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30 marzo 2016 - 20 Adar II 5776
PAGINE EBRAICHE 24

ALEF / TAV DAVAR PILPUL

alef/tav
David
Sciunnach,
rabbino
“Moshè parlò ad Aròn, a Elazàr e a Itamar, i suoi figli superstiti...” (Vaikrà 10, 12). Ha detto a proposito di questo verso il grande commentatore Baàl ‘Avnè Nezer, il Santo Benedetto Egli Sia, si avvicina a coloro che si sentono inutili. Ecco che Elazàr e Itamar erano persone molto umili e vedevano loro stessi come inutili, ed è proprio per questa caratteristica che rimasero in vita.
 
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Davide
Assael,
ricercatore
Lo stallo della Spagna, da 100 giorni senza un governo, è un ulteriore segno della difficoltà che sta vivendo il modello democratico, sempre più incline a trasformarsi in un sistema a campagna elettorale permanente. Così negli Stati Uniti, dove abbiamo assistito all’incredibile, e fino a poco tempo fa inimmaginabile, ascesa dell’impresentabile Donald Trump. Per proseguire, appunto, con l’Europa, dove la democrazia sta dando ragione ai suoi critici, da sempre convinti della sua incapacità di gestire momenti di instabilità.
 
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I 500 anni del Ghetto
“Riflessione attuale”
“Non si tratta di una festa, naturalmente, ma è l’anniversario di un importante avvenimento storico, della nascita di un luogo e di una definizione che poi hanno trasceso l’epoca e la località geografica trasformandosi in una metafora globale. È una straordinaria occasione per riflettere su cinque secoli di storia legati al concetto di ghetto, e anche sui ghetti fisici, sociologici e mentali dei nostri tempi”. Così Shaul Bassi racconta al Corriere la sfida delle molte iniziative messe in campo per il Cinquecentenario del Ghetto di Venezia.
Ieri l’avvio di un fitto calendario di impegni, tra Ateneo Veneto e Teatro La Fenice. E anche la visita in Ghetto della presidente della Camera dei deputati Laura Boldrini, accolta dal presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna e dal presidente della Comunità ebraica veneziana Paolo Gnignati. “Voglio subito sgombrare il campo da possibili equivoci e riaffermare con forza che gli ebrei non hanno alcuna nostalgia del ghetto, la cui istituzione deve essere ricordata e studiata, ma non festeggiata e celebrata” ha detto ieri Gattegna alla Fenice.
Sul Corriere si parla anche del “bel dossier” curato da Ada Treves su Pagine Ebraiche di marzo in cui si dà voce ai molti protagonisti di queste giornate.

È iniziata ieri la missione in Israele del leader leghista Matteo Salvini, accompagnato dai due vicesegretari federali Giorgetti e Fontana e dal capogruppo della Lega in commissione Esteri Gianluca Pini “Una missione saltata nel dicembre scorso e riproposta oggi. Perché Salvini ci tiene molto ad Israele, al suo ‘modello di convivenza nel rispetto dell’ordine e della legalità’ e perché Israele – scrive Repubblica – dimostra di voler conoscere questo quarantenne che parla il linguaggio dei falchi al governo”.
 
