David
Sciunnach,
rabbino
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“Moshè
parlò ad Aròn, a Elazàr e a Itamar, i suoi figli superstiti...” (Vaikrà
10, 12). Ha detto a proposito di questo verso il grande commentatore
Baàl ‘Avnè Nezer, il Santo Benedetto Egli Sia, si avvicina a coloro che
si sentono inutili. Ecco che Elazàr e Itamar erano persone molto umili
e vedevano loro stessi come inutili, ed è proprio per questa
caratteristica che rimasero in vita.
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Davide
Assael,
ricercatore
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Lo
stallo della Spagna, da 100 giorni senza un governo, è un ulteriore
segno della difficoltà che sta vivendo il modello democratico, sempre
più incline a trasformarsi in un sistema a campagna elettorale
permanente. Così negli Stati Uniti, dove abbiamo assistito
all’incredibile, e fino a poco tempo fa inimmaginabile, ascesa
dell’impresentabile Donald Trump. Per proseguire, appunto, con
l’Europa, dove la democrazia sta dando ragione ai suoi critici, da
sempre convinti della sua incapacità di gestire momenti di instabilità.
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I 500 anni del Ghetto
“Riflessione attuale”
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“Non
si tratta di una festa, naturalmente, ma è l’anniversario di un
importante avvenimento storico, della nascita di un luogo e di una
definizione che poi hanno trasceso l’epoca e la località geografica
trasformandosi in una metafora globale. È una straordinaria occasione
per riflettere su cinque secoli di storia legati al concetto di ghetto,
e anche sui ghetti fisici, sociologici e mentali dei nostri tempi”.
Così Shaul Bassi racconta al Corriere la sfida delle molte iniziative
messe in campo per il Cinquecentenario del Ghetto di Venezia.
Ieri l’avvio di un fitto calendario di impegni, tra Ateneo Veneto e
Teatro La Fenice. E anche la visita in Ghetto della presidente della
Camera dei deputati Laura Boldrini, accolta dal presidente dell’Unione
delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna e dal presidente della
Comunità ebraica veneziana Paolo Gnignati. “Voglio subito sgombrare il
campo da possibili equivoci e riaffermare con forza che gli ebrei non
hanno alcuna nostalgia del ghetto, la cui istituzione deve essere
ricordata e studiata, ma non festeggiata e celebrata” ha detto ieri
Gattegna alla Fenice.
Sul Corriere si parla anche del “bel dossier” curato da Ada Treves su
Pagine Ebraiche di marzo in cui si dà voce ai molti protagonisti di
queste giornate.
È iniziata ieri la missione in Israele del leader leghista Matteo
Salvini, accompagnato dai due vicesegretari federali Giorgetti e
Fontana e dal capogruppo della Lega in commissione Esteri Gianluca Pini
“Una missione saltata nel dicembre scorso e riproposta oggi. Perché
Salvini ci tiene molto ad Israele, al suo ‘modello di convivenza nel
rispetto dell’ordine e della legalità’ e perché Israele – scrive
Repubblica – dimostra di voler conoscere questo quarantenne che parla
il linguaggio dei falchi al governo”.
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Venezia e i 500 anni del Ghetto
Una giornata indimenticabile
La
visita della presidente della Camera nel quartiere ebraico, nel museo,
nelle meravigliose sinagoghe che hanno reso quei pochi metri quadrati
uno dei luoghi più conosciuti al mondo. L’affollata presentazione del
libro Venezia e il Ghetto, della professoressa Donatella Calabi, nella
cornice dell’Ateneo Veneto. Il concerto al Teatro La Fenice, segnato
dall’esecuzione della prima sinfonia di Gustav
Mahler e da una memorabile lezione dello storico Simon Schama. Grande
intensità di eventi e occasioni di incontro per la giornata di avvio
delle iniziative per il Cinquecentenario del Ghetto della città
lagunare.
