Se non leggi correttamente questo messaggio, clicca qui      10 Luglio 2020 - 18 Tamuz 5780
13 LUGLIO 1920, IL ROGO ALLA CASA DELLA CULTURA SLOVENA

Trieste, cento anni dopo le fiamme
L'Italia fa i conti con la violenza fascista

Il 13 luglio del 1920 due bambini guardano con animo diverso le fiamme che avvolgono il Narodni Dom, la Casa della cultura slovena di Trieste. Entrambi diventeranno simboli della storia e della cultura del Novecento europeo, delle sue tragedie e dei suoi successi. Entrambi testimoni della tante identità di una città di frontiera come Trieste. Uno di quei bambini è Gillo Dorfles. Ha 10 anni e da lontano, dal suo appartamento, guarda l’incendio appiccato dai fascisti divorare l’edificio che rappresenta il centro culturale ed economico della minoranza slovena in città. Quelle fiamme sono uno degli atti fondativi del fascismo e della sua feroce politica di distruzione dell’altro, di cancellazione delle minoranze, slave o ebraiche che fossero. Non c’è spazio per il diverso, nemmeno nella città modello di convivenza. “A Trieste allora il mondo ebraico conviveva con la comunità greca, con quella serbo ortodossa e slovena e proprio questa diversità di radici e di culture era all’origine delle fortune di quella città. A Trieste era del tutto normale parlare due o tre lingue”, racconterà a Pagine Ebraiche Dorfles, ricordando gli anni della giovinezza. Dell’incendio del Narodni Dom, ricorderà: “Abitavo nella strada di fronte, che allora si chiamava via Vienna. Ho visto l’incendio dalle finestre di casa mia che si trovava a quattro-cinque fabbricati di distanza. Mi ricordo di aver visto le fiamme e di aver udito un paio di spari”. Se Dorfles rimase a distanza chi corse invece subito a guardare la sua casa della cultura bruciare fu Boris Pahor, scrittore italiano in lingua slava, esempio vivente di cosa significhi dedicare la vita a combattere i totalitarismi e a lottare per la memoria e per la giustizia. Una lezione che a lungo ha cercato di trasmettere alle future generazioni: “I ragazzi devono imparare a pensare. E a non farsi infinocchiare dai potenti di turno”, dirà a Pagine Ebraiche in un’ampia intervista firmata da Daniela Gross in cui parla del suo passato di perseguitato e del ruolo di testimone. Il giorno del grande rogo fascista del Narodni Dom, è impresso nella memoria di Pahor: “Il pomeriggio del 13 luglio del 1920, non avevo ancora compiuto sette anni, cominciai a sentire un gran trambusto di movimenti e grida, senza capire che cosa stesse accadendo. Vivevamo allora in via Commerciale, in centro, quando una vicina venne ad annunciarci in ambasce che il Narodni Dom, a due passi da casa nostra, stava andando a fuoco. Non ci pensai due volte. Senza dire nulla a mia madre, presi per mano la mia sorellina Evelina, che allora aveva quattro anni, e ci precipitammo a vedere. Assistemmo a uno degli spettacoli più impressionanti della mia infanzia: da ogni finestra dell’edificio baluginavano lingue di fuoco. La gente che frequentava il Narodni Dom era riuscita a uscire, mentre gli ospiti dell’albergo erano rimasti intrappolati. Lanciavano grida di aiuto in italiano e in sloveno, ma gli squadristi, inebriati di pazzia, impedivano i soccorsi”. “Fu la ‘notte dei cristalli’ italiana e il mio primo violento e brutale contatto con il fascismo, che nel ventennio ebbe solo a confermare le premesse di quella che sarebbe stata la vita di noi sloveni sotto il regime”, il racconto di Pahor. Quell’evento fu per lui la prima scintilla dell’impegno di una vita: scrivere per testimoniare. “Credo che il mio talento letterario, pur inconsapevolmente, sia riconducibile a quell’evento. Con una finalità: scrivere per testimoniare. L’obiettivo prese corpo molti anni dopo, dopo i campi di concentramento, dopo il nazismo. Così divenni scrittore”, ha sottolineato di recente Pahor. Oggi, a 106 anni, è un monumento vivente alla Testimonianza, alla lotta contro il conformismo violento che uccide le diversità. Lui che dopo l’8 settembre – tornato a Trieste dopo essere andato sul fronte libico con l’esercito italiano – sceglie la clandestinità e si unisce alle truppe partigiane slovene attive nella Venezia Giulia. Nel 1944 viene catturato dai nazisti e internato a Natzweiler-Struthof, Dora e Bergen Belsen. Finita la guerra, torna a Trieste, dove aderisce a numerose imprese culturali dell’associazionismo cattolico e non-comunista sloveno. Il suo impegno politico non declina mai, nemmeno con l’avanzare dell’età. Dimenticato a lungo dall’Italia, mentre in Slovenia e in Europa è una celebrità, Pahor si è fatto portavoce infaticabile delle sofferenze della minoranza slovena sotto il fascismo. Ha chiesto per anni, nel silenzio di molti, riconoscimento e giustizia per quelle vittime. E il prossimo 13 luglio, a cent’anni dal rogo del Narodni Dom, sarà presente a un passo importante in questa direzione: la restituzione alla Comunità slovena d’Italia dell’edificio che oggi è sede della scuola per interpreti di Trieste.
Una cerimonia a cui parteciperanno i capi di Stato dei due paesi, Sergio Mattarella e Borut Pahor. “È un segno tangibile di riappacificazione”, l’approvazione di Pahor, a cui per l’occasione saranno conferite diverse onorificenze. “Un passo importante di un lungo percorso”, gli fa eco Mauro Covacich, scrittore triestino che nel suo La città interiore (La nave di Teseo) ricorda l’incendio della casa della cultura slovena, definendolo uno dei grandi rimossi della storia di Trieste. “Per chi non è di qua – spiega a Pagine Ebraiche lo scrittore – è difficile cogliere il significato di tutto questo: se uno va oggi in un’osmitza, in queste trattorie dell’altopiano carsico tutto popolato dalla minoranza slovena, vede ragazzi italiani che mangiano serenamente accanto a ragazzi sloveni. Questa cosa, vissuta con totale indifferenza da chi viene da fuori, per noi sa ancora tanto di miracoloso: fino agli anni ’80 ai cortei a favore del bilinguismo arrivavano i fascisti a sprangare le persone. Per cui questa convivenza ora così pacifica, io la vivo come un miracolo rispetto al passato”. Parlando della storia sofferta di quella zona, Covacich sottolinea che sì non bisogna dimenticare cosa accadde alle foibe ma dall’altro lato non si può non parlare anche “dell’opera di italianizzazione coatta degli sloveni nella Venezia-Giulia, che ha comportato la perdita dei diritti di migliaia di persone. Non potevano parlare la propria lingua in pubblico, non avevano le scuole, avevano una vita di clandestinità. Non dimentichiamo che dalle nostre parti si andava al campo di concentramento perché eri ebreo ma anche se ti sentivano parlare lo sloveno”. Abusi che spiegano le ulteriori violenze del Novecento tra le due parti. “È una vicenda intricata, di cui il rogo del Narodni dom sembra l’esordio, che ora trova un riconoscimento formale con la restituzione della casa della cultura. La presenza di Mattarella è un gesto particolarmente importante sul piano formale. Può essere (il 13 luglio 2020) l’inizio di un nuovo percorso”.

