“La mia lunga battaglia contro i totalitarismi”
È nato ai tempi dell’imperatore Francesco Giuseppe per ritrovarsi oggi a fare i conti con le contraddizioni di un mondo sempre più globalizzato. E a 97 anni rimane un personaggio scomodo. Che non accenna a deporre le armi e, a torto o ragione, continua a urlare le sue verità con la voce educata e sommessa di chi ha imparato a remare contro il tempo e il silenzio. Lo scrittore Boris Pahor è oggi considerato uno dei massimi testimoni viventi della persecuzione nazifascista. Ha raccontato l’orrore dei lager in Necropoli, ormai un classico della letteratura concentrazionaria, che ha gettato una nuova luce sulla tragedia dei campi. E ha ripercorso con accenti indimenticabili la tragedia del suo popolo, quello sloveno, che dal fascismo nella Venezia Giulia viene privato della lingua e della cultura in un’escalation che culminerà nella brutalità della violenza. Intellettuale profondamente implicato nelle questioni del suo tempo, antifascista, partigiano, cattolico, riferimento per un’intera generazione d’intellettuali sloveni, nel dopoguerra non ha esitato a denunciare il massacro dei prigionieri di guerra anticomunisti e la tragedia delle foibe suscitando un’aspra reazione da parte del regime jugoslavo e pesanti diffidenze da parte italiana. All’inferno dei totalitarismi novecenteschi Boris Pahor ha dedicato articoli, saggi, interviste, romanzi e racconti. E – in una storia editoriale che ha dell’incredibile – ci sono voluti quasi quarant’anni perché le sue opere, scritte in Italia, amatissime in Francia e più volte segnalate per il Nobel, raggiungessero il pubblico italiano. Anche quello della sua Trieste, dove fino a pochi anni fa era un esimio sconosciuto. Oggi, raggiunta la notorietà ed entrato stabilmente nella classifica dei long seller, il professore continua a scrivere dedicandosi con determinazione a quella che considera una vera missione: il dialogo con i giovani. Per far conoscere loro l’abisso in cui sprofondò la civilissima Europa e ricostruire le matrici che ancora potrebbero portarci sull’orlo del baratro. “I ragazzi – dice – devono imparare a pensare. E a non farsi buggerare dai potenti di turno”. Lo incontriamo con la redazione di Pagine Ebraiche, a Trieste, in un’osteria sull’altipiano carsico dove tutti lo conoscono e lo salutano con rispettoso affetto. Il volto eclissato da un paio di enormi occhiali spessi, il fisico minuto, il professore sembra uno dei tanti anziani che trascorrono lì la mattinata tra un calice di vino e una partita a carte. Ma bastano poche battute a svelare una grande capacità di affabulazione che, unita a un’acuta intolleranza per la retorica e a un’ironia affilata, ci terranno avvinti per un paio d’ore in una conversazione non priva di spunti controversi, soprattutto sul tema della Memoria.
Professor Pahor, in Necropoli lei ha ripercorso la vicenda che dal campo di Natzweiler-Struthof nei Vosgi l’ha portata a Dachau e a Bergen Belsen. In che cosa la sua vicenda differisce da quella narrata in tante altre memorie?
Eravamo dei Triangoli rossi: eravamo i cosiddetti antinazisti, militavamo nelle organizzazioni clandestine. Eravamo stati presi per delazione e internati nei campi di concentramento e di lavoro: Buchenwald, Dachau, Dora e le loro dipendenze. Di campi così allora ce n’erano a centinaia in Europa. Quando si entrava chiedevano cosa si sapeva fare. Poi finché ci si reggeva in piedi si doveva lavorare. Di questa realtà si sa ancora molto poco e sono quasi sconosciuti gli episodi di resistenza e di sabotaggio che vi ebbero luogo, penso a quanto accadde a Dachau o a Dora, dove si fabbricavano i missili per il Terzo Reich, e a quanti vennero impiccati per il loro coraggio di disobbedire.
E i prigionieri ebrei?
Nei 14 mesi che trascorsi nei campi ne incontrai uno solo, all’infermeria del campo di Dora. Qualcosa mi suggerì che l’uomo malato nel letto accanto al mio poteva essere ebreo. Glielo domandai e mi rispose semplicemente “sì, purtroppo”. Fu l’unico contatto che ebbi allora con il mondo ebraico. Anche se so che vi furono alcuni ebrei che ebbero la fortuna di venire internati nei campi di lavoro anziché in quelli di sterminio. Ad esempio Imre Kertész, che incontrai molti anni dopo la guerra a Parigi, mi raccontò di essere stato scelto come lavoratore per un campo satellite di Buchenwald.
Da come ne parla sembra che la persecuzione dei politici e quella degli ebrei siano stati due universi paralleli, venuti a contatto solo di rado nell’universo concentrazionario.
In un certo senso è stato così. D’altronde dal punto di vista dei nazisti le motivazioni erano diverse: noi politici eravamo colpevoli di esserci organizzati per lottare contro di loro, gli ebrei erano colpevoli solo di essere tali.