“Le società basate sui ghetti hanno generato atrocità. Noi dobbiamo
valorizzare le minoranze e capire che c’è un patrimonio che arricchisce
tutti, lavorando per l’inclusione sociale, il rispetto reciproco,
l’abbattimento di quel senso di radicalizzazione che sta emergendo in
molte società europee” dice Laura Boldrini all’ingresso del quartiere,
dove ad accoglierla trova il presidente dell’Unione delle Comunità
Ebraiche Italiane Renzo Gattegna e il presidente della Comunità ebraica
veneziana Paolo Gnignati.
La delegazione visita i luoghi più significativi della presenza ebraica
in città. Si informa, domanda, interagisce con alcuni protagonisti
della vita comunitaria. E resta senza fiato davanti ai preziosi argenti
del museo, al fascino delle sinagoghe veneziane. Partecipano tra gli
altri alla visita il rabbino capo Scialom Bahbout, il vicepresidente
dell’Unione Roberto Jarach, l’assessore UCEI Noemi Di Segni, il
segretario generale Gloria Arbib, il presidente del concistoro degli
ebrei di Francia Joel Mergui.
Pochi
minuti e all’Ateneo Veneto, gremito in ogni ordine di posto, la grande
sfida culturale della mostra “Venezia, gli Ebrei e l’Europa. 1516-
2016” che si aprirà in giugno a Palazzo Ducale e che costituisce uno
degli appuntamenti più attesi di questo 2016 prende forma nelle pagine
del libro scritto dalla sua curatrice. A presentare l’opera sono il
presidente dell’Ateneo Veneto Guido Zucconi, il presidente della
Fondazione Beni Culturali Ebraici in Italia Dario Disegni e i
giornalisti Stefano Jesurum e Paolo Rumiz.
Dall’altra parte della piazza si aprono le porte della Fenice, al cui
interno si raccolgono un migliaio di persone. Rappresentanti delle
istituzioni, leader ebraici, i fortunati che sono riusciti a ottenere
un ingresso. “Quei cancelli ci interrogano su cosa significhi
condividere, o non condividere, lo spazio urbano: viverci insieme o
viverci separati?” la domanda che è centrale nella riflessione di
Schama, ospite d’onore della serata.
Quale la sfida, quale il messaggio quindi di questo Cinquecentenar io?
“Siamo ben consapevoli che si tratta di una ricorrenza non certo lieta
ma che, tanto in una prospettiva ebraica che civile, non si può lasciar
passare inosservata, perché offre uno straordinario momento
di riflessione che guarda tanto al passato che al futuro” dice il
presidente Gnignati aprendo l’evento. Sulla stessa lunghezza d’onda il
presidente UCEI Gattegna, che afferma: “Il ghetto è un tema antico, ma
purtroppo ancora molto attuale. Non è tanto o soltanto uno spazio
fisico, un quartiere con le sue strade, le sue piazze e i suoi confini,
ma concettualmente è l’archetipo di ogni forma di esclusione, di
isolamento, di indifferenza, di rifiuto estremo e totale dell’altro,
del diverso o presunto tale, spesso a causa di consolidati pregiudizi”.
“La creatività fu la risposta alla segregazione” ricorda il presidente
del World Jewish Congress Ronald Lauder, che elogia inoltre
l’importante storia “di reazione” e “di resilienza” testimoniata dagli
ebrei veneziani. C’è oggi il rischio di nuovi ghetti? Per il sindaco
Luigi Brugnaro “Venezia ha anticorpi forti, culturali e sociali: è
incrocio di culture”.
A
introdurre gli ospiti sul palco è Viviana Kasam, che dà anche il via
alla magistrale prova dell’orchestra diretta dall’israeliano Omer Meir
Wellber (nell'immagine a sinistra).
Cinquantacinque minuti di grande intensità. E un lungo applauso finale a suggello di una giornata indimenticabile.
