Benedetto
Carucci Viterbi,
rabbino
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"Hanno sopportato e non hanno più percepito la durezza della loro schiavitù" (R. Simha Bunim di Przysucha)
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David
Bidussa,
storico sociale
delle idee | Solo
riprendendo su di sé il carico del presente e proponendosi di
trasformarlo e solo la deliberazione che il passato non regoli il
presente e detti norme al futuro, si può pensare a un futuro che non
sia la ripetizione del passato. Sono due dei principi su cui amava
riflettere Tzvetan Todorov, scomparso lo scorso martedì a Parigi.
L’idea era che un futuro diverso ha una possibilità se fondato su un
triplo registro: 1) il richiamo al ruolo del singolo e della sua
responsabilità nella storia; 2) la sollecitazione a dimenticare in
un’epoca in cui tutti vogliamo ricordare, spesso perché incapaci di
uscire dal passato; 3) la convinzione che futuro implica rischiare.
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Onu, candidatura Livni
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L’ex
ministra degli Esteri israeliana Tzipi Livni verso l’incarico di
vice-Guterres alle Nazioni Unite. Va interpretata anche in questa
chiave, scrive La Stampa, la decisione degli Stati Uniti di bloccare la
nomina del palestinese Salam Fayyad come nuovo inviato dell’Onu in
Libia. La soluzione potrebbe essere uno scambio, scrive il quotidiano
torinese. Un posto per Livni all’Onu “in cambio del via libera a
Fayyad”.
I quotidiani parlano di Casa Bianca “stregata dal pensiero di Julius
Evola”, riprendendo un approfondimento sul tema del New York Times. In
particolare Stephen Bannon, principale consigliere strategico di Trump,
apprezzerebbe e diffonderebbe il pensiero dell’intellettuale italiano,
morto nel 1974. Così il Corriere descrive Evola: “Il teorico del
‘tradizionalismo’, della superiorità atavica della razza bianca,
l’antisemita, l’ammiratore di Benito Mussolini e della
‘incorruttibilità’ dei nazisti tedeschi”. Negli scorsi giorni il
Giornale di Sicilia ha pubblicato una breve cronaca in cui si esalta la
figura di Evola, cui alcuni a Cinisi, comune cui fu legato, vorrebbero
dedicare una strada. L’Ufficio Stampa UCEI è intervenuto con la
direzione del quotidiano.
Una carica della polizia contro gli antagonisti che cercavano di
forzare il cordone di sicurezza, qualche contuso e mezza città
paralizzata per il convegno dell’ultradestra organizzato da Forza Nuova
a Genova. “La città – scrive Repubblica – ha avuto un risveglio
antifascista con un corteo affollatissimo voluto dall’Anpi e al quale
ha partecipato anche il sindaco Marco Doria”.
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la possibile nomina a vicesegretario Onu, indiscrezione Tzipi Livni Un silenzio che sa di attesa
Nessuna dichiarazione ufficiale. Nessuna dichiarazione alla stampa, nessun post su Facebook, nessun cinguettio su Twitter.
Tzipi Livni per il momento non commenta l’indiscrezione, apparsa nelle
scorse ore sui giornali israeliani e oggi riportata anche su quella
italiana e internazionale, su una sua sempre più probabile candidatura
come vice-segretario segretario delle Nazioni Unite accanto al
socialista portoghese Antonio Guterres.
Basso profilo per l’ex ministro degli Esteri di Gerusalemme, oggi
leader del partito HaTnuah e parlamentare della Knesset, che potrebbe
essere il primo politico israeliano a ottenere un ruolo di leadership
in quella sede. Una nomina, sottolineano gli analisti, potenzialmente
utile per sbloccare la complessa situazione relativa al palestinese
Salam Fayyad e all’incarico per lui previsto di inviato Onu in Libia,
bloccato all’ultimo momento dagli Stati Uniti.