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  davar
Venezia e i 500 anni del Ghetto
Una giornata indimenticabile
La visita della presidente della Camera nel quartiere ebraico, nel museo, nelle meravigliose sinagoghe che hanno reso quei pochi metri quadrati uno dei luoghi più conosciuti al mondo. L’affollata presentazione del libro Venezia e il Ghetto, della professoressa Donatella Calabi, nella cornice dell’Ateneo Veneto. Il concerto al Teatro La Fenice, segnato dall’esecuzione della prima sinfonia di
Gustav Mahler e da una memorabile lezione dello storico Simon Schama. Grande intensità di eventi e occasioni di incontro per la giornata di avvio delle iniziative per il Cinquecentenario del Ghetto della città lagunare.
“Le società basate sui ghetti hanno generato atrocità. Noi dobbiamo valorizzare le minoranze e capire che c’è un patrimonio che arricchisce tutti, lavorando per l’inclusione sociale, il rispetto reciproco, l’abbattimento di quel senso di radicalizzazione che sta emergendo in molte società europee” dice Laura Boldrini all’ingresso del quartiere, dove ad accoglierla trova il presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna e il presidente della Comunità ebraica veneziana Paolo Gnignati.
La delegazione visita i luoghi più significativi della presenza ebraica in città. Si informa, domanda, interagisce con alcuni protagonisti della vita comunitaria. E resta senza fiato davanti ai preziosi argenti del museo, al fascino delle sinagoghe veneziane. Partecipano tra gli altri alla visita il rabbino capo Scialom Bahbout, il vicepresidente dell’Unione Roberto Jarach, l’assessore UCEI Noemi Di Segni, il segretario generale Gloria Arbib, il presidente del concistoro degli ebrei di Francia Joel Mergui.
Pochi minuti e all’Ateneo Veneto, gremito in ogni ordine di posto, la grande sfida culturale della mostra “Venezia, gli Ebrei e l’Europa. 1516- 2016” che si aprirà in giugno a Palazzo Ducale e che costituisce uno degli appuntamenti più attesi di questo 2016 prende forma nelle pagine del libro scritto dalla sua curatrice. A presentare l’opera sono il presidente dell’Ateneo Veneto Guido Zucconi, il presidente della Fondazione Beni Culturali Ebraici in Italia Dario Disegni e i giornalisti Stefano Jesurum e Paolo Rumiz.
Dall’altra parte della piazza si aprono le porte della Fenice, al cui interno si raccolgono un migliaio di persone. Rappresentanti delle istituzioni, leader ebraici, i fortunati che sono riusciti a ottenere un ingresso. “Quei cancelli ci interrogano su cosa significhi condividere, o non condividere, lo spazio urbano: viverci insieme o viverci separati?” la domanda che è centrale nella riflessione di Schama, ospite d’onore della serata.
Quale la sfida, quale il messaggio quindi di questo Cinquecentenario? “Siamo ben consapevoli che si tratta di una ricorrenza non certo lieta ma che, tanto in una prospettiva ebraica che civile, non si può lasciar passare inosservata, perché offre uno straordinario momento di riflessione che guarda tanto al passato che al futuro” dice il presidente Gnignati aprendo l’evento. Sulla stessa lunghezza d’onda il presidente UCEI Gattegna, che afferma: “Il ghetto è un tema antico, ma purtroppo ancora molto attuale. Non è tanto o soltanto uno spazio fisico, un quartiere con le sue strade, le sue piazze e i suoi confini, ma concettualmente è l’archetipo di ogni forma di esclusione, di isolamento, di indifferenza, di rifiuto estremo e totale dell’altro, del diverso o presunto tale, spesso a causa di consolidati pregiudizi”.
“La creatività fu la risposta alla segregazione” ricorda il presidente del World Jewish Congress Ronald Lauder, che elogia inoltre l’importante storia “di reazione” e “di resilienza” testimoniata dagli ebrei veneziani. C’è oggi il rischio di nuovi ghetti? Per il sindaco Luigi Brugnaro “Venezia ha anticorpi forti, culturali e sociali: è incrocio di
culture”.
A introdurre gli ospiti sul palco è Viviana Kasam, che dà anche il via alla magistrale prova dell’orchestra diretta dall’israeliano Omer Meir Wellber (nell'immagine a sinistra).
Cinquantacinque minuti di grande intensità. E un lungo applauso finale a suggello di una giornata indimenticabile
.

