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Pierpaolo Pinhas Punturello, rabbino
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L’arrivo del digiuno di Yom Kippur è fonti di differenti reazioni e diverse azioni ebraiche.
C’è chi pregusta il fatto che dormirà tutto il giorno fino all’ora di
Neilà, chi si prepara a fare da hazan in un tempio raccogliendo le
energie per le lunghe ed impegnative tefilllot, c’è chi entra nel
panico all’idea di dover digiunare, chi è già nel panico all’idea di
dover trascorrere tutte quelle ore seduto in sinagoga, c’è chi va in
ansia perché non sa da chi andare a prendere la berachà, c’è chi ha già
annunciato ad amici non ebrei di non cercarlo per venticinque ore
perché è arrivato, inesorabilmete, il Kippur, c’è chi, almeno qui in
Israele, sta lucidando la sua bicicletta visto che non ci saranno auto
in circolazione. Qualunque sia la reazione, l’azione, l’ansia o il
panico dobbiamo ricordarci che Kippur è una occasione. La grande
occasione del nostro anno ebraico. Kippur è il grande appuntamento per
l’incontro con Dio, il grande giorno del nostro perdono e del nostro
rinnovarci in virtù di un nuovo anno. Kippur è il segno della diversità
del genere umano dal resto della creazione: a Kippur possiamo cambiare
noi stessi e la nostra vita e siamo gli unici elementi del Creato che
hanno questa facoltà. Kippur è il dono più gioioso che Dio ci abbia mai
fatto. Buon digiuno di gioia a tutto il popolo ebraico.
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Gadi
Luzzatto
Voghera, direttore
Fondazione CDEC
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Il
libro di Liliana Picciotto Salvarsi. Gli ebrei d’Italia sfuggiti alla
Shoah 1943-1945 (Einaudi 2017) è il prodotto di una lunga ed accurata
ricerca documentaria e di una straordinaria opera di raccolta di
testimonianze orali. Un libro che offre al lettore una serie importante
di spunti di riflessione in un momento storico particolare, quello che
viviamo ora, in cui molti nodi della storia sembrano riaffiorare dal
passato e richiedono capacità critica e soprattutto uno sguardo non
stereotipato, disposto a cogliere le articolazioni di una realtà
complessa. Nel periodo 1943-45 in Italia e in tutto il mondo
interessato dal tragico conflitto mondiale ci furono i cosiddetti
giusti, e ci furono gli ingiusti. Ci furono atteggiamenti che
oscillavano fra questi due estremi (anche nelle stesse persone) e ci
furono tanti indifferenti, o inconsapevoli, o silenti, o altro ancora.
Il giudizio storico sull’atteggiamento dei singoli deve essere sempre
cauto e formulato, quando necessario, sulla base di documentazione
certa. E deve, credo, essere mediato da quella pìetas umana che è
necessaria quando noi, dai nostri letti caldi e dalle nostre
confortevoli abitazioni, ci accingiamo a esprimere giudizi sul
comportamento dei singoli in situazioni estreme. Non che non ci si
possa pronunciare, naturalmente, ma la distanza storica e ambientale
deve essere tenuta nella giusta considerazione.
Quando però si passa ai giudizi collettivi il discorso cambia. In
questo senso, la recensione che Antonio Ferrari ha voluto dedicare al
libro in uscita sulle pagine del Corriere della Sera indirizza il
lettore in una direzione che non solo non rispecchia il quadro teorico
nel quale si inquadra la ricerca di Liliana Picciotto, ma dimostra di
non tenere in nessuna considerazione il ricco dibattito storiografico
che da più di trent’anni si incentra sulla favola pseudo antropologica
degli “italiani brava gente”.
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Odio a Budapest
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È
ancora tempo di caccia alle streghe in Ungheria, dove il nemico numero
uno è ancora lui – George Soros – vittima di una nuova oscena campagna
diffamatoria che soffia sul fuoco di pregiudizi antisemiti.
Un’iniziativa che parte dal governo attraverso una consultazione
pubblica su un inesistente piano migranti del magnate. Sottolinea il
Corriere: “Ricco, internazionalista, sostenitore delle società aperte,
impegnato per i rifugiati, per di più ebreo, Soros è il nemico
perfetto. Orbán sembra odiarlo con la determinazione che si riserva ai
nemici intimi e in effetti lo conosce da tempo. Non solo perché Soros è
nato in Ungheria, da dove è fuggito nei primi anni di socialismo reale
dopo essere scampato ai nazisti. Ma anche perché Orbán ha studiato a
Oxford grazie a una delle tante borse di studio offerte dal filantropo”.
Sarebbe la voce di Al Baghdadi, scrive tra gli altri il Corriere,
quella del nuovo messaggio diffuso dalla divisione media di propaganda
dell’Isis con il titolo “Sufficient Is Your Lord As A Guide And A
Helper”. Nel messaggio il Califfo afferma che il sangue dei miliziani
uccisi in Iraq e Siria “non deve essere stato versato invano”. E
sottolinea inoltre come americani, russi ed europei “siano terrorizzati
dagli attacchi dei mujaheddin”. Difficile, spiegano tuttavia gli
esperti, stabilire la data esatta della registrazione e smentire le
voci su una sua morte circolate in passato.