(Nelle immagini,
dall’alto in basso, Simon Schama sfoglia il dossier di Pagine Ebraiche
assieme ad Ada Treves - a sinistra-, al loro fianco, Simon Levis
Sullam, Paolo Navarro, Donatella Calabi e Paolo Navarro - foto di
Michele Levis; l’ingresso della presidente della Camera Laura Boldrini
in Ghetto, accolta dal presidente UCEI Renzo Gattegna e dal presidente
della Comunità ebraica veneziana Paolo Gnignati; il pubblico in sala al
Teatro La Fenice) Leggi
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Venezia e i 500 anni del ghetto
L'Italia ebraica, fra storia e note
Venezia,
Campo San Fantin: dall’accalcarsi della folla che la pur grande sala
dell’Ateneo Veneto non ha potuto contenere in occasione della
presentazione di Venezia e il ghetto si è passati nel giro di neppure
due ore al fruscio degli abiti lunghi. Erano già percepibili sin dal
mattino la grande attesa e le aspettative che hanno portato ieri un
pubblico un po’ diverso dal solito nel sestiere San Marco, il più
turistico di Venezia. La coda davanti alla Fenice attraversava tutto il
campo San Fantin già prima dell’apertura della biglietteria, dove per
tutta la giornata il personale del teatro e del Comitato
VeniceGhetto500 si è occupata dei tanti ospiti che vi giungevano per
ritirare gli inviti ed avere informazioni. La sicurezza, che ha
presidiato l’area prima discretamente e poi con una presenza massiccia
ha visto decine e decine di persone arrivare alla spicciolata in quello
che per alcune ore si è trasformato in uno scenografico e affollato
salotto dell’ebraismo italiano. Così affollato, in effetti, che in
molti non sono neppure riusciti ad entrare nella pur grade sala
dell’Ateneo Veneto, dove Paolo Rumiz, Dario Disegni e Stefano Jesurum
hanno presentato, insieme all’autrice, Venezia e il ghetto
(Bollati-Boringhieri), il volume che la storica veneziana Donatella
Calabi (nell'immagine al fianco di Dario Disegni) ha dedicato al
“Recinto degli ebrei”. Leggi
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Venezia e i 500 anni del Ghetto – schama
"Il giudizio storico più ebraico?
Avrebbe potuto andarci peggio"
La
Storia non è sempre un viaggio nella memoria. A volte un evento che
pensiamo di esserci lasciati alle spalle in una particolare epoca o in
un particolare luogo – per esempio questa città, il 29 marzo 1516, il
decreto del senato che confina gli ebrei nell’insula del geto nuovo,
questo momento preciso, molla gli ormeggi che lo legano a mezzo
millennio fa e va a schiantarsi contro il nostro presente a rischio,
dove ci trova immersi in una riflessione urgente e inevitabile sul che
cosa significhi condividere, o non condividere, lo spazio urbano:
viverci insieme o viverci separati?
E poi ci rendiamo conto, ancora una volta, che non sempre la storia si
comporta nel modo ordinato richiesto dai professori, non sempre è
disposta a lasciar trasporre ordinatamente il proprio caos nella
sequenza di pagine di un libro, gli eventi obbedientemente in fila uno
dopo l’altro. Se c’è una cosa che dovremmo avere capito del nostro
tempo, è che fenomeni dissociati, all’apparenza lontani secoli l’uno
dall’altro, posso coesistere simultaneamente, adattandosi l’uno
all’altro, nutrendosi l’uno dell’altro. Internet può resuscitare dalla
tomba ideologie zombie come il califfato o i “crociati”, annullando la
differenza tra fatto e finzione, riportandole in vita armate fino ai
denti, ad uso del mondo moderno. Proprio come la stampa dotò l’alchimia
di un pubblico di lettori, così la rete è al tempo stesso fattuale e
immaginifica, globale del punto di vista tecnico ma tribale da quello
culturale. Agli occhi degli storici autenticamente contemporanei un
universo Einsteiniano fatto di tempo ricurvo appare molto più credibile
di un traiettoria seriale che trascina irreversibilmente l’umanità dal
primitivismo verso il progresso.
