Pierpaolo Pinhas Punturello, rabbino
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Una
tavola apparecchiata per accogliere tutte le differenze e sfumature del
nostro popolo e l’intero nostro popolo che siede insieme per celebrare
l’inizio della propria storia: Pesach. Proviamo a leggere i 4 figli
diversi della Haggada in questa prospettiva, dove il saggio, l’empio,
il semplice e colui che non pone domande sono l’esempio di una
società/tavola che si incontra e confronta anche in maniera dura, ma
senza mai abbandonare se stesso o rinnegare realmente il proprio
popolo.
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Gadi
Luzzatto
Voghera,
storico
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Intanto
i sapori, così contraddittori. Il Kharòseth, questa strana marmellata
di frutta secca e altre componenti per me misteriose, dall’aspetto
esteriore decisamente poco invitante, ma buono di una bontà indicibile.
Buono perché lo faceva la nonna, e come lei nessun altro, nelle memorie
di ogni bambino. Inopportuno, perché sapore dolce insieme all’insalata,
gustato prima della cena, nel bel mezzo della lettura cantata della
Haggadàh. Poi la Mazzàh, galletta croccantina e insapore. Né buona né
cattiva, ma gusto che evoca memorie passate quando la si riassapora
dopo un anno. La si accoglie bene, e dopo otto giorni la si abbandona
con piacere, dopo averla usata e riciclata nelle mille ricette che
caratterizzano Pesach, dagli scacchi al dayenu, dalla minestra di
verdura alle frittelle. Poi arrivano i ricordi, legati ai canti della
Haggadàh, che evocano presenze familiari passate. Per definizione
Pesach è il passaggio da una generazione all’altra: bambini recitano le
domande sul cosa c’è di diverso, ma nishtanà?, e anziani stanchi
rispondono con canti che arrivano da lontano. Poi l’anno dopo i bambini
sono cresciuti e non vogliono più fare domande, e i vecchi se ne sono
andati perché hanno trovato le risposte, e allora ci si trova a leggere
e a ragionare su un testo che comunque ti interroga. Ti costringe ad
attualizzare l’interrogativo sulla libertà, sul suo significato
immanente e presente, senza dimenticare che ci stai ragionando a
partire da un testo che è lo stesso di quello scoperto nella Genizah
del Cairo, scritto novecento anni fa. E che centinaia di anni prima era
ancora e sempre quello. Una continuità di cui si deve tenere conto, ma
che non ti deve far perdere di vista il suo significato nella realtà
che vivi tu, ora, e in quella che stai costruendo per i tuoi figli. E
allora ben venga l’obbligo di “ricordare” che anche noi siamo stati
schiavi in terra d’Egitto, per dare valore alla nostra libertà di oggi,
e per pensare alle nostre responsabilità, politiche e civili,
nell’assicurare le stesse libertà a chi ancora non ne può godere.
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Nasce l'Euro-guardia
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Guardie
europee per pattugliare mari e frontiere. I ministri Ue dell’Interno,
riuniti ieri a Lussemburgo, hanno approvato la proposta presentata a
inizio anno dalla Commissione. “L’obiettivo è che, una volta che si è
stabilito che i migranti irregolari devono essere rimpatriati, il loro
rimpatrio diventi la strategia centrale per tutta l’Ue, e in
particolare per il nostro paese, che di irregolari ne ha tanti”
dichiara il ministro Alfano. Si apre ora la fase della discussione con
il Parlamento, “che dovrebbe arrivare a votare il provvedimento entro
giugno, in modo che possa poi essere approvato in via definitiva dal
vertice dei capi di governo il 28″. (Andrea Bonanni, Repubblica).
“Cresciamo nell’amicizia”. È l’orizzonte tracciato da Bergoglio nel
messaggio indirizzato al rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni per la
festa ebraica di Pesach. “Vi chiedo di pregare per me, mentre assicuro
la mia preghiera per voi” scrive Bergoglio nel messaggio, che si apre
con un ricordo della visita del 17 gennaio scorso al Tempio Maggiore
della Capitale e che è segnalato oggi da Osservatore Romano e
Avvenire. A Pesach è dedicata anche una riflessione di Stefano
Jesurum su Corriere Sette in cui ricorda come la festa celebri
l’emancipazione della schiavitù e insieme sia il simbolo di una
minoranza che difende i suoi valori. È quindi importante “sempre, e a
maggior ragione in questa fase storica”, che il messaggio sia il più
possibile universale, perché solamente preservando la propria identità
e la propria cultura “si può contribuire al progresso collettivo e
garantire il pluralismo della società di cui si è parte”.