(Nelle immagini, dall’alto in basso, Simon Schama sfoglia il dossier di Pagine Ebraiche assieme ad Ada Treves - a sinistra-, al loro fianco, Simon Levis Sullam, Paolo Navarro, Donatella Calabi e Paolo Navarro - foto di Michele Levis; l’ingresso della presidente della Camera Laura Boldrini in Ghetto, accolta dal presidente UCEI Renzo Gattegna e dal presidente della Comunità ebraica veneziana Paolo Gnignati; il pubblico in sala al Teatro La Fenice)
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Venezia e i 500 anni del ghetto 
L'Italia ebraica, fra storia e note
Venezia, Campo San Fantin: dall’accalcarsi della folla che la pur grande sala dell’Ateneo Veneto non ha potuto contenere in occasione della presentazione di Venezia e il ghetto si è passati nel giro di neppure due ore al fruscio degli abiti lunghi. Erano già percepibili sin dal mattino la grande attesa e le aspettative che hanno portato ieri un pubblico un po’ diverso dal solito nel sestiere San Marco, il più turistico di Venezia. La coda davanti alla Fenice attraversava tutto il campo San Fantin già prima dell’apertura della biglietteria, dove per tutta la giornata il personale del teatro e del Comitato VeniceGhetto500 si è occupata dei tanti ospiti che vi giungevano per ritirare gli inviti ed avere informazioni. La sicurezza, che ha presidiato l’area prima discretamente e poi con una presenza massiccia ha visto decine e decine di persone arrivare alla spicciolata in quello che per alcune ore si è trasformato in uno scenografico e affollato salotto dell’ebraismo italiano. Così affollato, in effetti, che in molti non sono neppure riusciti ad entrare nella pur grade sala dell’Ateneo Veneto, dove Paolo Rumiz, Dario Disegni e Stefano Jesurum hanno presentato, insieme all’autrice, Venezia e il ghetto (Bollati-Boringhieri), il volume che la storica veneziana Donatella Calabi (nell'immagine al fianco di Dario Disegni) ha dedicato al “Recinto degli ebrei”.
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Venezia e i 500 anni del Ghetto – schama
"Il giudizio storico più ebraico?
Avrebbe potuto andarci peggio"

