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3 ottobre 2017 - 13 Tishri 5778
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IDENTITÀ

Ebraico, lingua sacra e lingua viva

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img headerIl valore speciale della lingua ebraica e l’importanza per il popolo ebraico di mantenerla nell’uso corrente sono ampiamente evidenziati in diversi insegnamenti dei Maestri. L’ebraico è ovviamente definito innanzitutto nella sua qualità di lingua sacra “leshon ha qodesh”. Ramban (R. Moshe ben Nachman) spiega che questa definizione si deve al fatto che l’ebraico è la lingua con la quale D.O ha creato il mondo, è la lingua della Torah e dei profeti d’Israele, gli stessi Nomi con i quali D.O si manifesta sono espressioni della lingua ebraica (Commento alla Torah su Esodo 30,13). Il carattere assolutamente particolare dell’ebraico come lingua sacra è stato ampiamente sviluppato da R. Yehudah Ha- Levì nel “Sefer Ha-kuzarì”. Egli introduce anche delle considerazioni attraverso le quali traccia il nesso tra la lingua ebraica e la storia del popolo d’Israele: in un sintetico excursus sulla continuità dell’ebraico dalle origini dell’umanità nel racconto biblico fino ad Abramo, Yehudah Halevi afferma che il primo patriarca si esprimeva in aramaico nella prassi della vita quotidiana mentre l’ebraico era per lui lingua sacra, destinata alla vita spirituale. In questa suddivisione troviamo quindi esplicitata quella distinzione, che poi si sarebbe ampiamente diffusa, tra lingua parlata – espressione della civiltà locale in mezzo alla quale gli ebrei si sono trovati a vivere, e lingua ebraica, utilizzata per la vita religiosa. Il grande autore del Kuzarì tratteggia poi la forza vitale dell’ebraico, quale è dato riscontrare nella Bibbia, in cui questa lingua è in grado di esprimere con precisione e forza espressiva gli argomenti più diversi, dalla narrazione alla poesia, dalle argomentazioni di Giobbe ai più minuti particolari del Tabernacolo (Mishkan) e degli oggetti sacri, rispetto all’impoverimento subito dalla lingua ebraica, in un processo parallelo alla condizione di decadenza e sofferenza del popolo ebraico.

Giuseppe Momigliano, Rabbino capo di Genova e Consigliere UCEI
Pagine Ebraiche, settembre 2017

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BIOGRAFIE

Nel nome di Gerda che fotografò la storia

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Helena Janeczek / LA RAGAZZA CON LA LEICA / Guanda

Il 1° agosto 1937 una folla sventolante bandiere rosse attraversa Parigi. È il corteo funebre per Gerda Taro, la prima fotografa caduta su un campo di battaglia, mentre svolgeva il suo lavoro. Gerda era rimasta uccisa in Spagna, dove si trovava per documentare la guerra civile assieme al suo compagno, il futuro maestro della fotografia Robert Capa. Appena ventisettenne, era stata travolta da un carro armato che aveva sbandato nel caos generato da un raid dell’aviazione tedesca.
Di origini ebraico-polacche, Gerda (il vero nome era Gerda Pohorylle) era nata a Stoccarda. Giovanissima si era accostata ai movimenti socialisti e rivoluzionari, e a causa del suo attivismo aveva subito anche un arresto. Era dunque emigrata a Parigi, dove era diventata la compagna di Capa (al secolo Endre Friedmann, anch’egli di origini ebraiche).
Compagni di vita, di lavoro e di battaglie politiche, la loro avventurosa e romantica storia si concluse tragicamente. Ma Robert Capa (pseudonimo peraltro inventato insieme a Gerda, e inizialmente utilizzato da tutti e due per firmare le fotografie) rimarrà legato alla sua figura per tutta la vita.

Marco Di Porto

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PRIMO LEVI IN MOSTRA AL QUIRINALE

La bella addormentata nel frigo multimediale

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A trent’anni dalla scomparsa, tra le acquisizioni più importanti della “riscoperta” di Primo Levi vi è la piena consapevolezza che egli sia stato narratore di gran lunga eccedente la qualifica di “testimone”, sia pur d’eccezione, o di icona della memoria.
Lo attestano importanti operazioni editoriali che hanno restituito la complessità della sua figura, come la nuova edizione delle Opere complete (Einaudi, 2016), quella in lingua inglese The Complete Works (Liveright 2015) e l’enciclopedia leviana scritta da Marco Belpoliti, Primo Levi di fronte e di profilo (Guanda, 2015).
Emerge come la scrittura di Levi sia un reagente in grado di esprimere un’immagine sfaccettata e multidimensionale della condizione umana, tra esperienza quotidiana ed etica universale e tra gli estremi della profondità che caratterizza la descrizione del lager e i colpi di ala ironico-parodistici della produzione fantastica.

Enrico Manera, Doppiozero, 3 ottobre 2017 

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Società

All'armi siam razzisti  

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Il calvario della Turchia

Luigi Manconi, Federica Resta / NON SONO RAZZISTA, MA / Feltrinelli

È possibile, è giusto, giudicare in blocco i comportamenti di un intero popolo? La risposta di Primo Levi, come sappiamo, era sì. Ci sono tendenze generali, a cui i singoli possono sottrarsi (e così facendo non condividerne la responsabilità) ma a cui la maggioranza obbedisce: e questa obbedienza di massa legittima un giudizio collettivo. Levi pensava alla Germania ai tempi della Shoah; nel loro Non sono razzista, ma (Feltrinelli), Luigi Manconi e Federica Resta si interrogano invece sull'Italia dei nostri giorni.

Guido Barbujani,
Il Sole 24 Ore Domenica, 1 ottobre 201
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Sean McMeekin / IL CROLLO DELL'IMPERO OTTOMANO / Einaudi

Quando nel 1923, dopo oltre 11 anni di guerra, scese la pace sugli ex possedimenti ottomani, fu difficile calcolare il numero delle vittime. Quattro o cinquecentomila soldati erano morti nel corso della Prima guerra mondiale. I morti, però, furono molti di più. La popolazione che abitava in terra turca prima del 1911 ammontava a 21 milioni di persone. Nel 1923 si era ridotta a meno di 17 milioni. Uno degli imperi che la Grande guerra portò via con sé fu quello ottomano.

Paolo Mieli,
Il Corriere della Sera,
3 ottobre 201
7

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