Esaurite in tre giorni le duemila copie della prima traduzione del
Talmud in italiano, pubblicata da Giuntina. “Considerando la situazione
del mercato dei libri e la particolarità dell’opera, un risultato
straordinario” afferma l’editore, Shulim Vogelmann, interpellato dal
Corriere (Paolo Salom). “Mi aspettavo che andasse bene, ma questo
successo mi ha davvero sorpreso” sottolinea il rav Di Segni.
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PESACH 5776 - IL MESSAGGIO DEL PRESIDENTE UCEI Libertà, il bene più prezioso In
occasione della festa di Pesach il presidente dell’Unione delle
Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna ha diffuso il seguente
messaggio:
“Cari amici, cari lettori,
in queste ore le famiglie ebraiche di tutto il mondo si preparano ad
accogliere la festa di Pesach, con il suo straordinario carico di
messaggi e insegnamenti.
Pesach è, forse più di ogni altro appuntamento, il simbolo di una
tensione costante volta alla conquista del bene più prezioso di tutti:
la libertà.
‘Ricordati che sei stato schiavo in Egitto’, ci insegnano i testi della Tradizione e i nostri Maestri.
Parole che accompagnano da sempre la plurimillenaria storia ebraica e
che hanno un valore non esclusivo, ma universale. Soprattutto in un
periodo in cui il tema della libertà – negata, anelata, da conquistare
– ci sollecita così intensamente come individui e come collettività.
Celebrare Pesach significa quindi guardare alle sofferenze degli altri,
a chi vive in quest’epoca il proprio Egitto, a chi cerca nella nostra
Europa libera, pacificata e democratica una nuova speranza. Significa
dare opportunità e diritti, e al tempo stesso pretendere il rispetto di
tali conquiste.
Celebrare Pesach è anche ferma difesa dei valori e memoria storica
delle circostanze che hanno permesso la realizzazione di questa nuova
era di opportunità.
Valori irrinunciabili, che il 25 aprile riaffermeremo con orgoglio
sfilando dove possibile accanto alle insegne della Brigata Ebraica.
La suggestiva concomitanza di questi due eventi – Pesach e Festa della
Liberazione – è un’opportunità da non mancare. Perché la libertà è
impegno costante, un ponte tra i popoli. E perché la libertà la si
difende tutti insieme, facendo fronte comune, nel segno dei valori che
ci uniscono.
Con buona pace degli odiatori che, immancabilmente, come ogni anno in
questo periodo, cercano di riscrivere la storia, i protagonisti, i
diversi nessi di causa.
Se ne facciano una ragione: il 25 Aprile non è la loro festa.
Pesach Kasher Ve Sameach”.
Renzo Gattegna,
presidente Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
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IL 25 APRILE A ROMA Liberazione, la nostra storia
Il
comunicato dell’Aned che annuncia che l’associazione non parteciperà al
corteo del 25 aprile, e conseguentemente l’organizzazione di una serata
dedicata al 25 aprile al Pitigliani, sono due eventi che non possono
che suscitare amarezza in tutti quegli ebrei che si identificano nei
valori dell’antifascismo e della Resistenza. Capisco la necessità della
scelta dell’Aned. Ma non posso
che sentire che gli ebrei sono stati così espropriati di una
celebrazione che apparteneva loro di diritto e costretti nuovamente in
un ghetto. Perché essere obbligati a restare fuori dalle celebrazioni
della Resistenza, Resistenza a cui tanti ebrei hanno partecipato in
quanto italiani, è una sconfitta per tutti: per noi ebrei, nuovamente
separati dagli altri italiani nel celebrare una Liberazione che avevamo
pienamente condiviso con loro settant’anni fa, per la memoria
dell’antifascismo e della Resistenza, per quell’idea di antifascismo su
cui si è costruita la Repubblica italiana. Credo che l’Anpi romano
dovrebbe fare una seria riflessione su questo punto: sul fatto di
avere, per motivi politici, sacrificato la presenza degli ebrei nella
celebrazione ai rapporti con centri sociali e movimenti antisionisti
quando non decisamente antisemiti. Il fronte Propal non ha nulla a che
vedere con la celebrazione del 25 aprile. Gli slogan antisionisti, gli
attacchi alla Brigata Ebraica, le formulazioni antisemite che si
percepiscono affiorare nell’ignoranza dei più e nell’estremismo di
alcuni, tutto questo non deve avere spazio nel corteo.
