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Elia Richetti,
rabbino
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Nei
reiterati tentativi di ottenere la maledizione su Israele, Balàq porta
Bil‘àm in un posto dal quale possa vedere solo una parte del popolo, ma
non tutto. Il motivo scritturale è che Ha-Qadòsh Barùkh Hu’ ha promesso
al popolo d’Israele di non sterminarlo mai completamente, ma a mio
avviso c’è anche un motivo più profondo: a vedere nel particolare, si
coglie sempre qualcosa di sbagliato, o guasto, o non meritevole; mentre
nella complessità, le eccezioni possono passare inosservate.
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Sergio
Della Pergola,
Università
Ebraica
Di Gerusalemme
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Secondo
una notizia riportata da alcune testate, fra cui Yediot Aharonot e il
Times di Londra, il popolo ebraico avrebbe recuperato le dimensioni
demografiche che esistevano prima della Shoah. Bibi Netanyahu si è
affrettato a citare la notizia definendola incoraggiante. Purtroppo si
tratta di una classica papera giornalistica in cui – come nel gioco del
telefono senza fili – uno studio già esistente viene citato in modo
impreciso da un rapporto di ricerca, che a sua volta viene commentato
con parole approssimative da un giornalista, a cui infine un titolista
appone un titolo che poco ha a che fare col testo. Tutto questo è
avvenuto questa settimana in occasione della pubblicazione del rapporto
annuale, peraltro interessante, del JPPI – il Jewish People Policy
Institute a Gerusalemme. In realtà l’odierna popolazione ebraica
mondiale è valutata a 14,3 milioni, di cui 6,2 in Israele, mentre alla
vigilia della seconda guerra mondiale gli ebrei nel mondo erano 16,5
milioni. I ritmi di crescita sono completamente diversi in Israele dove
continua un notevole incremento naturale accompagnato da una certa
ripresa dell’immigrazione, con un aumento totale dell’1.85% nel 2014, e
nella Diaspora, dove invece continua a prevalere una lenta erosione
(-0,22% nel 2014). Il peso di Israele sul totale mondiale della
popolazione ebraica dunque continua ad aumentare e costituisce oggi il
43,5%. Tutto questo appare nella prossima edizione dell’American Jewish
Year Book. Quanto al ritorno alle dimensioni antecedenti la Shoah, le
proiezioni demografiche indicano che ciò non è impossibile, ma ci
vorranno ancora almeno trent’anni, sempre supponendo che le tendenze
attualmente in corso non cambino radicalmente.
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In Egitto, alta tensione |
La
tensione resta alta in Egitto a ventiquattro ore dall’assalto nel Sinai
di cinque basi militari da parte di jihadisti locali. Drammatico il
bilancio delle vittime: 70 morti tra soldati, poliziotti e civili
egiziani e 38 tra i miliziani islamisti, che hanno rivendicato
l’attacco nel nome dello Stato Islamico. Un’aggressione che
destabilizza ulteriormente l’area e che preoccupa Israele, come riporta
il Corriere della Sera: “Ieri i droni israeliani monitoravano dal cielo
la barriera tra Gaza e l’Egitto. Se i jet del Cairo hanno potuto volare
sul Sinai, così vicino alla frontiera tra i due paesi, è solo perché
Israele ha concesso il via libera: una cooperazione per fermare
l’offensiva dello Stato Islamico”. Ieri inoltre, riporta il Corriere,
le forze speciali egiziane hanno eliminato nove militanti dei Fratelli
musulmani in un raid nei sobborghi del Cairo. Un azione risultato della
politica di repressione del generale Al Sisi nei confronti del
movimento islamico salito al potere con la presidenza Morsi nel dopo
Mubarak ma destituito proprio dai soldati di Al Sisi un anno dopo. Lo
scontro tra le due fazioni in Egitto continua, acuendo le spaccature
all’interno della società.
