Periscopio
Rendere testimonianza

lucrezi Ho letto con grande attenzione il testo del documento recentemente redatto dalla Commissione pontificia per i rapporti con l’ebraismo, intitolato “Perché i doni e la chiamata di Dio sono irrevocabili (Rm 11,29). Riflessioni su questioni teologiche attinenti alle relazioni cattolico-ebraiche in occasione del 50° Anniversario di “Nostra Aetate (n.4)”, e anche l’attento e analitico commento allo stesso riservato da Rav Riccardo Di Segni, pubblicato sul numero di marzo di Pagine Ebraiche (che mette in luce, uno per uno, quelli che paiono come elementi apprezzabili e positivi del testo, e anche le persistenti zone di ambiguità o reticenza). Il mio giudizio, nel complesso, è che non si possa negare agli estensori del documento uno spirito di generale amicizia e buona volontà nei confronti dell’ebraismo, che pare esplicito fin dal titolo (che, com’è noto, è quello soprattutto destinato a restare nel tempo).
Nel merito, a mio avviso, il contenuto del documento va distinto su due piani diversi: uno strettamente teologico, l’altro riguardante l’atteggiamento che la Chiesa e i cristiani sono chiamati ad avere nei confronti degli ebrei.
Sul primo piano, si afferma con chiarezza che il dono dell’elezione fatto da Dio al popolo di Israele è “irrevocabile”, e la Chiesa non lo disconosce. Ciò nonostante, però, la risposta a tale chiamata, intesa come semplice fedeltà alla Torah, è insufficiente per la Salvezza, perché questa si può avere esclusivamente tramite Cristo, e non possono esistere “due vie parallele per la Salvezza”, e anche gli ebrei saranno dunque salvati “attraverso Cristo”. Ma come potranno essere salvati, se non lo riconoscono? Questo non si può sapere, perché resta consegnato alla sfera del mistero.
Sul secondo piano, si stabilisce che “la Chiesa cattolica non conduce né incoraggia alcuna missione istituzionale rivolta specificamente agli ebrei”. Dunque, nessun proselitismo “istituzionale”. Ma, ciò detto, “i cristiani sono chiamati a rendere testimonianza della loro fede in Gesù Cristo anche davanti agli ebrei”, sia pure “con umiltà e sensibilità”. Se, e in che misura, ciò significhi un invito o un’autorizzazione verso forme di proselitismo “a titolo individuale”, non è chiarito.
Per quanto riguarda il primo livello, ritengo che la Chiesa si sia già spinta abbastanza avanti, e sarebbe una forzatura pretendere di più. Se, nell’ottica ecclesiastica, Cristo è il salvatore di tutti gli uomini, è naturale che non possano essere concepite eccezioni. Se si dà una “via parallela” per gli ebrei, perché non darla poi anche per i musulmani, per gli induisti ecc.? Ma poi, francamente, si tratta forse di questione attinente al dialogo ebraico-cristiano? Secondo me no, è una questione strettamente interna al credo cattolico, riguarda esclusivamente chi si riconosce nella Chiesa e nella dottrina cattolica. Argomento del dialogo, a mio avviso, non è, o non dovrebbe essere, la fede di ciascuno – che non può essere sottoposta a condizionamenti dall’esterno, o a iniziative di carattere ‘diplomatico’ -, ma solo il piano dei rapporti interpersonali tra i seguaci di religioni diverse, il modo in cui essi devono comportarsi gli uni verso gli altri. È questo, e soltanto questo, che importa. A me, come non credente, non dà nessun fastidio sapere che qualcuno pensi che io, in quanto tale, sono condannato a bruciare all’Inferno, così come mi lascia altrettanto indifferente che si pensi che andrò comunque in Paradiso. Sono cose che non mi riguardano minimamente, mentre mi riguarderebbe molto se le persone che pensano queste cose su di me venissero da me, non invitate, per minacciarmi, colpirmi, perdonarmi, compatirmi, abbracciarmi ecc. ecc. È solo questo che mi interessa. E quanto agli ebrei, che cosa, nei millenni, li ha fatti soffrire: che i cristiani abbiano “pensato” che sarebbero stati dannati, o che li abbiano concretamente cercati e presi, uno per uno, per “salvarli”, o per anticipare qui in terra la loro dannazione?
Si potrebbe obiettare, a un tale discorso, che chi disprezza sul piano teologico è poi portare ad agire con violenza sul piano pratico, mentre chi ama si comporta invece in modo amichevole. Ma a una simile obiezione risponderei, semplicemente, che non è vero, e che, in nome dell'”amore”, nella storia si sono consumate le più inenarrabili nefandezze.
Quel che importa, del documento pontificio, secondo me, è dunque unicamente il secondo piano, dal quale emerge, forte e potente, una sola, semplice domanda, alla quale mi piacerebbe tanto che qualcuno, da parte ecclesiastica, desse risposta: preso atto, con soddisfazione, che la Chiesa “non conduce né incoraggia ecc.”, che significa che “i cristiani sono chiamati a rendere testimonianza della loro fede in Gesù anche davanti agli ebrei”? Che cosa vuol dire “rendere testimonianza”?

Francesco Lucrezi, storico

(29 marzo 2016)