La Storia non è sempre un viaggio nella memoria. A volte un evento che pensiamo di esserci lasciati alle spalle in una particolare epoca o in un particolare luogo – per esempio questa città, il 29 marzo 1516, il decreto del senato che confina gli ebrei nell’insula del geto nuovo, questo momento preciso, molla gli ormeggi che lo legano a mezzo millennio fa e va a schiantarsi contro il nostro presente a rischio, dove ci trova immersi in una riflessione urgente e inevitabile sul che cosa significhi condividere, o non condividere, lo spazio urbano: viverci insieme o viverci separati?
E poi ci rendiamo conto, ancora una volta, che non sempre la storia si comporta nel modo ordinato richiesto dai professori, non sempre è disposta a lasciar trasporre ordinatamente il proprio caos nella sequenza di pagine di un libro, gli eventi obbedientemente in fila uno dopo l’altro. Se c’è una cosa che dovremmo avere capito del nostro tempo, è che fenomeni dissociati, all’apparenza lontani secoli l’uno dall’altro, posso coesistere simultaneamente, adattandosi l’uno all’altro, nutrendosi l’uno dell’altro. Internet può resuscitare dalla tomba ideologie zombie come il califfato o i “crociati”, annullando la differenza tra fatto e finzione, riportandole in vita armate fino ai denti, ad uso del mondo moderno. Proprio come la stampa dotò l’alchimia di un pubblico di lettori, così la rete è al tempo stesso fattuale e immaginifica, globale del punto di vista tecnico ma tribale da quello culturale. Agli occhi degli storici autenticamente contemporanei un universo Einsteiniano fatto di tempo ricurvo appare molto più credibile di un traiettoria seriale che trascina irreversibilmente l’umanità dal primitivismo verso il progresso.
A mio parere la modernizzazione di antiche barbarie, l’idea che il ghetto sia qualcosa che ci appartiene adesso tanto quanto ci apparteneva cinquecento anni fa sarebbe inevitabile anche a prescindere dalla recente strage di Bruxelles: una cosmopoli eterogenea e mercantile proprio come la Venezia cinquecentesca – operando la sua distruzione proprio nei luoghi dove le persone si recano per muoversi per l’organismo libero della città, tra partenze e arrivi uniti dall’innocente certezza di un esito. Che cosa c’è al cuore di questo orrore, infatti, se non la possibilità, o l’impossibilità, della coabitazione; la condivisione dello spazio urbano da parte di comunità dissimili per credo, lingua, usanze, gruppi devoti più che ad ogni altra cosa alla eterogeneità del quotidiano, alla lotta al tribalismo, al principio di condividere il territorio senza paranoie, senza la necessità di suonare le campane, serrare i cancelli, chiudere a chiave il ghetto quando il sole cala sulla laguna.
Perdonate questo sospirare ebraico, mentre siamo immersi nella consolatoria bellezza della Fenice, ma dopo tutto, signore e signori, che tipo di commemorazione è quella di stasera? Il compiacimento collettivo non sembra proprio la cosa giusta, non trovate? A meno che noi non vogliamo compiacentemente dare per scontato che ciò che avvenne nel 1516 non potrebbe mai accadere oggi. Ma è così? (Giusto l’altro giorno uno dei candidati repubblicani alla nomina di Presidente degli Stati Uniti, Ted Cruz, ha reagito alle notizie provenienti da Bruxelles raccomandando pattugliamenti e sorveglianza della polizia nei quartieri musulmani delle città americane fino a, per usare le sua parole, “metterle in sicurezza”, neanche fosse un ufficiale dell’esercito che parla di Falujah. Quelle pattuglie che cosa dovrebbero controllare? Che la lunghezza delle barbe non superi pericolosamente il limite consigliato?)
È evidente: non siamo qui a celebrare un decreto che descrive gli ebrei come gente capace “di molte cose detestabili, a gravissima offesa di Dio e contro l’onore della Repubblica Veneziana”, e reputò necessario il relegarli in una piccola insula urbana affinché di notte non potessero seminare zizzania o contagi nella città cristiana. Eppure, come è stato detto infinite volte, per gli standard delle calamità ebraiche non si trattò di una totale catastrofe, giusto il solito ripasso della deumanizzazione: distintivi e berrette per distinguere gli ebrei, divieto di possedere immobili o assumere servitù cristiana, il divieto (nei primi decenni) di erigere sinagoghe o di professare apertamente cerimonie e festività, la routine quotidiana della chiusura e dell’apertura di ponti e cancelli come in un carcere a cielo aperto.
Non potrebbe esserci un giudizio storico più ebraico (da accompagnare con una scrollata di spalle) di: “poteva andare peggio”. Il ghetto di Venezia era pensato in modo da far stare gli ebrei al loro posto, in tutti i sensi, ma a quella consapevolezza in teoria doveva accompagnarsi anche un elemento di continuità, persino di stabilità. Dopo il 1538 fu possibile costruire delle sinagoghe, seppure molto modeste, ma tutte le condotte continuarono a dover essere rinnovate, sotto la minaccia di espulsione.
“Poteva andare peggio ” e andò peggio nella Roma di Giulio III, dove il Talmud fu condannato e bruciato – un autodafé al quale non sfuggirono nemmeno le stamperie veneziane. E fu ancora peggio sotto il pontificato di Paolo IV, quando gli ebrei di Roma, una comunità naturalmente più antica di quella cristiana, furono sradicati da Trastevere e cacciati di là del ponte inizialmente in una unica strada a loro assegnata, nella zona fangosa e spesso allagata oltre che insalubre, addossata all’argine tiberino. La mostruosa bolla Cum Nimis Absurdum, promulgata nel 1555 durante le prime settimane di pontificato di Paolo IV, riaccese l’antico terrore espresso da Giovanni Crisostomo ad Antiochia nel IV secolo e poi riesumato dal Concilio Laterano IV nel 1215 da Innocenzo III: quello di una qualsiasi commistione fisica tra ebrei e cristiani, con gli ebrei che si aggiravano nei quartieri dei cristiani, sui loro luoghi di lavoro e persino, in veste di