A mio parere la modernizzazione di antiche barbarie, l’idea che il
ghetto sia qualcosa che ci appartiene adesso tanto quanto ci
apparteneva cinquecento anni fa sarebbe inevitabile anche a prescindere
dalla recente strage di Bruxelles: una cosmopoli eterogenea e
mercantile proprio come la Venezia cinquecentesca – operando la sua
distruzione proprio nei luoghi dove le persone si recano per muoversi
per l’organismo libero della città, tra partenze e arrivi uniti
dall’innocente certezza di un esito. Che cosa c’è al cuore di questo
orrore, infatti, se non la possibilità, o l’impossibilità, della
coabitazione; la condivisione dello spazio urbano da parte di comunità
dissimili per credo, lingua, usanze, gruppi devoti più che ad ogni
altra cosa alla eterogeneità del quotidiano, alla lotta al tribalismo,
al principio di condividere il territorio senza paranoie, senza la
necessità di suonare le campane, serrare i cancelli, chiudere a chiave
il ghetto quando il sole cala sulla laguna.
Perdonate questo sospirare ebraico, mentre siamo immersi nella
consolatoria bellezza della Fenice, ma dopo tutto, signore e signori,
che tipo di commemorazione è quella di stasera? Il compiacimento
collettivo non sembra proprio la cosa giusta, non trovate? A meno che
noi non vogliamo compiacentemente dare per scontato che ciò che avvenne
nel 1516 non potrebbe mai accadere oggi. Ma è così? (Giusto l’altro
giorno uno dei candidati repubblicani alla nomina di Presidente degli
Stati Uniti, Ted Cruz, ha reagito alle notizie provenienti da Bruxelles
raccomandando pattugliamenti e sorveglianza della polizia nei quartieri
musulmani delle città americane fino a, per usare le sua parole,
“metterle in sicurezza”, neanche fosse un ufficiale dell’esercito che
parla di Falujah. Quelle pattuglie che cosa dovrebbero controllare? Che
la lunghezza delle barbe non superi pericolosamente il limite
consigliato?)
È evidente: non siamo qui a celebrare un decreto che descrive gli ebrei
come gente capace “di molte cose detestabili, a gravissima offesa di
Dio e contro l’onore della Repubblica Veneziana”, e reputò necessario
il relegarli in una piccola insula urbana affinché di notte non
potessero seminare zizzania o contagi nella città cristiana. Eppure,
come è stato detto infinite volte, per gli standard delle calamità
ebraiche non si trattò di una totale catastrofe, giusto il solito
ripasso della deumanizzazione: distintivi e berrette per distinguere
gli ebrei, divieto di possedere immobili o assumere servitù cristiana,
il divieto (nei primi decenni) di erigere sinagoghe o di professare
apertamente cerimonie e festività, la routine quotidiana della chiusura
e dell’apertura di ponti e cancelli come in un carcere a cielo aperto.
Non potrebbe esserci un giudizio storico più ebraico (da accompagnare
con una scrollata di spalle) di: “poteva andare peggio”. Il ghetto di
Venezia era pensato in modo da far stare gli ebrei al loro posto, in
tutti i sensi, ma a quella consapevolezza in teoria doveva
accompagnarsi anche un elemento di continuità, persino di stabilità.
Dopo il 1538 fu possibile costruire delle sinagoghe, seppure molto
modeste, ma tutte le condotte continuarono a dover essere rinnovate,
sotto la minaccia di espulsione.