Affermava Livni in una recente intervista: “I valori del mondo libero
sono minacciati da estremisti; serve una leadership internazionale che
si ponga in prima linea per proteggerli. E se ci fosse una donna a capo
dell’Onu…”. Il posto più alto è occupato, ma certamente quello che si
profila per lei non è un ruolo marginale. “Quello che possiamo dire è
che allo stato attuale non è arrivata nessuna proposta ufficiale in tal
senso” dicono questa mattina dallo staff di Livni. Parole che, a detta
degli addetti ai lavori, sanno di pretattica e di attesa. Leggi
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la missione ucei - israaid
"Sisma, serve ancora solidarietà"
“Hanno
ancora bisogno di aiuto. Di un aiuto psicologico per confrontarsi con
il trauma che continua a ripresentarsi”. A parlare Silvia Reichenbach,
tra le volontarie partite diversi mesi fa con IsraAid (organizzazione
no profit israeliana specializzata nel prestare soccorso nei luoghi
colpiti da guerre e calamità naturali) per Amatrice. Le notizie che
arrivano da quei luoghi sono, a distanza di tempo ancora terribili: la
neve e nuove scosse di terremoto hanno riportato nel Centro Italia la
paura e il dolore patiti con il sisma di fine agosto. Nuove vittime
purtroppo si vanno ad aggiungere a quelle di solo pochi mesi e chi
rimane orgogliosamente in quelle terre deve convivere con un futuro
incerto, con lo spaesamento di un contesto sociale che non esiste
praticamente più e deve essere ricostruito. A questo pensano Silvia e
Silvana Wiener, anche lei psicologa intervenuta con IsraAid ad
Amatrice, quando parlano della situazione di quei luoghi a distanza di
mesi dalla loro missione. Quelle persone, spiegano, hanno ancora
bisogno di supporto psicologico. L’equipe di IsraAid ha fornito loro
l’aiuto in prima battuta, diverse persone sono rimaste in contatto con
quei volontari creando un ponte da Israele e l’Italia. Ma dai racconti
di chi vive ancora nelle tende, spiegano le psicologhe, la solitudine è
ancora un sentimento molto diffuso. E pericoloso, in particolare in
casi di disturbi post-traumatici. Il sostegno è importante ma deve
essere un sostegno necessario e mirato.
Nelle settimane prima della tragedia di Rigopiano, IsraAid in
collaborazione con l’Unione delle Comunità Ebraiche Italiane aveva
voluto portare una solidarietà concreta alle popolazioni colpite,
ancora costrette ad affrontare nelle tende l’inverno. Termocoperte,
giacche per bambini e per adulti, stufe, scarpe. Sono alcuni dei
materiali che erano stati portati dalla delegazione UCEI e della
no-profit israeliana. Leggi
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MENASHE DI WEINSTEIN ALLA BERLINALE 2017 L'Yiddish torna a fare spettacolo Occhi aperti sul mondo hassidico
Temuto,
venerato, oggetto di sospetto o di ammirazione, affascinante o
respingente che lo si voglia immaginare, il mondo dell’ebraismo
rigorosamente ortodosso, in particolare nelle sue declinazioni
hassidiche, non aveva da attendere la Berlinale 2017 per fare il suo
debutto sul grande schermo. Tentativi più o meno riusciti di
raccontarlo al grande pubblico, valga per tutti la citazione del
celebre “Un’estranea fra noi”, ce ne sono stati. Eppure, nonostante il
rigore delle sceneggiature e la professionalità degli attori impegnati
sul set, qualcosa continuava a suonare falso, artificioso.
È proprio su questo fronte, per cercare di restituire una visione
sincera a questo universo così difficile da percepire serenamente
dall’esterno e così difficile da conoscere nella sua autentica realtà,
che il regista newyorkese Joshua Weinstein ha voluto provare a fare un
film autentico e non divistico ambientato negli ambienti hassidici del
Borough Park di Brooklyn.
Il risultato, questo “Menashe” presentato in anteprima al festival
cinematografico di Berlino nelle scorse ore, è la storia di una
riuscita. Un successo per il valore cinematografico e artistico del
film, che scorre sotto gli occhi dello spettatore raccontando in
maniera semplice le sfumature delle vita quotidiana di ambienti ebraici
solitamente molto restii a favorire le intrusioni. E un successo nela
suo aspetto di sperimentalità sociale, là dove un ebreo contemporaneo
di origini hassidiche ma ora non più ortodosso, è riuscito non solo a
vedere dal di dentro, ma a sollecitare lo stesso mondo dei hassidim a
interpretare se stesso.
Tutto dialogato in un yiddish splendido nella naturalezza della sua
quotidianità, tutto interpretato da persone vere e davvero appartenenti
al mondo che raccontano, a cominciare dal suo protagonista, Menashe
Lustig, un hassid che non il né timore né imbarazzo nel confrontarsi
con la cinepresa; il film è un piccolo capolavoro di arte e di umanità.