Sembra quasi lei voglia dire che la Shoah non l’ha coinvolta.
Infatti. Perché dovrei sentirmi inglobato nell’Olocausto? Ero stato imprigionato e dovevo lavorare fino alla morte per le mie azioni. Se l’Olocausto è, come penso, la morte degli ebrei innocenti immolati dal nazismo non faccio parte di quella storia. La mia attiene ai campi di lavoro ed è di questo che parlo nei miei scritti: per combattere il pericolo che rinascano i totalitarismi e perché si deve sapere che in quegli anni vi fu chi combatté contro il nazismo per la libertà. Non sto facendo confronti tra le due vicende, ma solo dicendo che sono state differenti.
La Memoria è ormai un argomento che ricorre con grande frequenza nel discorso pubblico. A suo giudizio se ne parla in modo corretto?
Talvolta se ne fa un uso politico. E spesso, nel ricordare la propria tragedia, può accadere che si tenda a dimenticare quanto è stato fatto agli altri. A questo proposito citerei quanto avvenuto con le foibe. Quando se ne cominciò a discutere si trascurò di ripercorrere quanto era accaduto negli anni precedenti agli sloveni, con la politica di snazionalizzazione avviata dal fascismo e le sue dure conseguenze, censurando così una parte di storia e impedendone una piena comprensione. Tornando alla Shoah, spesso ho avuto l’impressione che Primo Levi fosse turbato proprio da quest’aspetto, soprattutto per le ripercussioni che ciò poteva avere nella percezione collettiva del conflitto mediorientale.
Lei incontra tantissimi ragazzi delle scuole per portare la sua testimonianza. Quale significato attribuisce a questo dialogo?
Credo sia molto importante e perciò ho avuto in questi anni centinaia di incontri con studenti. I giovani devono imparare a pensare con la loro testa e a studiare, non solo per essere promossi. E per questo devono leggere libri e accostarsi a esperienze di vita vissuta così da costruirsi una concezione autonoma della vita.
Che riscontro trova nelle scuole?
I ragazzi mostrano grande interesse per la storia. Bisogna raccontare loro quanto è accaduto ed è necessario che siano educati a cogliere i segnali che possono annunciare il pericolo di una dittatura. Per questo parlo loro anche di vicende meno note: dello sterminio degli zingari, dei militari italiani internati nei campi nazisti, delle organizzazioni della Resistenza o degli ebrei che si batterono contro il nazismo. Sia ben chiaro, però, che non si tratta affatto di un atteggiamento revisionista: il mio sforzo è quello di completare un quadro che in parte già conoscono. Per conoscere il passato bisogna essere a conoscenza dei fatti, anche se si continuano a trovare scuse per non dire ciò che davvero è stato.
A cosa si riferisce?
Ad esempio a quanto accadde agli sloveni della Venezia Giulia. In queste terre furono imprigionate centinaia di persone. Vi furono dei processi e alcuni giovani furono fucilati. Ma si stenta ancora a parlarne.
Cosa ne pensa dei viaggi della Memoria che in questi ultimi anni hanno coinvolto tante scolaresche?
Sono molto importanti per far conoscere ai ragazzi la realtà dei luoghi di sterminio. E non vanno considerati meno efficaci perché i giovani in queste occasioni possono divertirsi, cantare o addirittura andare a ballare: è solo un modo per dare sfogo alla vitalità di quell’età in un contesto che per loro è comunque di grande significato.
Che ricordo ha della realtà ebraica di Trieste, così duramente colpita dalla Shoah?
Una memoria lontanissima e molto tenera. Sono nato in via del Monte 13, in una casa alla sommità della salita su cui si trovava anche allora la scuola ebraica, davanti al vecchio cimitero ebraico. La sera mia madre stirava alla luce del lampione appeso a illuminarne l’entrata. Dei miei anni di ragazzo ricordo invece le passeggiate nel ghetto, prima che venisse abbattuto, con le sue piccole rivendite e quell’odore inconfondibile in cui il profumo del caffè si mischiava agli effluvi delle friggitorie di pesce. E poi i libri…
I libri?
Le botteghe di libri del ghetto erano sempre state molto apprezzate ma lo divennero ancor di più quando, sulla spinta delle persecuzioni, il flusso dei profughi che arrivava a Trieste dalla Germania e dai paesi dell’Est s’ingrossò. I fuggiaschi portavano con sé un vero tesoro di volumi in tutte le lingue che spesso prima della partenza verso la meta definitiva, la Palestina o le Americhe, finivano in vendita proprio lì.
Professore, è ottimista riguardo il futuro?
Sono ottimista per natura. A questo proposito mia sorella, scherzando, domandava sempre quando mi sarei deciso a diventare serio. Ma ci sono assai poche speranze per il domani, se non troviamo la maniera di stare al mondo in un altro modo.
(Il disegno è di Giorgio Albertini)
Daniela Gross – Pagine Ebraiche febbraio 2011