Israele – Energia in attesa delle regole

gasQuando cinque anni fa fu rilanciata la notizia della scoperta a largo delle coste israeliane dei giacimenti di gas Tamar (2009) e Leviathan (2010), si parlò di una vera e propria rivoluzione energetica per Israele: per la prima volta il Paese poteva contare su una risorsa naturale propria, senza doversi affidare alle importazioni. Non solo, la sua posizione si era totalmente ribaltata, catapultando il paese tra le nazioni esportatrici di gas. Ma per dare corso alla rivoluzione era – ed è – necessario mettere a punto un serio e trasparente piano di regolamentazione del nuovo settore energetico a disposizione di Israele. Un piano che in questi giorni il Primo ministro Benjamin Netanyahu ha cercato di portare a casa, senza però ottenere i risultati sperati.
Come raccontano i quotidiani israeliani, Netanyahu ha cercato di mantenere per quanto possibile segreti alcuni termini del progetto di regolamentazione, su cui era comunque arrivato il veto dell’autorità antitrust israeliana: “questo piano non porterà sicuramente la competitività in questo importante mercato”, la dura critica del commissario dell’Antitrust David Gilo, dimessosi dal suo incarico a metà maggio in aperta polemica con il governo. Secondo Gilo, così come per tutti i critici della proposta, il progetto di Netanyahu lascerà di fatto in mano alla statunitense Noble Energy e al suo partner israeliano Israel’s Delek Group il monopolio della gestione dei due grandi giacimenti a largo delle coste di Haifa (da ricordare come Tamar sia pienamente operativo mentre Leviathan, secondo il progetto iniziale, dovrebbe diventarlo dal 2017). “L’accordo che abbiamo raggiunto è il migliore possibile, il più realistico – ha spiegato il ministro per l’Energia martedì scorso nella conferenza stampa in cui venivano presentati per la prima volta ufficialmente i dettagli dell’accordo – Forse ci sono altri accordi in mondi immaginari ma noi siamo nel mondo reale e abbiamo bisogno che il gas arrivi. Questa proposta porterà finalmente allo sviluppo dei giacimenti di gas e porterà nuove compagnie a cercare gas e petrolio nella nostra zona economica”. Come spiegava su Pagine Ebraiche (Gennaio 2015) l’economista Aviram Levy, la mancanza di una regolamentazione chiara e trasparente riguardo al settore energetico ha spinto nel 2014 le grandi società petrolifere ha cessare quasi del tutto la ricerca di nuovi giacimenti. “Negli ultimi anni, anche sulla scia delle proteste di piazza del 2011 contro il caro-vita, i governi israeliani -hanno modificato unilateralmente gli accordi presi una decina di anni fa – sottolineava Levy – quando erano state date le concessioni a estrarre: ai produttori è stato imposto di pagare al governo delle royalties più elevate, metà della produzione deve essere destinata al mercato israeliano invece che all’export ed è in discussione una proposta di imporre prezzi di vendita del gas calmierati (ossia inferiori a quelli di mercato) per il mercato israeliano”. L’accordo emerso negli scorsi giorni sembrerebbe tutelare maggiormente le società in gioco, la Noble Energy e la Delek. Troppo, secondo i critici, preoccupati di lasciare una concessione di almeno 15 anni alle due compagnie del petrolchimico. Ed i contrari sono riusciti a vincere almeno la prima partita, che ha molto di politico: una delle mosse di Netanyahu per riuscire a siglare l’accordo di regolamentazione era stato chiedere al ministro dell’Economia Aryeh Deri (del partito Shas) di invocare – atto senza precedenti, sottolinea il Jerusalem Post – una clausola a disposizione del suo ministero per bloccare l’intervento della commissione antitrust. Se Deri avesse sostenuto che l’accordo rientrava nei casi di sicurezza nazionale o ragioni di politica estera, l’autorità di controllo non avrebbe più avuto voce in capitolo. Deri però ha rimesso la palla al gabinetto di sicurezza perché appoggiasse questa iniziativa e qui si è palesata la fragilità dell’attuale maggioranza: almeno tre ministri, tra cui Moshe Kahlon, si sono tirati indietro per varie ragioni. La questione sarebbe quindi dovuta arrivare alla Knesset, il parlamento israeliano, dove Netanyahu può godere di una risicatissima maggioranza (61 contro 59 seggi). E così la regolamentazione del settore energetico è di nuovo ferma, nonostante la fretta dell’esecutivo israeliano. Il Financial Times spiegava infatti che Gerusalemme puntava a definire velocemente le regole in modo da attrarre investimenti stranieri e preoccupata di perdere questi ultimi in caso vada in porto l’accordo sul nucleare iraniano, facendo di Teheran un nuovo polo di attrazione. Per la rivista economica Israele non deve preoccuparsi, almeno su questo, dell’Iran (un sistema burocratico macchinoso e la mancanza di infrastrutture sarebbero comunque un ostacolo per immediati investimenti stranieri nella terra degli Ayatollah) ma deve fornire al più presto agli investitori un sistema di regole “stabile e trasparente”. “Fino adesso solo un quarto delle acque sotto la giurisdizione israeliana sono state esplorate”, ricorda il Financial Times. E quindi le risorse per la rivoluzione energetica israeliana potrebbero essere ancora più grandi. Ma c’è bisogno delle regole.

Daniel Reichel

(2 luglio 2015)