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22 aprile 2016 - 14 Nisann 5776
PAGINE EBRAICHE 24

ALEF / TAV DAVAR PILPUL

alef/tav

Pierpaolo Pinhas Punturello, rabbino
Una tavola apparecchiata per accogliere tutte le differenze e sfumature del nostro popolo e l’intero nostro popolo che siede insieme per celebrare l’inizio della propria storia: Pesach. Proviamo a leggere i 4 figli diversi della Haggada in questa prospettiva, dove il saggio, l’empio, il semplice e colui che non pone domande sono l’esempio di una società/tavola che si incontra e confronta anche in maniera dura, ma senza mai abbandonare se stesso o rinnegare realmente il proprio popolo.
 
Gadi
Luzzatto
Voghera,
storico
Intanto i sapori, così contraddittori. Il Kharòseth, questa strana marmellata di frutta secca e altre componenti per me misteriose, dall’aspetto esteriore decisamente poco invitante, ma buono di una bontà indicibile. Buono perché lo faceva la nonna, e come lei nessun altro, nelle memorie di ogni bambino. Inopportuno, perché sapore dolce insieme all’insalata, gustato prima della cena, nel bel mezzo della lettura cantata della Haggadàh. Poi la Mazzàh, galletta croccantina e insapore. Né buona né cattiva, ma gusto che evoca memorie passate quando la si riassapora dopo un anno. La si accoglie bene, e dopo otto giorni la si abbandona con piacere, dopo averla usata e riciclata nelle mille ricette che caratterizzano Pesach, dagli scacchi al dayenu, dalla minestra di verdura alle frittelle. Poi arrivano i ricordi, legati ai canti della Haggadàh, che evocano presenze familiari passate. Per definizione Pesach è il passaggio da una generazione all’altra: bambini recitano le domande sul cosa c’è di diverso, ma nishtanà?, e anziani stanchi rispondono con canti che arrivano da lontano. Poi l’anno dopo i bambini sono cresciuti e non vogliono più fare domande, e i vecchi se ne sono andati perché hanno trovato le risposte, e allora ci si trova a leggere e a ragionare su un testo che comunque ti interroga. Ti costringe ad attualizzare l’interrogativo sulla libertà, sul suo significato immanente e presente, senza dimenticare che ci stai ragionando a partire da un testo che è lo stesso di quello scoperto nella Genizah del Cairo, scritto novecento anni fa. E che centinaia di anni prima era ancora e sempre quello. Una continuità di cui si deve tenere conto, ma che non ti deve far perdere di vista il suo significato nella realtà che vivi tu, ora, e in quella che stai costruendo per i tuoi figli. E allora ben venga l’obbligo di “ricordare” che anche noi siamo stati schiavi in terra d’Egitto, per dare valore alla nostra libertà di oggi, e per pensare alle nostre responsabilità, politiche e civili, nell’assicurare le stesse libertà a chi ancora non ne può godere.
 
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Nasce l'Euro-guardia
Guardie europee per pattugliare mari e frontiere. I ministri Ue dell’Interno, riuniti ieri a Lussemburgo, hanno approvato la proposta presentata a inizio anno dalla Commissione. “L’obiettivo è che, una volta che si è stabilito che i migranti irregolari devono essere rimpatriati, il loro rimpatrio diventi la strategia centrale per tutta l’Ue, e in particolare per il nostro paese, che di irregolari ne ha tanti” dichiara il ministro Alfano. Si apre ora la fase della discussione con il Parlamento, “che dovrebbe arrivare a votare il provvedimento entro giugno, in modo che possa poi essere approvato in via definitiva dal vertice dei capi di governo il 28″. (Andrea Bonanni, Repubblica).
“Cresciamo nell’amicizia”. È l’orizzonte tracciato da Bergoglio nel messaggio indirizzato al rabbino capo di Roma Riccardo Di Segni per la festa ebraica di Pesach. “Vi chiedo di pregare per me, mentre assicuro la mia preghiera per voi” scrive Bergoglio nel messaggio, che si apre con un ricordo della visita del 17 gennaio scorso al Tempio Maggiore della Capitale e che è segnalato oggi da Osservatore Romano e Avvenire.  A Pesach è dedicata anche una riflessione di Stefano Jesurum su Corriere Sette in cui ricorda come la festa celebri l’emancipazione della schiavitù e insieme sia il simbolo di una minoranza che difende i suoi valori. È quindi importante “sempre, e a maggior ragione in questa fase storica”, che il messaggio sia il più possibile universale, perché solamente preservando la propria identità e la propria cultura “si può contribuire al progresso collettivo e garantire il pluralismo della società di cui si è parte”.
Esaurite in tre giorni le duemila copie della prima traduzione del Talmud in italiano, pubblicata da Giuntina. “Considerando la situazione del mercato dei libri e la particolarità dell’opera, un risultato straordinario” afferma l’editore, Shulim Vogelmann, interpellato dal Corriere (Paolo Salom). “Mi aspettavo che andasse bene, ma questo successo mi ha davvero sorpreso” sottolinea il rav Di Segni.
 