dottori, nelle loro case, tra i loro corpi. Eredi, collettivamente e per tutta l’eternità, della colpa derivante dal crimine commesso contro il Salvatore, essi dovevano essere per sempre degradati e visibilmente stigmatizzati, a loro doveva essere impedito di ammorbare moralmente e sessualmente la popolazione… da qui la necessità di renderli pubblicamente riconoscibili per mezzo di quei distintivi e di quelle berrette, preferibilmente dello stesso colore utilizzato per marcare le professioni infamanti come la prostituzione. Paolo IV tentò persino di proibire che medici ebrei curassero pazienti cristiani, ma l’iniziativa ebbe scarso successo persino nella peggiore morsa controriformistica. Nell’elenco delle umiliazioni veneziane non c’è nulla di paragonabile alle gare di ebrei disputate, dall’epoca di Papa Paolo II nel 1466 fino a quella di Clemente IX due secoli dopo, durante il carnevale romano: gare durante le quali nel freddo e nel fango di febbraio si costringevano otto ebrei a correre seminudi, per il divertimento della folla che li ricopriva di insulti e frutta marcia, dopo averli ingozzati a forza prima della gara affinché scivolassero e vomitassero durante il percorso.
Poteva decisamente andare peggio.
Il ghetto di Venezia non fu sotto l’egida del fanatismo o della paranoia, ma fu il risultato di un lucido pragmatismo – il modus operandi caratteristico della Repubblica. C’era bisogno degli ebrei per far funzionare i banchi di pegno e per gestire l’ondata crescente di poveri prodotta alla guerra della Lega di Cambrai. Gli ebrei vivevano già in terraferma e nello Stato da Mar, venendo a Venezia per brevi periodi senza però potersi avvicinare, come residenti, oltre Mestre. Dopo Cambrai si rese necessaria una maggiore continuità, purché gli ebrei concedessero prestiti ai cristiani; nacque da qui la volontà, nel 1516, di concedere loro la residenza per un certo numero di anni (inizialmente 5,) rinegoziabili, e sottoponendoli a regole severe, tra cui l’isolamento urbano, su quello che era stato un tempo il terreno di risulta dell’antica fonderia di rame, poi un’area di baracche di pescatori, poi di casupole di tessitori, poi una zona di speculazione edilizia e infine un ghetto chiuso da cancelli.
Come tutti gli storici hanno osservato, tuttavia, si trattò di un isolamento socialmente e culturalmente poroso. Di giorno alcuni ebrei uscivano per esercitare le professioni di medico, maestro di danza o musicista, mentre i cristiani entravano come artigiani, facchini o domestici (nonostante il divieto). In alcuni periodi specifici dell’anno – Purim con gli spettacoli del purimshpiel, o la musica e le danze di Simchat Torah – lo spazio del Ghetto si affollava di visitatori cristiani. Esistevano persino normali imprese culturali. Dopo l’interdizione papale che vietava agli ebrei di stampare i propri libri sacri in ebraico, stampatori cristiani come Daniel Bomberg (il quale già nel 1516 aveva stampato il Mikraot Gedolot, un’autorevole edizione della Bibbia in ebraico con relativi commentari rabbinici) presero in mano la pubblicazione dei libri del Talmud. Anche alcune delle più grandi dinastie patrizie della città – i Giustinian e ancora di più i Bragadin – divennero editori di libri ebraici dotti e sacri. Prima della Controriforma, durante il periodo dei papi umanisti, si era creata una naturale convergenza tra l’interesse dei cristiani per l’ebraico e la volontà di rabbini ed eruditi ebrei di impartirlo (consci, questi ultimi, del fatto che l’entusiasmo cattolico altro non era se non un prolungamento del loro anelito di conversione). L’amicizia più sorprendente fu quella tra il Cardinale Egidio Antonini di Viterbo ed Elia Levita Bahur, saggio kabbalista e autore Yiddish di Bovo Bukh: dopo che gli ebbero distrutto la biblioteca, Bahur ricevette l’invito a trasferirsi con la famiglia nel palazzo del cardinale – cosa che fece, abitandoci per oltre un decennio. Quando il Sacco di Roma pose fine a quella straordinaria coabitazione, Elia Levita Bahur si trasferì nuovamente e Venezia, dove continuò la sua attività di insegnante di ebraico fuori e dentro il ghetto, e di correttore di bozze. Egli contribuì all’esodo dell’epoca portando a Venezia coloro ai quali una ferocia sempre più inquisitoriale rendeva difficile rimanere a Roma.
Chissà quanti, in quei primi decenni, vissero una vita dentro-e-fuori-del Ghetto. Uno di loro fu certamente il pittore e illustratore biblico Mosè da Castellazzo, specializzato nell’illustrare variazioni midrashiche di temi biblici, molte delle quali rivolte in particolare ai Marrani che riabbracciavano la religione ebraica. Quando Mosé da Castellazzo scelse di illustrare la guarigione di Abramo dopo la sua auto-circoncisione anziché episodi più scontati come il sacrificio di Isacco o l’Annunciazione, lo fece senza dubbio perché sapeva che ciò avrebbe suscitato dolorose immedesimazioni da parte dei conversos, circoncisi anch’essi da adulti. Anche la Torre di Babele di Mosé da Cortellazzo riporta scene tratte pari pari da Venezia, con i muratori che issano pile di mattoni con le carrucole nel cantiere di un campanile molto veneziano. Mosé svolgeva anche un’altra attività come ritrattista incisore di medaglie per i nobili, la quale lo avrà certamente condotto fuori dei confini del ghetto. Era in buoni rapporti con i nobili e con il grande banchiere Meshullam, e questo spiega almeno in parte perché la sua difesa del falso principe delle Tribù Perdute, David Reuveni, nel 1523 poté trovare tanto credito nella comunità ebraica con tendenze messianiche.
Quindi, sì: poteva andare peggio. E forse la nostra commemorazione dovrebbe misurare i pesi contrapposti, il grado relativo di dolore e di sollievo, libertà e confinamento, paura e gioia.
