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5 novembre 2017 - 16 Cheshvan 5778
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Ebrei e arabi, i dati e le previsioni sulla popolazione della capitale

Gerusalemme, numeri che raccontano il futuro

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Gerusalemme, la capitale di Israele, è stata riunificata nel 1967 dopo essere stata divisa in due parti in seguito alla guerra d'indipendenza nel 1948. Con il trasferimento della piena autorità governativa israeliana sulla città, l'ente locale responsabile per tutti gli 833000 residenti sul territorio comunale è il Comune di Gerusalemme, che è anche il più popoloso in Israele. Le circostanze storiche e geopolitiche della popolazione della città sono note. Esiste grande diversità in termini di religione e di etnia, con la divisione principale fra ebrei e arabi-palestinesi; poi, all'interno della parte ebraica fra haredim, religiosi, tradizionalisti, e secolari; e nella parte araba fra musulmani e cristiani delle diverse denominazioni. La popolazione si distribuisce in modo molto diseguale tra i diversi quartieri. Nelle parti occidentali della città unita, la stragrande maggioranza degli abitanti (318000) sono ebrei. Nella parte orientale, settentrionale e meridionale aggiunte alla superficie comunale nel 1967 vivono 565000 residenti in maggioranza arabi (332000), con una forte minoranza di popolazione ebraica (233000) che risiede nei nuovi quartieri costruiti dopo la riunificazione della città. La popolazione di Gerusalemme è in costante aumento e a ritmo notevole, ma il tasso di crescita delle varie parti della città è molto diverso, soprattutto fra la popolazione ebraica totale e la popolazione araba totale. La questione è dunque dove va Gerusalemme da un punto di vista demografico. È una domanda dagli evidenti risvolti politici che non può essere evitata da chi voglia seriamente guardare al futuro, e magari anche influenzarlo. Nei dati seguenti, includeremo nella popolazione ebraica anche quella minoranza di cittadini arrivati in Israele sotto la Legge del Ritorno, discendenti e altri familiari non ebrei di ebrei, che nel Registro della popolazione sono segnati come senza religione.
img headerLa tabella 1 illustra l'aumento della popolazione di Gerusalemme tra la fine del 1967 e la fine del 2016. Dopo la Guerra dei Sei Giorni, la popolazione complessiva della città era di 267800, di cui 196800 ebrei, e 71000 arabi. Alla fine del 2016, Gerusalemme aveva una popolazione di 882700 abitanti, di cui 550100 ebrei e 332600 arabi. Durante questi 49 anni la percentuale di ebrei (e persone senza religione) sul totale cittadino è costantemente diminuita, da 73,5% alla fine del 1967, 71,4% nel 1983, 67,6% nel 1995, 66,0% nel 2005, e 62,3% alla fine del 2016. In complesso, dalla sua unificazione, gli abitanti di Gerusalemme sono aumentati del 230%, ma la parte ebraica è aumentata del 180%, contro il 368% nella parte araba. Questi ritmi di crescita differenti riflettono principalmente due fattori demografici: l'incremento naturale, che compendia i diversi tassi di fecondità nei vari gruppi e settori, e il bilancio delle migrazioni interne tra Gerusalemme e gli altri comuni del paese. La natalità più elevata degli arabi – con la mediazione di una composizione per età giovane che si riflette in tassi di mortalità molto bassi – determina ritmi di crescita naturale molto più alti nel settore arabo che nel settore ebraico. Il saldo migratorio interno dei residenti ebrei di Gerusalemme è fortemente negativo, mentre resta positivo per i residenti arabi. Negli ultimi anni, il divario nei tassi di crescita dei due settori principali della popolazione si è leggermente ridotto, ma dal 2010 al 2016 la popolazione ebraica è cresciuta del 7%, mentre la popolazione araba è cresciuta del 17%.