“Poteva andare peggio ” e andò peggio nella Roma di Giulio III, dove il
Talmud fu condannato e bruciato – un autodafé al quale non sfuggirono
nemmeno le stamperie veneziane. E fu ancora peggio sotto il pontificato
di Paolo IV, quando gli ebrei di Roma, una comunità naturalmente più
antica di quella cristiana, furono sradicati da Trastevere e cacciati
di là del ponte inizialmente in una unica strada a loro assegnata,
nella zona fangosa e spesso allagata oltre che insalubre, addossata
all’argine tiberino. La mostruosa bolla Cum Nimis Absurdum, promulgata
nel 1555 durante le prime settimane di pontificato di Paolo IV,
riaccese l’antico terrore espresso da Giovanni Crisostomo ad Antiochia
nel IV secolo e poi riesumato dal Concilio Laterano IV nel 1215 da
Innocenzo III: quello di una qualsiasi commistione fisica tra ebrei e
cristiani, con gli ebrei che si aggiravano nei quartieri dei cristiani,
sui loro luoghi di lavoro e persino, in veste di dottori, nelle loro
case, tra i loro corpi. Eredi, collettivamente e per tutta l’eternità,
della colpa derivante dal crimine commesso contro il Salvatore, essi
dovevano essere per sempre degradati e visibilmente stigmatizzati, a
loro doveva essere impedito di ammorbare moralmente e sessualmente la
popolazione… da qui la necessità di renderli pubblicamente
riconoscibili per mezzo di quei distintivi e di quelle berrette,
preferibilmente dello stesso colore utilizzato per marcare le
professioni infamanti come la prostituzione. Paolo IV tentò persino di
proibire che medici ebrei curassero pazienti cristiani, ma l’iniziativa
ebbe scarso successo persino nella peggiore morsa controriformistica.
Nell’elenco delle umiliazioni veneziane non c’è nulla di paragonabile
alle gare di ebrei disputate, dall’epoca di Papa Paolo II nel 1466 fino
a quella di Clemente IX due secoli dopo, durante il carnevale romano:
gare durante le quali nel freddo e nel fango di febbraio si
costringevano otto ebrei a correre seminudi, per il divertimento della
folla che li ricopriva di insulti e frutta marcia, dopo averli
ingozzati a forza prima della gara affinché scivolassero e vomitassero
durante il percorso.
Poteva decisamente andare peggio.
Il ghetto di Venezia non fu sotto l’egida del fanatismo o della
paranoia, ma fu il risultato di un lucido pragmatismo – il modus
operandi caratteristico della Repubblica. C’era bisogno degli ebrei per
far funzionare i banchi di pegno e per gestire l’ondata crescente di
poveri prodotta alla guerra della Lega di Cambrai. Gli ebrei vivevano
già in terraferma e nello Stato da Mar, venendo a Venezia per brevi
periodi senza però potersi avvicinare, come residenti, oltre Mestre.
Dopo Cambrai si rese necessaria una maggiore continuità, purché gli
ebrei concedessero prestiti ai cristiani; nacque da qui la volontà, nel
1516, di concedere loro la residenza per un certo numero di anni
(inizialmente 5,) rinegoziabili, e sottoponendoli a regole severe, tra
cui l’isolamento urbano, su quello che era stato un tempo il terreno di
risulta dell’antica fonderia di rame, poi un’area di baracche di
pescatori, poi di casupole di tessitori, poi una zona di speculazione
edilizia e infine un ghetto chiuso da cancelli.
Come tutti gli storici hanno osservato, tuttavia, si trattò di un
isolamento socialmente e culturalmente poroso. Di giorno alcuni ebrei
uscivano per esercitare le professioni di medico, maestro di danza o
musicista, mentre i cristiani entravano come artigiani, facchini o
domestici (nonostante il divieto). In alcuni periodi specifici
dell’anno – Purim con gli spettacoli del purimshpiel, o la musica e le
danze di Simchat Torah – lo spazio del Ghetto si affollava di
visitatori cristiani. Esistevano persino normali imprese culturali.
Dopo l’interdizione papale che vietava agli ebrei di stampare i propri
libri sacri in ebraico, stampatori cristiani come Daniel Bomberg (il
quale già nel 1516 aveva stampato il Mikraot Gedolot, un’autorevole
edizione della Bibbia in ebraico con relativi commentari rabbinici)
presero in mano la pubblicazione dei libri del Talmud. Anche alcune
delle più grandi dinastie patrizie della città – i Giustinian e ancora
di più i Bragadin – divennero editori di libri ebraici dotti e sacri.
