareva immemore delle sue radici e del loro significato. Ma era quel che si dice “l’ebreo del kippur”, una categoria che bisogna conoscere e riconoscere. Così scriveva in una sua riflessione, ormai anziano: “Avevo torto marcio [a non digiunare] perché se vi è una pratica religiosa che per i suoi alti fini meriti rispetto, essa è proprio questa che si raccomanda dalle religioni di tutto il mondo e che in molti paesi, come nell’America del Nord, in Prussia, in Svizzera, è precetto civile e nazionale prescritto a tutti i cittadini, perché si abbia almeno una volta all’anno un giorno di raccoglimento pieno ed intero col pensiero rivolto unicamente all’adempimento dei propri doveri morali, all’emendazione dei propri falli”.
 
"Maradona ct?
Una sciocchezza"
“Gli stereotipi sono duri a morire. Ne sanno qualcosa i tanti storici che si sono cimentati a fondo con la figura di Pio XII. Su papa Pacelli – nonostante la ricerca di vario orientamento culturale e religioso si sia da tempo incaricata di smantellare la ‘leggenda nera’ di pontefice filo-nazista o, nella minore delle ipotesi, di personalità indifferente alla tragedia degli ebrei perseguitati – permane questa lente deformante. E prova ne sono le polemiche, in verità più giornalistiche che storiografiche, che si aprono di tanto in tanto, in Italia e nel mondo, sulle eventuali complicità o sui ‘silenzi’ papali”. È quanto scrive Giovanni Grasso, su Avvenire, introducendo il convegno svoltosi ieri all’Università Marconi di Roma sulla figura di Pio XII negli anni della guerra. Tra gli oratori di cui si riportano stralci di pensiero gli storici Anna Foa e Andrea Riccardi.

Sul Corriere della sera una ricostruzione molto pessimistica di Francesco Battistini sull’incontro avvenuto ieri tra Obama e Netanyahu. Scrive Battistini: “Fra appuntamenti all’Onu e alla Casa Bianca, l’altra sera il premier israeliano Bibi Netanyahu è andato a cena a Manhattan, ha scelto un ristorante non kosher con menù di maiale e ha fatto arrabbiare gli ebrei ultraortodossi. Non è stato quello, però, il boccone più amaro del suo viaggio americano: i 40 minuti con Obama, due leader che si detestano come pochi, sono difficili da far digerire secondo la trita formula dell’incontro costruttivo”.
L’appuntamento, sostiene il giornalista, avrebbe avuto il pregio di chiarire almeno due cose: “Che il presidente Usa non s’aspetta più nulla dal governo di Gerusalemme, per lui chiaramente disinteressato a risolvere la questione palestinese; che il premier israeliano è ormai a zero nella capacità d’influire sulle scelte mediorientali degli Stati Uniti”. Un problema di entrambi, scrive Battistini, perché l’uno “non può fare a meno dell’altro” e tutt’e due nelle prossime settimane dovranno affrontare una questione “che ora non sembra centrale, ma lo è: il nucleare iraniano”.

Secca smentita della federazione palestinese riguardo alla possibilità di vedere Diego Armando Maradona alla guida della nazionale di calcio: “È una sciocchezza” (Corriere dello sport).

Nell’Europa che si scopre vulnerabile di fronte alla minaccia di propri cittadini partiti per la Siria e l’Iraq al fine di contribuire alla crescita del Califatto un’imprudenza delle forze di sicurezza bavaresi avrebbe involontariamente favorito questo esodo. A scriverne è Fiamma Nirenstein sul Giornale.
 