Il 25 aprile 1945, gli ebrei uscivano infine dai loro nascondigli,
contavano i loro morti. Molti di loro avevano combattuto con i
partigiani, in mezzo a loro. Non ci sono state formazioni partigiane
solo ebraiche, come in Francia, come in Polonia. Ebrei e non ebrei
hanno combattuto insieme e insieme hanno celebrato la vittoria in quei
giorni di confusione e di rinascita della fine d’aprile. Erano sui
palchi nelle piazze a fianco degli Alleati, sfilavano nelle città
liberate. La Brigata Ebraica, parte dell’Esercito Inglese, ha
combattuto valorosamente dentro le fila di questo esercito. Dopo la
Liberazione, ha aiutato generosamente la ricostruzione del mondo
Ebraico italiano, creato scuole, collaborato nella ricerca dei
dispersi, dei morti. I rapporti tra ebrei e “sionisti” nell’ Italia del
dopoguerra erano stretti, non dimentichiamoci il ruolo dell’Italia
nell’Aliyah Bet, non dimentichiamo i portuali che scendevano in
sciopero per aiutare le navi dei profughi ebrei a salpare per Eretz
Israel.
La scelta di oggi mette fine per sempre non solo a questo particolare
momento storico ma anche alla sua memoria. Ebrei e non ebrei celebrano
la Liberazione gli uni separati dagli altri. La responsabilità è
dell’Anpi, certo. Non ho dubbi su questo punto. Vorrei però ammonire
noi ebrei di quello che questa conclusione rappresenta: la fine
dell’antifascismo, un antifascismo di cui il mondo ebraico è stato a
lungo parte. Non credo che in Italia ci possa essere un antifascismo
senza ebrei, e credo che da parte sua il mondo ebraico abbia bisogno di
richiamarsi all’universalità di quei valori, di quella memoria
condivisa. Scrivo queste righe per augurarmi che da questa scelta di
oggi si possa in futuro recedere, che non diventi definitiva. Per noi,
per tutti.
Anna Foa, storica
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qui roma - segnalibro Gli Usa e l'eredità di Obama Barack
Obama visto dall’Italia, il suo lascito agli Stati Uniti e al mondo, i
punti di forza e le debolezze della sua politica. A confrontarsi a
Roma, nella sala Bloch del Senato, sul significato della presidenza
Obama, il Presidente emerito della Repubblica Italiana Giorgio
Napolitano assieme allo storico Massimo Teodori e alla presidente Rai
Monica Maggioni. Occasione dell’incontro, la presentazione dell’ultimo
libro di Teodori, Obama il grande
(edizioni Marsilio), dedicato all’impatto dell’attuale inquilino della
Casa Bianca sulla realtà americana e non dalla sua elezione nel 2008 a
oggi. Il capitolo Obama si chiuderà il prossimo 8 novembre, quando gli
elettori americani sceglieranno il loro prossimo presidente ma, secondo
Teodori, è già possibile analizzare e cercare di capire quale sia la
sua eredità. Per Napolitano – nell’immagine, il suo saluto al termine
dell’incontro con il presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche
Italiane Renzo Gattegna – uno dei meriti del primo presidente nero
degli Stati Uniti è stata la scelta di avviare una politica del
dialogo, di cercare di superare lo scontro frontale in favore di un
approccio più diplomatico. A riguardo il Presidente emerito ha
ricordato il famoso discorso di Chicago del 2008, in cui Obama
“invitava a superare le partigianerie e le piccinerie degli interessi
personali. Un discorso che si può applicare anche al nostro Paese”. Leggi
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Il furto della Liberazione
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Ogni
anno mentre si avvicina il 25 aprile siamo combattuti tra la gioia
della festa, il timore di subire offese e contestazioni, la tentazione
di lasciar perdere cortei e cerimonie ufficiali e il desiderio di non
darla vinta a chi ci vuole estromettere da una festa che dovrebbe esser
prima di tutto nostra.