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  davar
PESACH 5776 - IL MESSAGGIO DEL PRESIDENTE UCEI
Libertà, il bene più prezioso
In occasione della festa di Pesach il presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna ha diffuso il seguente messaggio:
“Cari amici, cari lettori,
in queste ore le famiglie ebraiche di tutto il mondo si preparano ad accogliere la festa di Pesach, con il suo straordinario carico di messaggi e insegnamenti.
Pesach è, forse più di ogni altro appuntamento, il simbolo di una tensione costante volta alla conquista del bene più prezioso di tutti: la libertà.
‘Ricordati che sei stato schiavo in Egitto’, ci insegnano i testi della Tradizione e i nostri Maestri.
Parole che accompagnano da sempre la plurimillenaria storia ebraica e che hanno un valore non esclusivo, ma universale. Soprattutto in un periodo in cui il tema della libertà – negata, anelata, da conquistare – ci sollecita così intensamente come individui e come collettività.
Celebrare Pesach significa quindi guardare alle sofferenze degli altri, a chi vive in quest’epoca il proprio Egitto, a chi cerca nella nostra Europa libera, pacificata e democratica una nuova speranza. Significa dare opportunità e diritti, e al tempo stesso pretendere il rispetto di tali conquiste.
Celebrare Pesach è anche ferma difesa dei valori e memoria storica delle circostanze che hanno permesso la realizzazione di questa nuova era di opportunità.
Valori irrinunciabili, che il 25 aprile riaffermeremo con orgoglio sfilando dove possibile accanto alle insegne della Brigata Ebraica.
La suggestiva concomitanza di questi due eventi – Pesach e Festa della Liberazione – è un’opportunità da non mancare. Perché la libertà è impegno costante, un ponte tra i popoli. E perché la libertà la si difende tutti insieme, facendo fronte comune, nel segno dei valori che ci uniscono.
Con buona pace degli odiatori che, immancabilmente, come ogni anno in questo periodo, cercano di riscrivere la storia, i protagonisti, i diversi nessi di causa.
Se ne facciano una ragione: il 25 Aprile non è la loro festa.
Pesach Kasher Ve Sameach”.