Così la pensava una delle più celebri personificazioni della personalità culturalmente variegata del ghetto di Venezia: il rabbino Leon Modena. La sua autobiografia, la prima nel suo genere scritta da un ebreo, è intrisa di tsuris, e la lamentazione comincia dall’inizio, con la sua nascita podalica subito dopo un terremoto. Leone si paragona a un nuovo Giobbe e per la verità i motivi non gli mancano: gli morirono due figli, uno soffocato dai fumi tossici durante un esperimento alchemico di cui il padre si sentì responsabile, praticando anch’egli quelle arti (oltre a realizzare e vendere amuleti), un secondo figlio, Zevulon, dalla voce angelica, fu assassinato davanti agli occhi del padre da alcuni giovinastri, un terzo figlio visse quasi continuamente in esilio. La cugina che Leone avrebbe voluto sposare morì prima di raggiungere la chuppah, la sorella di lei che invece Leone sposò divenne pazza e anche prima gli rese la vita difficile con la sua lingua affilata. Chissà, lui qualche volte se lo sarà pure meritato, essendo un giocatore incallito e incorreggibile pur avendo pubblicato i suoi consigli contro la febbre del gioco d’azzardo.
Eppure, alla fine, Leon Modena aggiunge peso al versante delle cose liete, almeno per un aspetto cruciale: quello della musica. Quando, nel 1605, a Ferrara (città che ancora non aveva un ghetto) si tentò di introdurre “l’arte della musica” – muzika – nelle sinagoghe dove fino a quel momento era ammesso solo il canto monodico, la proposta fu accolta con sdegno. Pur non essendo ancora rabbino, Leone aveva scritto un responso che giustificava la vera “musika” asserendo che la Bibbia ci parla della sua importanza sia nel santuario sia nel Tempio; la passione musicale di re David il salmista. La tradizione rabbinica, nel solco del Salmo 137, “Come avremmo noi cantate le canzoni del Signore in paese di stranieri?” aveva proibito la musica decretandola non consona dopo la distruzione del Tempio. Ma, come Leone osservò, c’erano eccezioni gioiose: Purim, Simchat Torah e, fuori della sinagoga, nelle case private durante le feste di matrimonio.
Nella sua campagna – perché questo divenne, alla fine – per introdurre le canzoni nelle scole veneziane dove ogni giorno era chazan nella sinagoga italiana – Leone ebbe due alleati formidabili: il ricco mecenate Moshé Sullam e, in modo più strumentale (in tutti i sensi), il compositore e musicista di corte dei duchi di Mantova Salomone Rossi. Salomone Ebreo, come era conosciuto a Mantova, fu come tutti sapete il primo a introdurre lo stile polifonico nella salmodia ebraica – la raccolta che Leone lo convinse a intitolare Shirim shel Schlomo , I Canti di Salomone, omaggiava nel titolo il compositore e al tempo si riallacciava al precedente storico del Primo Tempio. Fu Leone a organizzare la pubblicazione dei canti a Venezia, fu lui a prendere la difficile decisione di stamparne i testi ebraici al contrario in modo da renderli compatibili con il verso della notazione musicale e che scrisse per essi una prefazione meravigliosamente tranchant in cui asseriva che “nessuno con un cervello nella testa potrebbe mai obiettare a che si cantino con canzoni le lodi del Signore in sinagoga.”
Se Leone fosse riuscito a introdurre la musika di Rossi nelle scole non lo sappiamo con certezza, ma sappiamo che nel 1628 egli fondò una accademia musicale nel ghetto, dove lavorarono tra gli altri alcuni musicisti fuggiti dal regime inquisitoriale mantovano che si esibivano due volte la settimana. Appare dunque molto probabile che la Canzone di Salomone venisse eseguita per un certo periodo, prima che la Peste si abbattesse su Venezia ottenebrando numerose fonti di gioia.
Quel che più conta, i musicisti ebrei erano immersi nel mondo, e non solo nell’angolo di mondo che era il ghetto. Mai era stato possibile reprimerli. Banchieri, proprietari dei banchi di pegno, venditori di stracci e dottori non erano gli unici ebrei richiesti nel mondo dei gentili: in Italia in particolare, c’era sempre stata grande richiesta di musicisti, attori, intrattenitori e maestri di danza ebrei. A Mantova il grande Leone di Sommi scriveva drammi per i Gonzaga oltre che per la propria comunità, e Isacco Masserano, maestro di balletto e coreografo, escogitava gli elaborati intermezzi per quegli spettacoli. Lo stesso Leone Modena aveva qualcosa dello showman. Da bambino aveva appreso l’arte della retorica classica e la impiegò consapevolmente nei suoi sermoni in italiano, i quali divennero una tappa obbligatoria per i cristiani in visita al ghetto. Fu questo genere di notorietà, che travalicava i ponti e i cancelli del ghetto, a portare Leone in contatto con l’ambasciatore inglese Henry Wootton. Potrebbe essere stato Wootton a suggerire a Leone di scrivere il suo De ritii ebraici, una descrizione degli usi e costumi ebraici a beneficio di re Giacomo I. Quando il libro uscì in francese senza il consenso dell’autore nel 1637, Leone temette di finire nelle carceri dell’Inquisizione. Ma il libro resistette, accanto a quello di Simone Luzzatto, come il primo tentativo di liberare il mondo cristiano dalla perenne paranoia associata alla vita e alla cultura degli ebrei.
La lapide di Leone la potete trovare al cimitero del Lido, salvata dall’incuria in cui era caduta. Leone morì nel 1649, senza un soldo e pieno di afflizioni e angosce – come avrebbe potuto essere altrimenti? Ma io credo che alla fine anch’egli avrebbe detto, a proposito della vita appena vissuta e di ciò che essa rappresentava, in quanto capace di trascendere la segregazione del ghetto senza abbandonare il suo giudaismo essenziale, “poteva andare peggio.”
E se il suo spettro avesse potuto sussurrare nell’orecchio di Gustav Mahler – di cui stiamo per sentire una sinfonia piena di melodie ebraiche – nel momento in cui Mahler decise che convertirsi al cristianesimo con l’idea che la conversione valesse una carriera come musicista, noi siamo tutti sicuri – non è così? – che a quel giovane avrebbe detto: “Non farlo”. Amen, a quello, al ricordo di entrambi e a tutti gli ebrei del ghetto di Venezia.