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il paese si ferma per kippur Appello del presidente Rivlin:
"Israele rispetta le idee diverse" Gerusalemme,
Israele e tutto l’ebraismo internazionale si preparano in queste ore
alla celebrazione dello Yom Kippur, il giorno più sacro e solenne del
calendario ebraico. Ieri sono stati migliaia i fedeli che si sono
recati al Kotel (il Muro Occidentale a Gerusalemme) per recitare le
Selichot, le poesie penitenziali (nell’immagine un momento della
serata). Tra i tanti messaggi pubblici legati a Kippur, molto
apprezzato quello del Presidente Reuven Rivlin: “Qui a volte è
difficile. Molto difficile. Ma non è una scusa per i peccati che
commettiamo usando la nostra lingua, le nostre parole contro settori
della società o interi gruppi, contro persone che non la pensano come
noi – afferma Rivlin – Dal punto di vista del Paese, ciascuno di noi
dovrebbe chiedere perdono per ciò che ha fatto e detto del suo
prossimo”.
Sul fronte della sicurezza, l’esercito israeliano ha annunciato la
chiusura dei passaggi tra Cisgiordania e Israele e Gaza e Israele: un
blocco che le autorità adottano sempre in concomitanza con le festività
ebraiche e da cui sono escluse le emergenze umanitarie e altri casi
considerati sensibili. Il provvedimento dovrebbe durare fino a sabato
sera, fino al termine del Kippur. Speciali misure di sicurezza sono
state applicate inoltre all’area dell’insediamento di Har Adar, teatro
di un attacco terroristico palestinese in cui sono morti tre israeliani. Leggi
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kippur 5778 - la riflessione Preghiera, pentimento, giustizia Nella
preghiera di Musaf di Rosh haShanà, di Yom Kippur e, secondo il minhag
italiano persino di Osha’anà Rabbà, leggeremo un solenne pijut (una
poesia liturgica) in cui è detto
“…utshuvà utfillà uzdakà ma’avirin et ro’a ha ghezerà – la teshuvà, la
tefillà e la tzedakà hanno la forza di cambiare il cattivo decreto
divino”.
Cosa sono queste tre azioni che hanno così tanto valore all’interno
della vita di un ebreo da far cambiare idea al Signore Id-dio?
La teshuvà è l’elemento indispensabile per ottenere il perdono divino;
questa, non è solo una cosa teorica (mi pento di aver fatto qualcosa),
bensì rappresenta l’azione del pentirsi, che deve esser fatta
attraverso le opere materiali, dimostrando a se stessi per primi, poi
al prossimo e infine a D-o, di aver compreso l’errore che ci conduceva
sulla strada sbagliata e che abbiamo intrapreso il cammino sulla retta
via.
Nel brano di Torà che abbiamo letto nella parashà di Nizzavim troviamo
scritto: “…ve shavtà ad A’ Elo-hekha – e tornerai al Signore D-o tuo”:
tutto ciò che abbiamo detto deve esser fatto per rendere conto al
Signore del nostro operato; è a Lui che alla fine di tutto dobbiamo
presentare il bilancio delle nostre azioni, avendo il coraggio di non
nascondere quelle meno buone”. Nella tradizione rabbinica questo
comportamento, viene definito “Ben adam la macom – fra uomo e D-o”.
La tefillà è la preghiera fatta nel migliore dei modi partendo dal più
profondo della nostra coscienza e cercando di salire sempre di più
verso l’alto. L’elemento fondamentale della tefillà è la voce: lo
sforzo che noi facciamo e le energie che adoperiamo nel recitare le
tefillot debbono essere il mezzo indispensabile per frantumare quel
muro che divide noi dal Signore D-o, facendo arrivare le nostre
preghiere, fino al Suo “cuore”.
Essa è definita “Ben adam le azmò – Fra l’uomo e se stesso”
Anche lo shofar ha in un certo qual modo la stessa funzione della
tefillà. Il termine “shofar” può anche esser fatto derivare dal verbo
ebraico “le-shapper” che vuol dire “migliorare”; ossia il suo suono ha
lo scopo di far migliorare il cuore degli uomini, le loro coscienze,
per poter poi arrivare diretto al “cuore” di D-o migliorando anche il
Suo verdetto verso di noi.
La tzedakà infine è l’opera di giustizia che ogni ebreo ha il dovere di
fare nei confronti di chi ha bisogno; non è né elemosina né opera
caritativa, bensì un’azione che ognuno di noi ha il dovere di fare nei
confronti dell’altro: persino colui che è povero e vive miseramente ha
il dovere di fare tzedakà.
La sua forza è quella di mettere sullo stesso piano chi la fa e chi la
riceve, senza far sentire chi la riceve in una condizione di
inferiorità verso chi l’ha donata; essa va fatta senza far conoscerne
la fonte o l’origine.