Renzo Gattegna,

presidente Unione delle Comunità Ebraiche Italiane
IL 25 APRILE A ROMA
Liberazione, la nostra storia
Il comunicato dell’Aned che annuncia che l’associazione non parteciperà al corteo del 25 aprile, e conseguentemente l’organizzazione di una serata dedicata al 25 aprile al Pitigliani, sono due eventi che non possono che suscitare amarezza in tutti quegli ebrei che si identificano nei valori dell’antifascismo e della Resistenza. Capisco la necessità della scelta dell’Aned. Ma non posso che sentire che gli ebrei sono stati così espropriati di una celebrazione che apparteneva loro di diritto e costretti nuovamente in un ghetto. Perché essere obbligati a restare fuori dalle celebrazioni della Resistenza, Resistenza a cui tanti ebrei hanno partecipato in quanto italiani, è una sconfitta per tutti: per noi ebrei, nuovamente separati dagli altri italiani nel celebrare una Liberazione che avevamo pienamente condiviso con loro settant’anni fa, per la memoria dell’antifascismo e della Resistenza, per quell’idea di antifascismo su cui si è costruita la Repubblica italiana. Credo che l’Anpi romano dovrebbe fare una seria riflessione su questo punto: sul fatto di avere, per motivi politici, sacrificato la presenza degli ebrei nella celebrazione ai rapporti con centri sociali e movimenti antisionisti quando non decisamente antisemiti. Il fronte Propal non ha nulla a che vedere con la celebrazione del 25 aprile. Gli slogan antisionisti, gli attacchi alla Brigata Ebraica, le formulazioni antisemite che si percepiscono affiorare nell’ignoranza dei più e nell’estremismo di alcuni, tutto questo non deve avere spazio nel corteo.
Il 25 aprile 1945, gli ebrei uscivano infine dai loro nascondigli, contavano i loro morti. Molti di loro avevano combattuto con i partigiani, in mezzo a loro. Non ci sono state formazioni partigiane solo ebraiche, come in Francia, come in Polonia. Ebrei e non ebrei hanno combattuto insieme e insieme hanno celebrato la vittoria in quei giorni di confusione e di rinascita della fine d’aprile. Erano sui palchi nelle piazze a fianco degli Alleati, sfilavano nelle città liberate. La Brigata Ebraica, parte dell’Esercito Inglese, ha combattuto valorosamente dentro le fila di questo esercito. Dopo la Liberazione, ha aiutato generosamente la ricostruzione del mondo Ebraico italiano, creato scuole, collaborato nella ricerca dei dispersi, dei morti. I rapporti tra ebrei e “sionisti” nell’ Italia del dopoguerra erano stretti, non dimentichiamoci il ruolo dell’Italia nell’Aliyah Bet, non dimentichiamo i portuali che scendevano in sciopero per aiutare le navi dei profughi ebrei a salpare per Eretz Israel.
La scelta di oggi mette fine per sempre non solo a questo particolare momento storico ma anche alla sua memoria. Ebrei e non ebrei celebrano la Liberazione gli uni separati dagli altri. La responsabilità è dell’Anpi, certo. Non ho dubbi su questo punto. Vorrei però ammonire noi ebrei di quello che questa conclusione rappresenta: la fine dell’antifascismo, un antifascismo di cui il mondo ebraico è stato a lungo parte. Non credo che in Italia ci possa essere un antifascismo senza ebrei, e credo che da parte sua il mondo ebraico abbia bisogno di richiamarsi all’universalità di quei valori, di quella memoria condivisa. Scrivo queste righe per augurarmi che da questa scelta di oggi si possa in futuro recedere, che non diventi definitiva. Per noi, per tutti.


Anna Foa, storica
qui roma - segnalibro
Gli Usa e l'eredità di Obama
Barack Obama visto dall’Italia, il suo lascito agli Stati Uniti e al mondo, i punti di forza e le debolezze della sua politica. A confrontarsi a Roma, nella sala Bloch del Senato, sul significato della presidenza Obama, il Presidente emerito della Repubblica Italiana Giorgio Napolitano assieme allo storico Massimo Teodori e alla presidente Rai Monica Maggioni. Occasione dell’incontro, la presentazione dell’ultimo libro di Teodori, Obama il grande (edizioni Marsilio), dedicato all’impatto dell’attuale inquilino della Casa Bianca sulla realtà americana e non dalla sua elezione nel 2008 a oggi. Il capitolo Obama si chiuderà il prossimo 8 novembre, quando gli elettori americani sceglieranno il loro prossimo presidente ma, secondo Teodori, è già possibile analizzare e cercare di capire quale sia la sua eredità. Per Napolitano – nell’immagine, il suo saluto al termine dell’incontro con il presidente dell’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane Renzo Gattegna – uno dei meriti del primo presidente nero degli Stati Uniti è stata la scelta di avviare una politica del dialogo, di cercare di superare lo scontro frontale in favore di un approccio più diplomatico. A riguardo il Presidente emerito ha ricordato il famoso discorso di Chicago del 2008, in cui Obama “invitava a superare le partigianerie e le piccinerie degli interessi personali. Un discorso che si può applicare anche al nostro Paese”.
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QUI FERRARA - MOSTRA
Ariosto secondo Cesare Segre
Ludovico Ariosto è sempre stato una delle passioni letterarie di Cesare Segre, grande filologo italiano scomparso due anni fa. Una passione condivisa con lo zio e maestro Santorre Debenedetti, tanto che nel 1960 uscirà con la loro doppia firma un edizione critica del poema. Il loro contributo per comprendere l'Ariosto è stato ed è indispensabile per la critica moderna e il binomio Debenedetti-Segre non poteva che essere tra i protagonisti della grande mostra che Ferrara dedica al cinquecentenario dell'Orlando Furioso: sono infatti in esposizione a Palazzo Paradiso i 55 libri che Segre, per volontà testamentaria, aveva deciso di donare alla Biblioteca Ariostea di Ferrara, tra cui alcuni preziosi volumi ariosteschi.
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pilpul
Il furto della Liberazione
Ogni anno mentre si avvicina il 25 aprile siamo combattuti tra la gioia della festa, il timore di subire offese e contestazioni, la tentazione di lasciar perdere cortei e cerimonie ufficiali e il desiderio di non darla vinta a chi ci vuole estromettere da una festa che dovrebbe esser prima di tutto nostra.
Ma in fin dei conti il 25 aprile non è la prima Festa della Liberazione che ci viene rubata. Anche Pesach per duemila anni ha subito la stessa sorte. Certo non è un male (anzi, è una cosa meravigliosa) che anche altri gioiscano per la nostra liberazione dall’Egitto, o, meglio, che la nostra liberazione sia diventata il simbolo di tante altre liberazioni successive; ma non possiamo dimenticare che questa appropriazione della nostra festa è stata per molti secoli tutt’altro che indolore. È vero, fortunatamente non è capitato che settant’anni dopo l’uscita dall’Egitto i discendenti dei seguaci del faraone pretendessero di festeggiare Pesach al nostro posto, ma a ben vedere è capitato anche di peggio: per secoli è stato ripetuto che la nostra liberazione era solo un simbolo, l’annuncio di un’altra liberazione successiva, e per di più di una liberazione nella cui narrazione agli ebrei era stato assegnato il ruolo dei cattivi. Il nostro desiderio di festeggiare l’uscita dall’Egitto si è scontrato per secoli non con qualche fischio o contestazione, ma con dicerie e accuse assurde e terribili che hanno provocato dolori e sofferenze indicibili.
Eppure non ci siamo arresi: non abbiamo rinunciato a festeggiare Pesach; non abbiamo lasciato che la nostra festa ci venisse portata via o che si trasformasse in un momento di lutto. Per noi ha continuato ad essere una festa anche se era diventata forse il momento dell’anno in cui l’odio contro gli ebrei si manifestava nel modo più feroce. E alla fine la storia ci ha dato ragione: oggi non solo le accuse e le dicerie sono cessate, ma c’è una corsa a riscoprire la festa nella sua forma originale, che dopo duemila anni è tornata ad essere importante e densa di significato per tutti. Se il 25 aprile vivrà un’evoluzione simile, se un giorno diventerà davvero la festa di tutti e per tutti, se sarà vista come la liberazione che simboleggia tutte le altre liberazioni, non potremo che esserne felici, e anche un po’ fieri.