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  davar
YOM KIPPUR
La lezione della colomba
"Nel Santuario Divino / la Colomba sta a cantare / iniziando dal mattino / melodie per ricordare /come in una lunga storia / meraviglie del creato / celebrando la Tua gloria / fino a che vespro è arrivato”. Leggiamo nella pregevole traduzione di Massimo Foa z.l. (“Selichot in rima”, Morashà, Milano, 2008, p. 61) l’incipit della terza Selichah di Minchah di Yom Kippur secondo il rito italiano. L’acrostico iniziale delle strofe suggerisce il nome dell’autore, Binyamin figlio di Avraham della famiglia romana degli ‘Anavim (Mansi), compositore di Selichot vissuto nel XIV secolo. Il ritornello riprende il verso della Genesi (8,11) in cui è descritto il ritorno della colomba all’Arca di Noach dopo che questi l’aveva inviata a verificare che, terminato il Diluvio, la terra si fosse asciugata. La colomba era già partita per la medesima missione sette giorni prima, ma era tornata indietro immediatamente. Questa volta ritornò sul far della sera con un ramo d’olivo nel becco. Trascorsa un’altra settimana Noach la inviò per la terza volta ed essa non tornò più.
Prima della colomba Noach aveva mandato il corvo. Narra il Midrash (Bereshit Rabbà 33,5; R. Bachyè ad v.) che questo uccello si risentì per essere stato scelto. Accusò addirittura Noach di volersi disfare di lui perché apparteneva alle specie impure, quelle di cui è proibita la consumazione e che non sono accolte in sacrificio: “Tu mi odi come il tuo Padrone mi odia”. Nonostante il corvo accennasse a sua volta di voler tornare nell’Arca perché i tempi del dopo-Diluvio non erano ancora maturi, Noach non lo voleva riprendere. Fu il Santo Benedetto a convincerlo: “Accoglilo, perché verrà un giorno in cui il mondo avrà bisogno di lui”. Quando il Profeta Elia punì il malvagio re Achav privandolo della pioggia e dovette nascondersi presso il torrente Kerìt, furono proprio i corvi a portargli da mangiare due volte al giorno per ordine di D. (1Melakhim 17,4 sgg.). Il corvo, animale crudele verso i suoi stessi figli al punto di astenersi dal nutrirli (Tehillim 147,9 e comm.), diede una lezione di sensibilità al Profeta Elia: non si può far morire la gente di sete. Ma diede una lezione anche a Noach: non si deve respingere nessuno, anche il più reietto può fare Teshuvah.
Nell’episodio di Noach il verbo shuv, “tornare” appare più volte: nel senso di “tornare nell’Arca”, ma anche in quello metaforico di “tornare a D.” Tanto il corvo che la colomba ci insegnano la Teshuvah, ma si tratta verosimilmente di due forme diverse del medesimo processo. Il corvo rappresenta piuttosto quella che i nostri Maestri chiamano Teshuvah per timore. È vissuta come per imposizione e in quanto tale è sofferta. Anche il suo esito è più modesto: “le colpe volontarie si trasformano in semplici errori”. Diverso è il caso della colomba. Essa simboleggia l’Amore per D., tanto che molti poeti d’Israele, e fra essi anche l’autore della nostra Selichah, adoperano la metafora della colomba per indicare il Popolo d’Israele. “Grande è la Teshuvah per amore, che ha la forza di trasformare le colpe volontarie in… meriti!” (Yomà 86b). La fonte della metafora è in realtà in un versetto dello Shir ha-Shirim. D. si rivolge alla Sua amata, la Comunità d’Israele: “O mia colomba che abiti negli anfratti della roccia, nel segreto dei dirupi, mostrami il tuo aspetto, fammi udire la tua voce, perché la tua voce è dolce e il tuo aspetto è leggiadro” (2, 14). Spiegano i nostri Maestri che la colomba è simbolo di pudicizia e soprattutto di fedeltà assoluta: “come la colomba non abbandona mai il suo compagno, così la Comunità d’Israele non abbandona mai il Santo Benedetto” (Zohar, P. Reeh). I Chakhamim parlano a questo proposito di deveqùt, “attaccamento”.
C’è peraltro un diverso aspetto meno noto in relazione alla colomba sul quale voglio qui brevemente soffermarmi. Il trattato Parah della Mishnah si occupa delle disposizioni relative alla preparazione delle ceneri della parah adummah, la “vacca rossa” necessaria per purificarci dal contatto con salme: altrimenti non avremmo potuto entrare nel Santuario di Yerushalaim. Le sue ceneri dovevano essere mescolate nell’acqua e asperse sulla persona da purificare, secondo una procedura che qui non può essere descritta dettagliatamente. Anche la fornitura d’acqua era soggetta a regole precise. Un passo della Mishnah in questione (9,3) si interroga se si può adoperare a questo scopo dell’acqua dalla quale abbiano bevuto animali e conclude che tutte le specie invalidano l’acqua bevendola all’infuori della colomba.
La Mishnah stessa argomenta che mentre tutti gli altri animali rilasciano della saliva mentre bevono, la colomba si limita a succhiare l’acqua senza contaminarla con qualcosa di suo. Se teniamo presente che nel linguaggio metaforico dei nostri Profeti l’acqua è simbolo della Torah che ci disseta spiritualmente recepiamo il messaggio in tutta la sua profondità. La Torah stessa richiede che noi la libiamo, ma stando attenti a gustarla nella sua purezza, senza pretendere di aggiungervi nulla di estraneo. Solo così la Torah potrà essere per noi davvero elixir di lunga vita, una volta che le ceneri della “vacca rossa” avevano proprio lo scopo di lavare l’impurità della morte dal mondo. Questo è certamente il significato dell’attaccamento e della fedeltà a D. che la colomba rappresenta.

