Salonicco

bassanoSe come è scritto nell’Orlando Furioso, sulla luna v’è tutto ciò che sulla terra si è perso, forse lassù si ritroverà di nuovo la Salonicco che era. Tutti conosceranno un po’ della sua storia, tutti tranne forse i suoi abitanti odierni: una città che sino ai primi del XX secolo aveva come popolazione una maggioranza ebraica, un caso quasi unico nella diaspora per una città di tale grandezza. Qui gli ebrei erano arrivati dalla penisola iberica, occupavano tutte le nicchie economiche, il porto e i mercati si fermavano di Sabato, decine di giornali venivano pubblicati in judezmo, e le sue yeshivoth erano celebri in tutto il mondo ebraico. Una sorta di Medinat Israel ante litteram. Poi la caduta dell’Impero Ottomano, il declino inesorabile, e la Shoà, quando il 98% della sua popolazione ebraica – circa 55.000 persone – conobbe la morte nei campi di sterminio.
Ma cos’è la Salonicco dei giorni nostri? Sicuramente una città di fantasmi, come la definisce lo storico Mark Mazower nel suo libro omonimo. Il paragone più appropriato è quello che la vede simile alla Maurilia delle Città Invisibili di Italo Calvino: “Talvolta città diverse si succedono sopra lo stesso suolo e sotto lo stesso nome, nascono e muoiono senza essersi conosciute, incomunicabili tra loro.”
Scoprendola, camminando tra cantieri, ruderi ed edifici moderni fatiscenti è impossibile non notare la sua decadenza, il suo abbandono volontario, il completo disinteresse verso il proprio passato, greco, ebraico o turco che sia.
In un sabato sera d’aprile cerco in ogni modo di trascorrere la chiusura dello Shabbat insieme alla comunità cittadina per poterla conoscere. Con difficoltà trovo, chiusa e nascosta dalle impalcature, la Monastir Synagogue – così chiamata nel 1927 perché costruita dagli ebrei di Bitola della Macedonia – un uomo mi indirizza verso la vicina Vasileos Irakleiou. Ci metto un po’ a capire che la Yad L’Zikaron è ubicata al pian terreno di un indistinguibile edificio a vetri davanti al mercato coperto, l’Agorà Modiano – costruito dall’architetto italiano Eli Modiano nel 1922. Il sorvegliante mi fa accomodare in una saletta ben arredata, mi ritrovo di lì a poco insieme a quindici persone, tutte sopra i cinquant’anni, a parte il rabbino che è molto giovane e a quanto sembra parla un ottimo greco senza particolari influenze straniere. Il servizio scorre regolarmente, il hazan ha una cadenza orientaleggiante che rievoca veramente gli antichi fasti, mi colpisce soprattutto che dopo l’uscita del Sefer dall’Ekhal viene intonato un canto interamente in Ladino. Al termine della funzione mi soffermo a scambiare due parole con un signore, mi indica le lapidi di marmo alle pareti che ricordano le decine di sinagoghe presenti un tempo in città, molte avevano nomi italiani, Otranto, Apulia, Kalabria, Sicilia, mi racconta che in definitiva qui vi abitano ancora un migliaio di ebrei. Prima di andarmene mi ritrovo davanti all’Università Aristotele, questo edificio si è espanso sui resti di quello che fu il principale cimitero ebraico, vi lascio un sasso e mi guardo intorno alla ricerca di una lapide che non c&#39
Lasciando Salonicco con il treno verso mezzanotte, penso di aver trovato questa città inspiegabilmente familiare, forse a causa della sua vocazione cosmopolita o per il mare che la lambisce che potrebbe riportarmi a Trieste o nella mia Livorno. Non ho idea se qualche mio antenato vi abbia mai abitato.
Resta la constatazione che nonostante la sua smemoratezza, Salonicco rimarrà sempre parte di un patrimonio storico ed intangibile dell’ebraismo… il suo passato rivivrà nella memoria dei suoi esuli e i suoi fantasmi continueranno ad infestarla sino alla fine dei tempi.

Francesco Moises Bassano, studente

(22 aprile 2016)