Essa è definita: “Ben adam le chaverò – fra l’uomo e il suo prossimo”.
I Rabbini del Talmud riassumono questi concetti apparentemente astratti
con tre termini che esprimono la massima materialità: Zom – Kol – Mamon
– Digiuno – Voce – Denaro!
Sono queste le tre azioni più importanti della nostra vita, per
ottenere il perdono divino e l’annullamento della sentenza cattiva
contro di noi.
Tutto, quindi, ha come posta in gioco la vita, la nostra vita che è
considerata il dono più importante che il Signore Iddio abbia fatto
all’essere umano e a tutti gli altri esseri del Creato, proprio quel
Creato che noi celebriamo in questa giornata; opera creativa che il
Signore con tutta la Sua grande bontà e giustizia ha fatto affinché
l’uomo potesse essere al centro della terra per curarla, sentendola una
cosa propria.
Gmar chatimà tovà!
Rav Alberto Sermoneta, rabbino capo di Bologna
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Storia, discussione, memoria
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A
quanto pare, alcuni licei italiani attiveranno in via sperimentale
corsi intensivi per permettere ad alcuni allievi di conseguire il
diploma in quattro anziché in cinque anni. Non so bene che esito avrà
tutto questo ma intanto le scuole e gli insegnanti discutono
animatamente sull’opportunità di aderire a questa sperimentazione.
Personalmente, a differenza di alcuni miei colleghi, non mi scandalizzo
per una scuola in 12 anni anziché 13 come in è già molti paesi, tra cui
Israele (anche se mi parrebbe un po’ illogica una riforma che
riguardasse solo la scuola superiore). E non mi scandalizzo neppure
quando sento parlare di orari settimanali più pesanti, lezioni
pomeridiane, ore di 45 minuti, ecc. Nelle scuole ebraiche siamo
abituati da decenni a questo ed altro: far stare in cinque giorni
settimanali tutte le ore curricolari, più le lezioni di ebraico ed
ebraismo, più la preparazione della recita di Purim, più la settimana
di Sukkot, più progetti di ogni genere, più visite, più varie ed
eventuali. Senza contare i giorni di chiusura in più per le festività
ebraiche. Sembra un’impresa impossibile ma poi in un modo o nell’altro
si trova la quadratura del cerchio. Ma per quanto si sia pronti a
correre, sintetizzare o selezionare, resta comunque la consapevolezza
che un’educazione ebraica (anzi, qualunque educazione che si possa
davvero definire tale) ha due fondamenti imprescindibili: la
discussione sui testi e la memoria.
Non sono sicura che fuori dal mondo ebraico ci sia altrettanta
consapevolezza dell’importanza di questi fondamenti, anzi, vedo una
preoccupante tendenza a sacrificarli, dato che entrambi appaiono
anomali in una scuola che tende sempre di più a ragionare per
competenze (cioè in cui si ritiene che conti non tanto il sapere ma il
saper fare).
Anna Segre, insegnante
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Lo scandalo del film Rom
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Mentre
in Europa il populismo nazionalista riscuote sempre più consensi,
l’Anica candida all’Oscar come film italiano “A Ciambra” di Jonas
Carpignano, un film incentrato sulla comunità Rom di Gioia Tauro, dove
gli stessi rom sono sia attori che protagonisti. Naturalmente infuriano
le polemiche anti-buoniste sul web quasi si trattasse di blasfemia.
Come può un film sui rom rappresentare l’Italia a Cannes? Forse una
pellicola sulle gesta o gli amori giovanili del Duce sarebbe stata più
indicata e gradita. Tra i commenti riportati dall’Espresso un ignoto
scrive “questi continui attacchi alla nostra civiltà e razza sono
polpette avvelenate provenienti o dai mercenari della grande finanza o
dagli occupanti dell’Europa, gli Usa”. Sarà, ma questa illuminata
argomentazione, tra le tante, riconduce alle solite idiozie sul
complotto giudaico-pluto-massonico guidato da Soros e altri oscuri
personaggi. Qualcuno è ancora certo che i numerosi xenofobi che stanno
prendendo piede in Occidente siano soltanto un male minore oppure degli
spassionati difensori della nostra “civiltà” così riscoperta
“giudaico-cristiana”?
Francesco Moises Bassano
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Digiuno della parola |
Sempre
di più a Roma il giorno di di Kippur si sta diffondendo anche “il
digiuno della parola”. Tra le tante cose che questa astensione può
significare, in prima battuta mi viene in mente quello che una volta
sentii dire da un mio maestro, che ammetteva la grande difficoltà, se
non impossibilità, di non dire qualcosa di controproducente e negativo
sul prossimo. Il silenzio allora potrebbe essere un buon rimedio a
questo problema e un punto di partenza per fare pulizia. Ma al tempo
stesso, mi chiedo come si possa fare gli altri giorni dell’anno, quando
il problema non potremo evitarlo. Abbiamo tutto un giorno per pensarci.
Ilana Bahbout
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