Sergio Della Pergola, Università Ebraica di Gerusalemme

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il ventiduesimo anniversario dall'assassinio del leader israeliano

A Tel Aviv, per non dimenticare Yizhak Rabin

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Secondo alcune stime, sono state 85.000 le persone radunatesi in piazza Rabin a Tel Aviv per ricordare, sabato sera, il ventiduesimo anniversario dall'assassinio del Primo ministro israeliano Yitzhak Rabin. Una partecipazione ampia per un evento organizzato da due realtà considerate di centro: il movimento Darkenu e l'organizzazione "Comandanti per la Sicurezza di Israele", che hanno scelto come slogan della manifestazione "Noi siamo un popolo", richiamando all'unità del Paese, e hanno scelto di non includere rappresentanti politici a livello nazionale nella lista degli oratori. Durante la cerimonia – partecipata ma non priva di polemiche - Amnon Reshef, presidente di Comandanti per la sicurezza di Israele, ha detto che solo una combinazione di superiorità militare e di azioni diplomatiche potrà garantire il futuro di Israele. “I palestinesi non vanno da nessuna parte, e noi staremo qui per sempre”, ha aggiunto Reshef. Del rapporto invece interno alla società israeliana in riferimento agli insediamenti  ha parlato Kobi Richter, presidente di Darkenu. Richter ha affermato che la maggior parte di chi vive negli insediamenti respinge le idee degli estremisti e capisce la necessità di “uno Stato con una maggioranza ebraica, con piena uguaglianza per tutti e forti istituzioni democratiche”. Secondo Richter poi la maggior parte di chi vive a Tel Aviv vuole “creare una vera connessione con i moderati che la pensano diversamente da loro, ma condividono lo stesso obiettivo. Siamo moderati che si ascoltano da entrambi i lati dello stesso centro politico. Siamo la stragrande maggioranza. Ciò che ci unisce è più grande di ciò che ci divide”.
Su Yedioth Ahronoth, il giornalista Nahum Barnea ironizza sulla manifestazione dandole l'etichetta di "protesta light", lamentando la mancanza della rabbia e delle lacrime che erano emblematiche dei primi raduni negli anni immediatamente successivi all' omicidio e scrivendo che l' unità non è il punto. “Un popolo, o due o quattro, la questione che sta dietro l' omicidio non è quante nazioni vivono qui, ma quali sono le regole del gioco per il confronto politico, chi è l' autorità statale e chi ha la sovranità. Se arriveremo a un altro momento in cui l'integrità della terra d'Israele si scontrerà con l'integrità del governo, quello che è accaduto la notte dell'omicidio di Rabin accadrà di nuovo. Ci sono abbastanza persone che considerano la grande terra d'Israele come la cosa più importante e la loro influenza politica non ha fatto che guadagnare (consensi) dopo l'assassinio (di Rabin)”.

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ex capi del mossad e dello shin bet considerano positiva l'intesa

Voci israeliane per l’accordo nucleare iraniano

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A metà ottobre il Presidente Usa Donald Trump si è rifiutato di “certificare” l’accordo sul nucleare iraniano, decisione che potrebbe preludere a una revoca vera e propria del trattato a meno di un voto del Congresso americano, entro 90 giorni, in cui questo dichiara che l’Iran sta rispettando gli impegni presi. L’annuncio di Trump ha creato subbuglio e preoccupazione non solo in Europa, dove come era prevedibile vi è preoccupazione per le possibili ripercussioni militari e quelle commerciali, ma inaspettatamente anche in ambienti militari negli Stati Uniti e in Israele.
Gli interessi dell’Europa per una continuazione dell’accordo sono abbastanza chiari. Da un lato la vicinanza geografica con l’Iran e col Medio Oriente fa sì che una eventuale escalation militare tra Iran e Israele arriverebbe a toccare i confini dell’Unione europea. Dall’altro lato gli interessi economici: da quando un anno fa è stato stipulato l’accordo con l’Iran, diversi colossi industriali francesi e tedeschi (tra questi Airbus, Total, Peugeot e Siemens) hanno effettuato massicci investimenti in Iran. Peraltro, anche l’industria americana non ha resistito alla “tentazione” e la Boeing di Seattle si è impegnata a vendere all’Iran ben 110 aeromobili. Ovviamente una disdetta dell’accordo e una ripresa delle sanzioni contro l’Iran costringerebbe queste aziende europee e americane ad abbandonare i loro progetti e comporterebbe pesanti perdite. Un sostegno inaspettato, e in linea di massima “disinteressato”, all’accordo con l’Iran è stato invece fornito dall’establishment di sicurezza e militare statunitense e israeliano.

Aviram Levy, economista

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