Prima della Controriforma, durante il periodo dei papi umanisti, si era
creata una naturale convergenza tra l’interesse dei cristiani per
l’ebraico e la volontà di rabbini ed eruditi ebrei di impartirlo
(consci, questi ultimi, del fatto che l’entusiasmo cattolico altro non
era se non un prolungamento del loro anelito di conversione).
L’amicizia più sorprendente fu quella tra il Cardinale Egidio Antonini
di Viterbo ed Elia Levita Bahur, saggio kabbalista e autore Yiddish di
Bovo Bukh: dopo che gli ebbero distrutto la biblioteca, Bahur ricevette
l’invito a trasferirsi con la famiglia nel palazzo del cardinale – cosa
che fece, abitandoci per oltre un decennio. Quando il Sacco di Roma
pose fine a quella straordinaria coabitazione, Elia Levita Bahur si
trasferì nuovamente e Venezia, dove continuò la sua attività di
insegnante di ebraico fuori e dentro il ghetto, e di correttore di
bozze. Egli contribuì all’esodo dell’epoca portando a Venezia coloro ai
quali una ferocia sempre più inquisitoriale rendeva difficile rimanere
a Roma.
Chissà quanti, in quei primi decenni, vissero una vita
dentro-e-fuori-del Ghetto. Uno di loro fu certamente il pittore e
illustratore biblico Mosè da Castellazzo, specializzato nell’illustrare
variazioni midrashiche di temi biblici, molte delle quali rivolte in
particolare ai Marrani che riabbracciavano la religione ebraica. Quando
Mosé da Castellazzo scelse di illustrare la guarigione di Abramo dopo
la sua auto-circoncisione anziché episodi più scontati come il
sacrificio di Isacco o l’Annunciazione, lo fece senza dubbio perché
sapeva che ciò avrebbe suscitato dolorose immedesimazioni da parte dei
conversos, circoncisi anch’essi da adulti. Anche la Torre di Babele di
Mosé da Cortellazzo riporta scene tratte pari pari da Venezia, con i
muratori che issano pile di mattoni con le carrucole nel cantiere di un
campanile molto veneziano. Mosé svolgeva anche un’altra attività come
ritrattista incisore di medaglie per i nobili, la quale lo avrà
certamente condotto fuori dei confini del ghetto. Era in buoni rapporti
con i nobili e con il grande banchiere Meshullam, e questo spiega
almeno in parte perché la sua difesa del falso principe delle Tribù
Perdute, David Reuveni, nel 1523 poté trovare tanto credito nella
comunità ebraica con tendenze messianiche.
Quindi, sì: poteva andare peggio. E forse la nostra commemorazione
dovrebbe misurare i pesi contrapposti, il grado relativo di dolore e di
sollievo, libertà e confinamento, paura e gioia.
Così la pensava una delle più celebri personificazioni della
personalità culturalmente variegata del ghetto di Venezia: il rabbino
Leon Modena. La sua autobiografia, la prima nel suo genere scritta da
un ebreo, è intrisa di tsuris, e la lamentazione comincia dall’inizio,
con la sua nascita podalica subito dopo un terremoto. Leone si paragona
a un nuovo Giobbe e per la verità i motivi non gli mancano: gli
morirono due figli, uno soffocato dai fumi tossici durante un
esperimento alchemico di cui il padre si sentì responsabile, praticando
anch’egli quelle arti (oltre a realizzare e vendere amuleti), un
secondo figlio, Zevulon, dalla voce angelica, fu assassinato davanti
agli occhi del padre da alcuni giovinastri, un terzo figlio visse quasi
continuamente in esilio. La cugina che Leone avrebbe voluto sposare
morì prima di raggiungere la chuppah, la sorella di lei che invece
Leone sposò divenne pazza e anche prima gli rese la vita difficile con
la sua lingua affilata. Chissà, lui qualche volte se lo sarà pure
meritato, essendo un giocatore incallito e incorreggibile pur avendo
pubblicato i suoi consigli contro la febbre del gioco d’azzardo.