Isis dichiara guerra ad Hamas. “Rovesceremo i tiranni di Gaza”; questa
la minaccia lanciata dai miliziani dell’Isis e rivolta al gruppo di
Hamas, che detiene il controllo della Striscia, attraverso un video nel
quale compaiono degli jihadisti armati. I miliziani poi continuano:
“sradicheremo lo Stato degli ebrei e anche Al Fatah”. L’accusa che
l’Isis muove ad Hamas, spiega La Stampa, è duplice: “vi siete alleati
con gli Hezbollah sciiti e i gruppi laici” considerati infedeli e “non
fate rispettare la legge islamica”.
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la scomparsa dello "schindler inglese"
Nicholas Winton (1909-2015)
“Quale
è stato il momento più emozionante della mia vita? Quando mi sono
ritrovato faccia a faccia con i bambini che avevo salvato, dei bambini
oramai divenuti adulti”.
Per
cinquanta anni Sir Nicholas Winton aveva mantenuto un segreto. Per
cinquanta anni non aveva rivelato a nessuno il gesto eroico con il
quale, nel 1939, aveva portato in Inghilterra 669 bambini ebrei della
Cecoslovacchia, salvandoli dalla deportazione e dalla morte certa.
Un
silenzio mantenuto fino a quando, nel 1988, sua moglie Grete si ritrovò
tra le mani un vecchio quaderno sul quale erano scarabocchiati dei nomi
dei bambini accompagnati da foto e documenti (testimonianza ora
conservata allo Yad Vashem di Gerusalemme) e gli chiese spiegazioni.
È
a quel punto che, Winton invitato dal programma della BBC “That’s life”
si ritrova inconsapevolmente seduto accanto ad una delle ex bambine che
li devono la vita. Dopo averla abbracciata timidamente, la
presentatrice invita il pubblico ad alzarsi in piedi e mostra allo
“Schindler inglese” altre decine di ex ragazzi oramai anziani, e Winton
non riesce a trattenere le lacrime.
Nato
nel 1909 ad Hampstead da una famiglia tedesca di origine ebraica,
Nicholas Winton si è spento ieri a 106 anni nel Berkshire.
A
ricordare il suo valore sono stati, tra gli altri, il premier inglese
David Cameron che attraverso Twitter ha dichiarato: “Il mondo ha perso
un grande uomo, non dobbiamo mai dimenticarlo”, ma anche l’esponente
del partito laburista David Miliband, di origine ebraico-polacca, che
ha scritto: “Winton è stato un eroe umile e onorevole”. Il primo
ministro di Israele Benjamin Netanyahu ha poi espresso l’eterna
gratitudine che il popolo ebraico e lo Stato di Israele devono a
Winton: “In un mondo macchiato dalla malvagità e l’indifferenza, si è
dedicato a salvare innocenti e indifesi”. Messaggi di cordoglio sono
poi stati espressi dal rabbino capo del Commonwealth Ephraim Mirvis:
“Sir Nicholas è stato una delle persone più grandiose che abbia mai
incontrato. La sua perdita segnerà profondamente il mondo ebraico” e
dall’ex rabbino capo Jonathan Sacks: “è stato un eroe dei nostri tempi
ed è ancora più impressionante il fatto che non abbia mai cercato onori
o riconoscimenti. I nostri saggi dicono che chi salva una vita salvi il
mondo intero. Sir Nicholas ha salvato centinaia di mondi”.
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parigi - nasce l'european center for judaism
Il presidente Hollande: "Costruire è la risposta all'antisemitismo"
La
nascita a Parigi dell'European Center for Judaism è “la miglior
risposta chi pensa che il futuro degli ebrei in Francia sia da un’altra
parte”. Così il presidente francese François Hollande ha commentato la
realizzazione del nuovo polo culturale ebraico che aprirà le porte nel
2017, finanziato in parte dal Governo francese. Il futuro dell’ebraismo
francese ed europeo è stato il tema al centro dell’incontro svoltosi
lunedì all’Eliseo con il presidente dello European Jewish Congress
Moshe Kantor, nominato Officier de la Légion d'Honneur, la più alta
onorificenza dello Stato. “Gli ebrei meritano di vivere qui, di
rimanere qui, e di essere al sicuro”, ha affermato Hollande.