Anna Segre, insegnante

Salonicco
Se come è scritto nell’Orlando Furioso, sulla luna v’è tutto ciò che sulla terra si è perso, forse lassù si ritroverà di nuovo la Salonicco che era. Tutti conosceranno un po’ della sua storia, tutti tranne forse i suoi abitanti odierni: una città che sino ai primi del XX secolo aveva come popolazione una maggioranza ebraica, un caso quasi unico nella diaspora per una città di tale grandezza. Qui gli ebrei erano arrivati dalla penisola iberica, occupavano tutte le nicchie economiche, il porto e i mercati si fermavano di Sabato, decine di giornali venivano pubblicati in judezmo, e le sue yeshivoth erano celebri in tutto il mondo ebraico. Una sorta di Medinat Israel ante litteram. Poi la caduta dell’Impero Ottomano, il declino inesorabile, e la Shoà, quando il 98% della sua popolazione ebraica – circa 55.000 persone – conobbe la morte nei campi di sterminio.
Ma cos’è la Salonicco dei giorni nostri? Sicuramente una città di fantasmi, come la definisce lo storico Mark Mazower nel suo libro omonimo. Il paragone più appropriato è quello che la vede simile alla Maurilia delle Città Invisibili di Italo Calvino: “Talvolta città diverse si succedono sopra lo stesso suolo e sotto lo stesso nome, nascono e muoiono senza essersi conosciute, incomunicabili tra loro.”


Francesco Moises Bassano, studente
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Diario di un soldato - Difendersi
Una babele di lingue e culture. Un alternarsi continuo di flessioni e riflessioni. Una divisa che racconta senza dover parlare, un paio di scarponi che marciano senza sosta. Un fucile sotto il braccio destro, “per difendersi e mai per uccidere” ci ripetono, perché qui la vita va celebrata e mai condannata. Un sorriso appena accennato, una mano tesa, pronta all’aiuto. Un vocabolario ricco e colorato, un lessico unico nel suo genere. E così imparo al volo il primo termine che mi accompagnerà passo per passo, mano nella mano, in questa nuova avventura. Amcha: il tuo popolo. Ci viene dunque insegnato senza equivoci che qualsiasi gesto compiuto da un soldato dell’esercito israeliano, non è mai fine a se stesso.

David Zebuloni
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