Ma in fin dei conti il 25 aprile non è la prima Festa della Liberazione
che ci viene rubata. Anche Pesach per duemila anni ha subito la stessa
sorte. Certo non è un male (anzi, è una cosa meravigliosa) che anche
altri gioiscano per la nostra liberazione dall’Egitto, o, meglio, che
la nostra liberazione sia diventata il simbolo di tante altre
liberazioni successive; ma non possiamo dimenticare che questa
appropriazione della nostra festa è stata per molti secoli tutt’altro
che indolore. È vero, fortunatamente non è capitato che settant’anni
dopo l’uscita dall’Egitto i discendenti dei seguaci del faraone
pretendessero di festeggiare Pesach al nostro posto, ma a ben vedere è
capitato anche di peggio: per secoli è stato ripetuto che la nostra
liberazione era solo un simbolo, l’annuncio di un’altra liberazione
successiva, e per di più di una liberazione nella cui narrazione agli
ebrei era stato assegnato il ruolo dei cattivi. Il nostro desiderio di
festeggiare l’uscita dall’Egitto si è scontrato per secoli non con
qualche fischio o contestazione, ma con dicerie e accuse assurde e
terribili che hanno provocato dolori e sofferenze indicibili.
Eppure non ci siamo arresi: non abbiamo rinunciato a festeggiare
Pesach; non abbiamo lasciato che la nostra festa ci venisse portata via
o che si trasformasse in un momento di lutto. Per noi ha continuato ad
essere una festa anche se era diventata forse il momento dell’anno in
cui l’odio contro gli ebrei si manifestava nel modo più feroce. E alla
fine la storia ci ha dato ragione: oggi non solo le accuse e le dicerie
sono cessate, ma c’è una corsa a riscoprire la festa nella sua forma
originale, che dopo duemila anni è tornata ad essere importante e densa
di significato per tutti. Se il 25 aprile vivrà un’evoluzione simile,
se un giorno diventerà davvero la festa di tutti e per tutti, se sarà
vista come la liberazione che simboleggia tutte le altre liberazioni,
non potremo che esserne felici, e anche un po’ fieri.
Anna Segre, insegnante
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Salonicco
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Se
come è scritto nell’Orlando Furioso, sulla luna v’è tutto ciò che sulla
terra si è perso, forse lassù si ritroverà di nuovo la Salonicco che
era. Tutti conosceranno un po’ della sua storia, tutti tranne forse i
suoi abitanti odierni: una città che sino ai primi del XX secolo aveva
come popolazione una maggioranza ebraica, un caso quasi unico nella
diaspora per una città di tale grandezza. Qui gli ebrei erano arrivati
dalla penisola iberica, occupavano tutte le nicchie economiche, il
porto e i mercati si fermavano di Sabato, decine di giornali venivano
pubblicati in judezmo, e le sue yeshivoth erano celebri in tutto il
mondo ebraico. Una sorta di Medinat Israel ante litteram. Poi la caduta
dell’Impero Ottomano, il declino inesorabile, e la Shoà, quando il 98%
della sua popolazione ebraica – circa 55.000 persone – conobbe la morte
nei campi di sterminio.
Ma cos’è la Salonicco dei giorni nostri? Sicuramente una città di
fantasmi, come la definisce lo storico Mark Mazower nel suo libro
omonimo. Il paragone più appropriato è quello che la vede simile alla
Maurilia delle Città Invisibili di Italo Calvino: “Talvolta città
diverse si succedono sopra lo stesso suolo e sotto lo stesso nome,
nascono e muoiono senza essersi conosciute, incomunicabili tra loro.”
Francesco Moises Bassano, studente
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Diario di un soldato - Difendersi |
Una
babele di lingue e culture. Un alternarsi continuo di flessioni e
riflessioni. Una divisa che racconta senza dover parlare, un paio di
scarponi che marciano senza sosta. Un fucile sotto il braccio destro,
“per difendersi e mai per uccidere” ci ripetono, perché qui la vita va
celebrata e mai condannata. Un sorriso appena accennato, una mano tesa,
pronta all’aiuto. Un vocabolario ricco e colorato, un lessico unico nel
suo genere. E così imparo al volo il primo termine che mi accompagnerà
passo per passo, mano nella mano, in questa nuova avventura. Amcha: il
tuo popolo. Ci viene dunque insegnato senza equivoci che qualsiasi
gesto compiuto da un soldato dell’esercito israeliano, non è mai fine a
se stesso.
David Zebuloni
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