Una nuova risposta al dibattito scatenato, tra gli altri,dal premier
israeliano Benjamin Netanyahu con il suo invito rivolto agli ebrei
francesi all’indomani degli attentati alla redazione di Charlie Hebdo e
all’Hypercacher di Porte de Vincennes. A toccare il tema cruciale del
numero crescente di aliyot dalla Francia anche Joël Mergui, presidente
del Consistoire Central de France, l’Unione delle Comunità ebraiche del
paese. “C'è chi si chiede se sia il giusto momento per costruire,
proprio mentre molti ebrei se ne stanno andando”, ha affermato al gala
di raccolta fondi svoltosi domenica al Municipio di Parigi, alla
presenza di molti rappresentanti delle istituzioni nazionali. “Nessuno
ha il diritto né di criticare chi parte né di decidere del futuro della
maggioranza che resta – la risposta di Mergui – e questo nuovo centro
dimostra che solo noi e nessun altro disponiamo di quel futuro”.
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libri - il successo di katja petrowskaja
Strega Europeo a "Forse Esther"
Continua
il successo di “Forse Esther”, il romanzo della giornalista Katja
Petrowskaja, nata a Kiev nel 1970 ma da quindici anni residente a
Berlino.
Dopo
la carriera universitaria che l’ha portata da Tartu, in Estonia, a
Mosca, alla Columbia University di New York e a Stanford ha deciso
trentenne di imparare il tedesco, un modo apparentemente illogico per
ritrovare il suo passato e, in un certo senso, sfidare il nemico. Una
sfida che “per me è giunta come una liberazione”, ha spiegato. Ed è
proprio in tedesco che ha scritto “Vielleicht Esther”, che ha vinto nel
2013 l’Ingeborg-Bachmann-Preis, fra i premi più prestigiosi dedicati
agli autori in lingua tedesca.
L’autrice
è stata protagonista al Salone del libro di Torino, lo scorso maggio, e
nei giorni della manifestazione è stata ospite della libreria Bardotto
insieme alla redazione di Pagine Ebraiche per la presentazione del suo
libro – pubblicato in Italia nel 2014 da Adelphi, con la traduzione di
Ada Vigliani. Il suo fascinoso mosaico di racconto autobiografico,
vicende storiche, documentazione d’archivio e ricordi personali,
intitolato a quella bisnonna che si chiamava, appunto, forse Esther, ha
ora vinto il Premio Strega Europeo.
Nato
in occasione del semestre di presidenza italiana del Consiglio
dell’Unione Europea, il premio intende rendere omaggio alla cultura del
vecchio continente e per il secondo anno ha scelto fra cinque voci
rappresentative di aree linguistiche diverse che, recentemente tradotti
e pubblicati in Italia, abbiano vinto un riconoscimento nazionale
importante.
E
la Petrowskaja ha convinto la giuria, composta da vincitori e finalisti
dello Strega, dal direttore della Rappresentanza in Italia della
Commissione Europea Lucio Battistotti, dalla direttrice di Casa delle
Letterature di Roma e del Festival Internazionale Letterature Maria Ida
Gaeta e dal direttore della Fondazione Bellonci Stefano Petrocchi. Di
poche settimane fa invece la vittoria della XV edizione del Premio
Adelina Della Pergola, assegnato dall’Adei-Wizo (l’Associazione Donne
Ebree d’Italia).