Eppure, alla fine, Leon Modena aggiunge peso al versante delle cose
liete, almeno per un aspetto cruciale: quello della musica. Quando, nel
1605, a Ferrara (città che ancora non aveva un ghetto) si tentò di
introdurre “l’arte della musica” – muzika – nelle sinagoghe dove fino a
quel momento era ammesso solo il canto monodico, la proposta fu accolta
con sdegno. Pur non essendo ancora rabbino, Leone aveva scritto un
responso che giustificava la vera “musika” asserendo che la Bibbia ci
parla della sua importanza sia nel santuario sia nel Tempio; la
passione musicale di re David il salmista. La tradizione rabbinica, nel
solco del Salmo 137, “Come avremmo noi cantate le canzoni del Signore
in paese di stranieri?” aveva proibito la musica decretandola non
consona dopo la distruzione del Tempio. Ma, come Leone osservò, c’erano
eccezioni gioiose: Purim, Simchat Torah e, fuori della sinagoga, nelle
case private durante le feste di matrimonio.
Nella sua campagna – perché questo divenne, alla fine – per introdurre
le canzoni nelle scole veneziane dove ogni giorno era chazan nella
sinagoga italiana – Leone ebbe due alleati formidabili: il ricco
mecenate Moshé Sullam e, in modo più strumentale (in tutti i sensi), il
compositore e musicista di corte dei duchi di Mantova Salomone Rossi.
Salomone Ebreo, come era conosciuto a Mantova, fu come tutti sapete il
primo a introdurre lo stile polifonico nella salmodia ebraica – la
raccolta che Leone lo convinse a intitolare Shirim shel Schlomo , I
Canti di Salomone, omaggiava nel titolo il compositore e al tempo si
riallacciava al precedente storico del Primo Tempio. Fu Leone a
organizzare la pubblicazione dei canti a Venezia, fu lui a prendere la
difficile decisione di stamparne i testi ebraici al contrario in modo
da renderli compatibili con il verso della notazione musicale e che
scrisse per essi una prefazione meravigliosamente tranchant in cui
asseriva che “nessuno con un cervello nella testa potrebbe mai
obiettare a che si cantino con canzoni le lodi del Signore in sinagoga.”
Se Leone fosse riuscito a introdurre la musika di Rossi nelle scole non
lo sappiamo con certezza, ma sappiamo che nel 1628 egli fondò una
accademia musicale nel ghetto, dove lavorarono tra gli altri alcuni
musicisti fuggiti dal regime inquisitoriale mantovano che si esibivano
due volte la settimana. Appare dunque molto probabile che la Canzone di
Salomone venisse eseguita per un certo periodo, prima che la Peste si
abbattesse su Venezia ottenebrando numerose fonti di gioia.
Quel che più conta, i musicisti ebrei erano immersi nel mondo, e non
solo nell’angolo di mondo che era il ghetto. Mai era stato possibile
reprimerli. Banchieri, proprietari dei banchi di pegno, venditori di
stracci e dottori non erano gli unici ebrei richiesti nel mondo dei
gentili: in Italia in particolare, c’era sempre stata grande richiesta
di musicisti, attori, intrattenitori e maestri di danza ebrei. A
Mantova il grande Leone di Sommi scriveva drammi per i Gonzaga oltre
che per la propria comunità, e Isacco Masserano, maestro di balletto e
coreografo, escogitava gli elaborati intermezzi per quegli spettacoli.
Lo stesso Leone Modena aveva qualcosa dello showman. Da bambino aveva
appreso l’arte della retorica classica e la impiegò consapevolmente nei
suoi sermoni in italiano, i quali divennero una tappa obbligatoria per
i cristiani in visita al ghetto. Fu questo genere di notorietà, che
travalicava i ponti e i cancelli del ghetto, a portare Leone in
contatto con l’ambasciatore inglese Henry Wootton. Potrebbe essere
stato Wootton a suggerire a Leone di scrivere il suo De ritii ebraici,
una descrizione degli usi e costumi ebraici a beneficio di re Giacomo
I. Quando il libro uscì in francese senza il consenso dell’autore nel
1637, Leone temette di finire nelle carceri dell’Inquisizione. Ma il
libro resistette, accanto a quello di Simone Luzzatto, come il primo
tentativo di liberare il mondo cristiano dalla perenne paranoia
associata alla vita e alla cultura degli ebrei.