Rav Alberto Moshè Somekh

(Pagine Ebraiche ottobre 2014)


QUI ROMA
Vita prima della bufera

C’era una volta una scatola che conteneva delle bobine. La famiglia Della Seta la teneva con cura e la portava con sé durante ogni trasloco. “Sapevo che erano vecchi video del matrimonio dei miei nonni. Ma era impossibile vederli. Solo adesso posso affermare con certezza che sono cimeli fondamentali per la storia dell’ebraismo italiano” a parlare Claudio Della Seta, caporedattore del tg5. Come anticipato da Pagine Ebraiche 24 la scorsa settimana, domenica 5 ottobre alle 16.15 presso l’Istituto per il restauro e la conservazione del patrimonio libraio e archivistico (via Milano 76) di Roma verranno presentati per la prima volta i filmati, datati 1923, delle famiglie Di Segni e Della Seta. Ci troviamo di fronte ad un unicum: sono infatti, al momento, le sole riprese che testimoniano la vita ebraica italiana antecedente alla Shoah e probabilmente i primi family movies italiani (questo perché la pellicola usata è quella professionale di 35mm, i video amatoriali apparvero solo negli anni a seguire). “Dopo aver visto per anni le immagini in negativo, grazie alla dott.essa Maria Cristina Misiti dell’ICPAL e Mario Musumeci del Centro sperimentale di Cinematografia, mi sono ritrovato faccia a faccia con i miei nonni. Una conquista per tutti; questo è infatti il progetto pilota della nuova iniziativa dell’ICPAL riguardante il restauro cinematografico” spiega Della Seta. Si muovono sullo schermo la nonna Iole Campagnano e il nonno Silvio Della Seta che, vestiti da sposi, hanno appena compiuto il grande passo. Sullo sfondo i bisnonni Samuele Della Seta e Giulia Di Segni, che verranno catturati durante la retata del 16 ottobre 1943 e non torneranno più.

“I miei nonni riuscirono a salvarsi grazie all’amicizia con i Marinelli, proprietari del famoso negozio di tessuti in Piazza del Viminale, che, numerosissimi, ospitarono nelle diverse case la famiglia” ricorda Claudio Della Seta. Nelle scene del matrimonio spicca anche il bisnonno Giuseppe Campagnano, nonno Beppe, ebreo molto osservante che vent’anni dopo, rifugiato in un convento durante l’occupazione nazista, setacciava le strade di Roma con fare instancabile per portare aiuto ai propri correligionari e per mettere al riparo gli arredi della sinagoga, della quale era il guardarobiere. Ma le immagini non finiscono: scene conviviali e di vacanze, tipiche degli intimi filmini di famiglia: dal mare di Anzio, alla neve fino al ghiotto scambio di pastarelle.
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QUI ROMA - giusti tra le nazioni
Una medaglia per il coraggio
“Il dramma è che all’improvviso non sai più cosa fare, a chi aggrapparti”, mormora qualcuno dal fondo della sala. Nel 1943, dopo una vaga telefonata che lo invitava a mettersi in salvo, Oscar Tedeschi non sapeva a chi aggrapparsi. Come mettere in salvo sua moglie Elena e i figli, Dario e Lucilla, dalla furia nazista. Poi senza perdere di lucidità si rivolge ad un cliente al quale faceva consulenza, la Sartoria Cifonelli, ed a quel puntò si profilò la sagoma di una giovanissima salvatrice: Vera Bazzini, impiegata di venticinque anni che si offrì di ospitare a casa dei suoi genitori l’intera famiglia Tedeschi. Settantuno anni dopo, nella sala del Centro Bibliografico “Tullia Zevi” dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane, Vera, novantasei anni (“Dica pure quanti anni ho, ne sono fiera”), ha ricevuto dallo Yad Vashem la medaglia ed il riconoscimento di Giusta tra le Nazioni. Stesso titolo anche per i genitori Eteocle Bazzini, Adele Giorgi e per il cugino Nello Giorgi, purtroppo scomparsi. “Premiamo Vera dentro il Centro fortemente voluto e realizzato grazie allo stesso Dario Tedeschi – ha ricordato il segretario dell’UCEI Gloria Arbib e siamo entusiasti di poter ospitare i protagonisti di una storia a lieto fine dietro la terribile cornice delle persecuzioni”. Passa poi la parola a Rafael Erdreich ministro consigliere degli Affari Pubblici e Politici dell’Ambasciata d’Israele in Italia: “Un Giusto tra le Nazioni si distingue per tre particolarità: ha salvato la vita ad un ebreo durante la Shoah, ha messo quindi in pericolo la propria e non ha mai ricevuto alcun compenso. Vera Bazzini e la sua famiglia, con la loro onestà, rappresentano tutto questo. Come diciamo in Israele: Sia benedetta la memoria di questi uomini giusti.” Dario Tedeschi rievoca la disperazione dei giorni precedenti: “Proprio in questo periodo dell’anno, ricordo mio padre Oscar, così sperduto. Aveva dovuto lasciare il lavoro in banca per motivi razziali ed aveva sulle spalle la propria giovane famiglia. La proposta di Vera, che aveva visto in precedenza in qualche riunione, fu davvero provvidenziale. Adele, Eteocle e Nello non ci fecero mancare l’aiuto materiale. Nella loro casa in via Foligno 47 ci trattavano come parte integrante, ci aiutarono in ogni modo. Vera e Nello uscivano di notte e in accordo con il nostro portiere recuperavano i nostri beni abbandonati evitando che finissero in mano ad incursori, ci hanno in seguito procurato anche documenti falsi. Ma la verità è che la cosa che più resta nel mio cuore è l’aiuto morale, l’affetto. E vi assicuro, questo non è affatto scontato se lo datiamo al 1943”.
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pilpul
Una presidente, tante direttrici
La Giornata Europea della Cultura Ebraica appena trascorsa ci ha offerto l’occasione, tra le altre cose, di passare mentalmente in rassegna le donne che hanno avuto ruoli di responsabilità all’interno dell’ebraismo italiano e di renderci conto una volta di più del loro numero esiguo, soprattutto quando si tratta di cariche importanti e visibili (basti pensare che abbiamo avuto una sola Presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane). In questo panorama un po’ desolante, che peraltro riflette la desolazione della società italiana in generale, fanno curiosamente eccezione i giornali ebraici, e non solo quelli di oggi.