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j-ciak
Il gusto aspro dei documentari
Non
è un caso che, con parecchie settimane d’anticipo sull’apertura, a dare
fuoco alle polveri del Jerusalem Film Festival sia stato un
documentario, quel “Beyond the Fear”, dedicato a Yigal Amir, l’uomo che
assassinò Rabin. Delle minacce del ministro Miri Regev, che ha
ventilato la sospensione dei finanziamenti pubblici al festival abbiamo
già parlato. Come della soluzione definita ‘di compromesso’ per cui il
film sarà proiettato in una sala privata.
Colpisce
però che un genere fino a vent’anni fa confinato nei circuiti degli
addetti ai lavori sia divenuto oggi così potente da scatenare perfino
scontri di questo tipo. A confermarne l’incisività provvederanno, al
festival, i lavori di due maestri del genere: il regista
ebreo-americano Frederick Wiseman, di cui si proietterà “National
Gallery”, e Albert Maysles, di recente scomparso, che ha dedicato il
suo recente lavoro “Iris” alla profetessa della moda americana Iris
Apfel. E molto ci si aspetta dai filmaker israeliani, che hanno dato
finora notevoli prove di sé.
Difficile
dire quale dei lavori in lizza per i Van Leer Awards riuscirà ad
catturare il pubblico (ma i documentari in proiezione sono molti di
più, non ultimi quelli dedicati all’esperienza ebraica nel mondo). I
film in concorso entrano di prepotenza nell’attualità, con incursioni
nel sociale e nell’arte. Silvina Landsmann in “Hotline” ci conduce nel
cuore di una piccola ong che a Tel Aviv lavora con i rifugiati e i
migranti, mettendo loro a disposizione una linea telefonica per
informazioni e aiuto (la hotline del titolo) e patrocini legali.
Daniela Gross Leggi
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qui Torino
Dieta casher, cultura alimentare
Ultimo
appuntamento ieri sera per l’Asset, Associazione ex allievi e amici
della scuola ebraica di Torino, con la presentazione di “La dieta
kasher. Storia, regole e benefici dell’alimentazione ebraica”, curato
da Rossella Tercatin, giornalista della redazione dell’Unione delle
Comunità Ebraiche Italiane. Il volume è strutturato in dieci capitoli,
di autori diversi che portano al volume competenze diverse, proprio
perché cibo e la casherut hanno natura interdisciplinare. Alla
presentazione erano presenti tre degli autori: Victoria Acik, medico
chirurgo, Francesca Modiano, dietista e giornalista e il rav Alberto
Moshè Somekh. Tra i relatori anche Rosanna Supino, membro dell’AME,
Associazione Medica Ebraica, che ha promosso la realizzazione del
volume, realizzato con il sostegno dell’UCEI e pubblicato da Giuntina.
Alice Fubini
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Setirot
- La Brigata del Lavoro |
Questioni
personali (gioiose) mi spingono a un momento di riflessione; rileggo
qua e là "La mia terra promessa" di Ari Shavit. Lui parla della Brigata
del Lavoro, io ci leggo una straordinaria sintesi del diventare adulti,
del conquistare la responsabilità individuale. Perché non essendoci più
padri, non esistono più limiti né divieti; non essendoci più madri,
vengono a mancare sollievo e consolazione; non esistendo Dio, non c'è
più pietà. Nessuna seconda opportunità. Nessuna speranza di un miracolo.
Stefano Jesurum, giornalista
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Time
out - I primi della classe |
La
Stampa riporta dell’intenzione dell’Isis di scalzare Hamas. La sua
colpa? Essere alleato di sciiti e gruppi laici. Quello che a noi può
sembrare un paradosso in quell’area rappresenta ormai la normalità. La
gara all’estremismo sembra prendere sempre più piede e a vincere è
ovviamente chi si propone come il più fondamentalista. Il risultato
sembra essere un vecchio motto dei democristiani: “Ad essere il più
puro, si trova sempre qualcuno che ti epura.”
Daniel Funaro
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