Daniel Reichel

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PAGINE EBRAICHE

Balkan, braci d’Europa

Non conosco luogo migliore, per abbracciare l’Europa, della terrazza in cima al vecchio Hotel Balkan di Trieste. Dal tetto dell’edificio che le etnie slave del litorale vollero come primo centro culturale, sociale ed economico d’Europa e fecero realizzare da maestri dell’architettura viennese e della Secessione come Max Fabiani e Kolo Moser, si capisce come non sia una coincidenza se oggi lì ha casa la fucina di tutti i linguaggi e di ogni loro possibile trasposizione, la sede della scuola traduttori e interpreti dell’Università giuliana, il primo e più prestigioso centro accademico del settore. Dalla sua terrazza si comprende meglio il grande scrittore triestino di lingua slovena Boris Pahor quando afferma che la Storia si dà abitualmente appuntamento in questa piazza di scarso pregio architettonico. Lì hanno preso corpo l’Irredentismo, i nazionalismi, il fascismo, l’antifascismo, la Resistenza, le deportazioni, la Liberazione, la Cortina di ferro, la Guerra fredda, la speranza della nuova Europa. Lì, a pochi passi dall’immenso rosone della sinagoga, il Consiglio della Regione autonoma Friuli Venezia Giulia sventola oggi la bandiera del Patriarcato di Aquileia e proclama il proprio nome declinando le quattro radici cardinali, le quattro lingue, latine, ladine, germaniche e slave parlate dalle proprie genti.
Esiste un continente da Lisbona a Trieste e un altro da Trieste a Vladivostok. La faglia che segna la frontiera passa proprio sulla vecchia piazza della caserma, che l’Italia ribattezzò piazza Oberdan in omaggio al martire del primo irredentismo in questo luogo incarcerato e giustiziato. Il Balkan, dato alla fiamme nell’estate del 1920 dai fascisti subito inoculati dall’Italia nella polveriera etnica giuliana, fu secondo Renzo De Felice il debutto dello squadrismo, l’atto iniziale di tutti gli orrori che seguirono, dal primo tribunale speciale del fascismo, che già nel 1930 mandava a morte quattro giovanissimi oppositori, all’ordine di insurrezione del Cnl lanciato, su questa piazza della città più ferocemente laica d’Europa, da un prete partigiano. “Nel tragico spettacolo di quel pomeriggio – racconta dell’incendio del Balkan lo scrittore Giani Stuparich, medaglia d’oro e padre spirituale dell’irredentismo liberale – io avvertii qualcosa di immane: i limiti di quella piazza mi si allargarono in una visione funesta di crolli e di rovine, come se qualcosa di assai più feroce della stessa guerra passata minacciasse le fondamenta della nostra civiltà, e per lungo tempo non seppi sottrarre l’immaginazione alla vista di quelle creature innocenti (erano sposi stranieri di passaggio a Trieste e ben lontani da ogni odio nazionale) che, sorpresi nell’intimità dalla rapida violenza dell’incendio, s’affacciano al balcone implorando aiuto e poi, quasi impazziti, si gettano giù sul selciato. Mi parve che dietro la loro vana invocazione e il gesto atroce di impotenza degli spettatori si profilasse una schiera di milioni di vittime innocenti”.
Ferita a cielo aperto della Storia, oggi la piazza è luogo d’incontro, teatro spensierato dei primi amori, festoso capolinea della funicolare che alla prima curva subito affronta l’impervio stacco dal mare al Carso. Ma le braci che arsero allora non sono mai sopite.