Anna Segre, insegnante
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A proposito di Davis
Chissà se una qualche eredità ebraica avrà influenzato anche l’ultimo capolavoro dei fratelli Joel ed Ethan Coen, “A proposito di Davis” (“Inside Llewyn Davis”, 2013): la storia di un incompreso e melanconico musicista folk di Greenwich Village, che tra ristrettezze economiche, problemi relazionali, ed insuccessi, troveremo perdutamente a errare – accompagnato da un altrettanto spaesato gatto rosso – in una prematura America degli anni ’60 alla ricerca della conquista dei propri sogni e di una propria realizzazione.

Francesco Moises Bassano, studente
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Time out - Kippur
Quando esisteva il Bet Hamikdash, nel giorno di Kippur solamente il Coen Gadol poteva entrare nel Kodesh HaKodashim per espiare i peccati del popolo ebraico. Si chiedono i maestri perché esclusivamente lui e non a turno ciascun ebreo per esempio. Forse per motivi di tempo e di spazio? Forse un ebreo semplice non era in grado di chiedere a D-o il perdono per gli peccati commessi? No, è che il giorno di Kippur noi non ci rivolgiamo a D-o esclusivamente per espiare i nostri peccati, ma anche quelli di tutto il popolo.

Daniel Funaro
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Laicità
“Se volessi scendere ad un livello politico superficiale, come quello che leggo in quelle dichiarazioni, la domanda che potrei fare è questa: ‘Perché nessuno è indignato per la presenza della sinagoga, nonostante l’esercito israeliano continui imperterrito a bombardare e ad uccidere, oltre che i terroristi, anche i civili, gli uomini, le donne e i bambini?”.
Questa “perla’, tratta da Pisatoday.it, è attribuita al vicesegretario del PSI pisano Luca Pisani, invocante la laicità dello Stato, intervenuto nel locale dibattito, fotocopia ormai di molti altri, sul progetto di costruzione di una moschea.
Ovvero, così posta la questione, quando l’ignoranza laica attenta alla Laicità stessa.


Gadi Polacco
Costruire
“I problemi sorgono quando certe forme della rappresentazione si sostituiscono all’esercizio di un pensiero autonomo e critico … Vi è sempre uno scarto irriducibile tra il divenire degli eventi e il modo in cui il soggetto lo rappresenta a se stesso e agli altri – costruendo ‘riproduzioni’ della realtà circostante e sequenze di vita.” Introduce così Claudia Damari il libro che ha scritto a quattro mani con Dan Soen “Costruire la società. Israele tra passato e futuro” che racconta Israele in modo non convenzionale, ovvero non in quanto Stato, ma in quanto società. Queste parole, che per caso mi ritrovo a leggere alle soglie di Kippur, mi evocano il senso di una giornata come questa e come tutti quei momenti in cui vogliamo prendere coscienza e sintonizzarci di nuovo con noi stessi e con la realtà. Un’occasione per non cadere nei soliti schemi, ma continuare a costruire qualcosa di cui siamo sempre sia osservatori che protagonisti.

Ilana Bahbout


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