Simon Schama, storico
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Venezia e i 500 anni del Ghetto – Gattegna 
“Questa non è una celebrazione ma un'occasione per riflettere”
Come ho già avuto modo di affermare in altre occasioni, voglio subito sgombrare il campo da possibili equivoci e riaffermare con forza che gli ebrei non hanno alcuna nostalgia del ghetto, la cui istituzione deve essere ricordata e studiata, ma non festeggiata e celebrata.
L’istituzione del ghetto di Venezia, e di tutti gli altri che sono stati creati successivamente, rimane indissolubilmente legata ad epoche di vessazioni e segregazioni, di negazione dei più elementari diritti civili e politici e di un secolare disprezzo, insegnato e praticato nei confronti delle civili, pacifiche e indifese comunità ebraiche.

Renzo Gattegna,
presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
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Venezia e i 500 anni del Ghetto – Gnignati
“Un luogo di vita e solidarietà anche di fronte all'oppressione”
Ci ritroviamo oggi, in questo Teatro simbolo di Venezia, situato a pochi metri da San Marco e da Palazzo ducale, luogo di esercizio del potere della Repubblica a distanza di 500 anni esatti dalla istituzione da parte della Serenissima, il 29 marzo 1516, del Ghetto di Venezia come luogo di dimora coatta degli Ebrei.
Siamo ben consapevoli che si tratta di una ricorrenza non certo lieta ma che, tanto in una prospettiva ebraica che civile, non si può lasciar passare inosservata, perché offre uno straordinario momento di riflessione che guarda tanto al passato che al futuro.