La
semplice storia di un padre rimasto vedovo precocemente, con un figlio
di dieci anni da crescere in mezzo a mille difficoltà, le dinamiche
sociali tutte particolari che caratterizzano il suo mondo, in pratica
la fatica di vivere la vita quotidiana. Il rapporto delicato e
impossibile fra un padre e un figlio raccontato senza pudori e senza
falsificazioni. Tutto sembra speciale ed esotico se passa attraverso la
vita di un ebraismo profondamente autentico e coinvolgente. Per poi
alla fine comprendere che quello che sembra profondamente diverso, così
lontano da essere quasi irraggiungibile, non è altro in realtà che
un’altra possibile declinazione della nostra abituale quotidianità.
Vedere il mondo, il nostro e quello degli altri, con occhi nuovi,
passare dallo sguardo esterno allo sguardo interno, senza pudori e
senza timori. Trovarsi infine accomunati da un senso di umanità che ci
rende tutti diversi e tutti molto simili di fronte ai grandi problemi
della vita. Weinstein ci riesce chiamando in scena un’intera compagnia
di dilettanti dello spettacolo (molti dei partecipanti che si sono
lasciati coinvolgere nella lavorazione del film non sono mai entrati in
una sala cinematografica in tutta la loro vita), apparenti ingenui
disarmati nei confronti delle insidie della vita quotidiana
contemporanea, che attingendo alla forza di una Tradizione eterna,
quella che tutti noi abbiamo ricevuto in eredità, si rivelano in realtà
più forti, più adeguati, più riusciti e più felici di quanto noi siamo
spesso capaci di immaginarli.
gv
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Fratelli nella notte
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I
Fratelli musulmani sono l’epicentro ideologico e storico della svolta
attivista che connota l’islamismo radicale e che oggi è l’ossatura del
fenomeno jihadista. Non a caso nascono nel 1928, quando il riscontro
che il Califfato ottomano era definitivamente tramontato diventa
disagio insopportabile, alla ricerca quindi di un qualche sbocco
politico. Il programma che avanzano è di ribaltare la sfida della
modernità, intendendo la pratica islamica non come un culto bensì come
una totalità. Si ha uno Stato islamico quando esso coincide in tutto e
per tutto con la comunità dei «perfetti credenti», che si ispira alla
piattaforma della Fratellanza: «Dio è il nostro programma; il Corano è
la nostra Costituzione; il Profeta il nostro leader; il combattimento
sulla via di Dio la nostra strada; la morte per la gloria di Dio la più
grande delle nostre aspirazioni». Centrale, nel messaggio del
movimento, è il richiamo interclassista, che rimuove integralmente la
contrapposizione tra gli interessi materiali e i conflitti che ad essi
si accompagnano. Gli uni e gli altri sono presentati come fratture
inaccettabili rispetto all’obiettivo di unificare l’Umma, che saprà da
sé dare delle risposte alle tensioni della modernità. Si tratta, per
l’appunto, di islamizzare la modernità, soprattutto dal momento in cui
quest’ultima ha dato fuoco alle polveri di tensioni sociali per le
quali sembra non avere concrete risposte da offrire. Con la Fratellanza
si manifesta la natura combattente dell’islamismo radicale, che sfocerà
poi nello jihadismo. Solo chi è pronto al sacrificio di sé, divenendo
un «martire» (shahid), può accedere alla piena comprensione della
radicalità dell’islamismo.
Claudio Vercelli
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Levi papers - La fanfara
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Nel
quarto foglio dattiloscritto aggiunto nella pagina 26 della edizione
1947 di “Se questo è un uomo”, capitolo “Sul fondo”, Primo Levi parla
della fanfara. Nel dattiloscritto non ci sono correzioni a mano, solo
segni a penna rossa, una Bic probabilmente, del redattore che ha
revisionato i fogli acclusi, questioni di grafia. La fanfara compare
nel libro versione 1958 per la prima volta: “Una fanfara incomincia a
suonare, accanto alla porta del campo: suona Rosamunda, la ben nota
canzonetta sentimentale, e questo ci appare talmente strano che ci
guardiamo l’un l’altro sogghignando; nasce in noi un’ombra di sollievo,
forse tutte queste cerimonie non costituiscono che una colossale
buffonata di gusto teutonico. Ma la fanfara, finita Rosamunda, continua
a suonare altre marce, una dopo l’altra, ed ecco apparire i drappelli
dei nostri compagni, che ritornano dal lavoro”. La scelta del termine
“fanfara” non è casuale, indica infatti una banda musicale militare,
composta in prevalenza da ottoni. E di questo si tratta, non di
orchestrina, come in altri campi. Ai deportati la cosa appare come una
“buffonata”. Sogghignano anche. La banda militare suona Rosamunda,
“canzonetta sentimentale”. Anche questo accentua il senso del ridicolo.
Sollievo. Poi appaiono i deportati.
Marco Belpoliti, scrittore
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