La lapide di Leone la potete trovare al cimitero del Lido, salvata
dall’incuria in cui era caduta. Leone morì nel 1649, senza un soldo e
pieno di afflizioni e angosce – come avrebbe potuto essere altrimenti?
Ma io credo che alla fine anch’egli avrebbe detto, a proposito della
vita appena vissuta e di ciò che essa rappresentava, in quanto capace
di trascendere la segregazione del ghetto senza abbandonare il suo
giudaismo essenziale, “poteva andare peggio.”
E se il suo spettro avesse potuto sussurrare nell’orecchio di Gustav
Mahler – di cui stiamo per sentire una sinfonia piena di melodie
ebraiche – nel momento in cui Mahler decise che convertirsi al
cristianesimo con l’idea che la conversione valesse una carriera come
musicista, noi siamo tutti sicuri – non è così? – che a quel giovane
avrebbe detto: “Non farlo”. Amen, a quello, al ricordo di entrambi e a
tutti gli ebrei del ghetto di Venezia.
Simon Schama, storico Leggi
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Venezia e i 500 anni del Ghetto - brugnano
"La Comunità ebraica veneziana
un simbolo di lotta per la libertà"
Ogni
angolo di Venezia racconta una storia. Ma ce ne sono alcuni in cui, più
che in altri, anche le pietre sembrano parlare e raccontare la Storia,
quella con la S maiuscola. Storia di emarginazione ma anche di
riscatto, di separazione ma anche di unione, di morte ma anche di vita.
Il ghetto di Venezia, il più antico del mondo, che oggi compie
cinquecento anni, è uno di questi luoghi.
Sono passati infatti cinque secoli da quel 29 marzo 1516, quando il
Senato Veneziano decretò che tutti gli ebrei dovevano abitare uniti in
una zona recintata e sorvegliata di Venezia, che all’epoca ospitava
concerie e fonderie.
Luigi Brugnaro, sindaco di Venezia Leggi
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Ticketless
- Monastero Bormida |
Non
solo Bassani. Nel 2016 cade un altro centenario che rischia di essere
poco meditato: Augusto Monti. Se io fossi sindaco di Monastero Bormida,
sua città natale, chiederei al governo di applicare la par condicio dei
beni culturali: se a Predappio si vuol far nascere un Museo del
Fascismo, Monastero Bormida si candida per un nascituro Museo
dell’Antifascismo. Resta da chiedersi perché si conoscano così poco i
suoi libri. L’editore che li ha in catalogo (info@arabafenicelibri.it)
organizza un percorso nei luoghi montiani che si snoderà fra le Langhe,
la Torino del Liceo D’Azeglio, e i luoghi del confino per chiudersi il
4 luglio a Roma. I primi ad avere un debito nei confronti di Augusto
Monti siamo proprio noi, ma la memoria ebraica italiana è sovente
miope.
Alberto Cavaglion
Leggi
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Periscopio - Testimoniare la fede
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Ho
letto con grande attenzione il testo del documento recentemente redatto
dalla Commissione pontificia per i rapporti con l’ebraismo, intitolato
“Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili (Rm 11,29).
Riflessioni su questioni teologiche attinenti alle relazioni
cattolico-ebraiche in occasione del 50° Anniversario di “Nostra Aetate
(n.4)”, e anche l’attento e analitico commento allo stesso riservato da
Rav Riccardo Di Segni, pubblicato sul numero di marzo di Pagine
Ebraiche (che mette in luce, uno per uno, quelli che paiono come
elementi apprezzabili e positivi del testo, e anche le persistenti zone
di ambiguità o reticenza).
Francesco Lucrezi, storico
Leggi
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