“Dovette essere intorno all’epoca dell’incendio del Balkan – confida ancora lo scrittore – ch’io sfogai il mio animo con un ragazzo, o quasi ragazzo, ch’era venuto a trovarmi da Torino. L’avevo portato a colazione con me in una di quelle piccole trattorie triestine, che hanno un po’ della rozza semplicità della barca, odorano di buon pesce e di vino forte; e, a voltarsi verso la porta, si vede sempre un pezzo di mare. Mentre parlavo, mi guardava con i suoi occhi limpidissimi nella faccia scarna, sotto una zazzera di capelli biondi molto ricciuti. Mi lasciava parlare, ma quando mi rispondeva, il suo discorso, pur restando al segno, pareva provenisse da tutt’altro tormento, anzi meglio che da un tormento da una visione più rigida e cristallina delle cose; tale visione gli dava una calma singolare in contrasto con le sue aspirazioni immediate, per cui tutto era da riformare o, dopo il crollo necessario, da ricostruire ex novo”. Quel ragazzo che non aveva allora ancora vent’anni, ma solo poco margine per lanciare contro il fascismo la sua Rivoluzione liberale, era Piero Gobetti. “Quando gli chiesi – conclude Stuparich – se gli fosse piaciuta Trieste, mi rispose con un sorriso sottilmente ironico, come a compiangere l’agio con cui accarezzavo simili sentimenti, quando c’era tanta fretta di tener dietro a ben altre necessità”. Lungo gli accidentati, interminabili binari trasversali fra Torino e Trieste, gli interrogativi di allora, l’urgenza di opporsi al male, l’esaltazione della città piazza d’incontro di tutte le minoranze e la strenua urgenza di ricostruire l’Europa delle genti, attendono ancora risposta.

Guido Vitale

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Unanimità
A me pare semplice. Ci sono temi che non vedono una unanimità di giudizio all’interno delle comunità ebraiche. Nel contempo, tutti coloro che esprimono la loro opinione in quanto ebrei (che siano giudizi storici, politici o perfino religiosi) lo fanno credendo profondamente di perseguire il bene e desiderando un futuro positivo per il mondo ebraico e per le sue comunità. A fronte di questa situazione – molto comune e ricorrente – esistono altri ebrei singoli o gruppi organizzati che ritengono inopportuno che vengano espresse opinioni differenziate e pensano possa esistere una linea comune unica e condivisa da parte degli ebrei del mondo su tutta una serie di questioni.
Gadi Luzzatto Voghera
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Mascherine e mitzvot
Ci sono gli osservanti e i meno osservanti, i rigorosi che innalzano una siepe intorno alla regola per essere sicuri di non infrangerla e i lassisti, che si concedono qualche strappo con l’idea di preservare lo spirito più che la lettera della norma. Ci sono i difensori convinti della legge e delle sue motivazioni, quelli che dicono che sono tutte sciocchezze e una maggioranza silenziosa di persone non ostili alla regola ma troppo pigre e distratte per osservarla scrupolosamente.
Anna Segre
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Errori da non ripetere
"Pinechas figlio di Elazar, figlio di Aaron il Sacerdote” (Bemidbar 25 vv. 10-11).
Il Kelì Jakkar (Rabby Shelomò Efraim di Lontcitz XVII sec.), famoso commentatore della Torah, spiega il motivo per cui metta nella sua presentazione anche il nome di Aaron.
Egli sostiene che la colpa più grave di cui il popolo si è macchiato è stata quella del “Vitello d’oro”, generata anche da un contributo di Aaron.
Rav Alberto Sermoneta
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Minoranze sommerse
n quanti sono a conoscenza dell’esistenza di una “minoranza” slovena in Italia? All’avvicinarsi dell’anniversario dell’incendio del Narodni Dom di Trieste per mano dei fascisti (13 luglio 1920) dovrebbe quasi sorgere spontanea questa domanda. Non è ben chiaro quanti cittadini italiani di lingua o origine slovena siano presenti sul territorio nazionale, ed in particolare in Friuli Venezia-Giulia. Non esiste un censimento recente, nell’ultimo del 1971 erano più di 50.000 i madrelingua slovena nelle provincie di Trieste, Gorizia e Udine.
Francesco Moises Bassano
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