Paolo Gnignati, presidente della Comunità ebraica di Venezia
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Venezia e i 500 anni del Ghetto – Lauder 
“La condizione di segregazione
non fermò la creatività ebraica”

Oggi è per me un grande onore essere qui a Venezia come portavoce delle comunità ebraiche di tutto il mondo. Desidero ringraziare il Governo italiano, il Comune di Venezia e la Comunità ebraica per il caloroso benvenuto e per avere organizzato questo importante evento. Ma più di ogni altra cosa vi voglio ringraziare perché ricordate. Non è facile ricordare gli avvenimenti del passato e le azioni compiute nel passato che erano sbagliate. Provocano in noi un senso di imbarazzo. È naturale, per tutti gli esseri umani.

Ronald Lauder, presidente del World Jewish Congress
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Venezia e i 500 anni del Ghetto - brugnano
"La Comunità ebraica veneziana
un simbolo di lotta per la libertà"

Ogni angolo di Venezia racconta una storia. Ma ce ne sono alcuni in cui, più che in altri, anche le pietre sembrano parlare e raccontare la Storia, quella con la S maiuscola. Storia di emarginazione ma anche di riscatto, di separazione ma anche di unione, di morte ma anche di vita. Il ghetto di Venezia, il più antico del mondo, che oggi compie cinquecento anni, è uno di questi luoghi.
Sono passati infatti cinque secoli da quel 29 marzo 1516, quando il Senato Veneziano decretò che tutti gli ebrei dovevano abitare uniti in una zona recintata e sorvegliata di Venezia, che all’epoca ospitava concerie e fonderie.

Luigi Brugnaro, sindaco di Venezia
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pilpul
Ticketless - Monastero Bormida
Non solo Bassani. Nel 2016 cade un altro centenario che rischia di essere poco meditato: Augusto Monti. Se io fossi sindaco di Monastero Bormida, sua città natale, chiederei al governo di applicare la par condicio dei beni culturali: se a Predappio si vuol far nascere un Museo del Fascismo, Monastero Bormida si candida per un nascituro Museo dell’Antifascismo. Resta da chiedersi perché si conoscano così poco i suoi libri. L’editore che li ha in catalogo (info@arabafenicelibri.it) organizza un percorso nei luoghi montiani che si snoderà fra le Langhe, la Torino del Liceo D’Azeglio, e i luoghi del confino per chiudersi il 4 luglio a Roma. I primi ad avere un debito nei confronti di Augusto Monti siamo proprio noi, ma la memoria ebraica italiana è sovente miope.

Alberto Cavaglion
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Periscopio - Testimoniare la fede
Ho letto con grande attenzione il testo del documento recentemente redatto dalla Commissione pontificia per i rapporti con l’ebraismo, intitolato “Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili (Rm 11,29). Riflessioni su questioni teologiche attinenti alle relazioni cattolico-ebraiche in occasione del 50° Anniversario di “Nostra Aetate (n.4)”, e anche l’attento e analitico commento allo stesso riservato da Rav Riccardo Di Segni, pubblicato sul numero di marzo di Pagine Ebraiche (che mette in luce, uno per uno, quelli che paiono come elementi apprezzabili e positivi del testo, e anche le persistenti zone di ambiguità o reticenza).

Francesco Lucrezi, storico
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