IN MEMORIA DI RENZO GATTEGNA - LO SPECIALE DI PAGINE EBRAICHE
Uomo del dialogo, figura esemplare
Sul numero di dicembre di Pagine Ebraiche un dossier e molte pagine speciali sono dedicate a Renzo Gattegna, l'ex Presidente dell'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane da poco scomparso. Un leader e un uomo indimenticabile, che ricordiamo anche attraverso una antologia degli interventi scritti negli anni per il giornale dell'ebraismo italiano.
Pubblichiamo la testimonianza del giornalista e storico Giovanni Maria Vian, ex direttore dell'Osservatore Romano, il quotidiano della Santa Sede.
La notizia della morte di Renzo Gattegna mi è arrivata inattesa e mi ha rattristato molto. Come molto mi ero rattristato quando Ilana, consorte di una vita, mi aveva scritto dell’ictus che lo aveva colpito nell’aprile del 2019. Tornato a casa, le cose sembravano andare un po’ meglio, e dopo le festività sarei dovuto andare da loro per ritrovarci. Poi, invece, l’aggravamento. E proprio poche ore prima della scomparsa di chi è stato un indimenticabile presidente dell’UCEI, l’Unione delle comunità ebraiche italiane, mi era venuto – all’improvviso, mentre calava la sera – il pensiero dei due amici che con gioia pensavo di poter presto rivedere, così amabili e con i quali negli anni non sono mai state necessarie molte parole perché bastavano gli sguardi. Un pensiero che sono convinto mi sia stato, misteriosamente, inviato come il suo ultimo saluto.
Non ricordo l’occasione del primo nostro incontro, probabilmente una festa per l’indipendenza di Israele, ma a favorirlo furono Anna Foa e Lucetta Scaraffia, insieme a Guido Vitale, altro amico con il quale la comprensione è stata immediata e si è approfondita in modo sostanziale. Come priva di cerimonie, ma densa di simpatia reciproca, si è venuta intrecciando l’amicizia con Renzo Gattegna, nata e cresciuta durante gli undici anni in cui ho diretto L’Osservatore Romano, il giornale della Santa Sede, anni che hanno quasi coinciso con i tre mandati della presidenza di un "grande leader ebraico italiano", come con piena ragione l’ha subito definito il quotidiano dell’UCEI, scrivendo di una "scomparsa che lascia un vuoto immenso in tutto l’ebraismo e in tutta la società italiana".
Non sarà facile colmare questo vuoto, ma il lascito durevole di quest’uomo giusto a noi tutti, al di là di ogni appartenenza, è sicuramente quello di continuare sul cammino da lui percorso. Un cammino che Renzo Gattegna ha saputo seguire con un’apertura intelligente ed elegante, come trasmetteva subito il sorriso aperto e cordiale che gli illuminava il volto. Atteggiamento che gli veniva dal cuore, senza dubbio, ma credo anche dall’appartenenza alla comunità di Roma, orgogliosamente la più antica della diaspora, nella capitale dove gli ebrei arrivarono almeno due secoli prima degli apostoli Pietro e Paolo.
Qui, durante i mesi più bui dell’occupazione nazista della città, trovò riparo con la madre e i fratelli Sandro e Bruno in un convento di suore in via San Sebastianello, a ridosso della Trinità dei Monti, mentre il padre si era nascosto da amici: "Mi torna alla memoria – raccontò all’inizio del suo terzo mandato a Daniela Gross su Pagine Ebraiche dell’agosto 2012 – una suora che aiutava mia madre a farmi mangiare nascondendo i cibi che non mi attiravano e che rifiutavo, dentro l’insalata. E soprattutto la liberazione di Roma. Un giorno del giugno 1944 uscimmo dal convento e in piazza di Spagna vedemmo sfilare le jeep degli Alleati che a noi bambini regalarono caramelle e cioccolata. È una giornata che mi è rimasta per sempre impressa: per noi era la fine di un incubo".
Proprio verso la fine del suo terzo mandato, nel 2016, ci vedemmo una sera di maggio per una distesa conversazione, che pubblicai sul quotidiano vaticano insieme ad ampi stralci della relazione conclusiva della sua presidenza. Il racconto fu lungo e Renzo Gattegna significativamente volle subito ricordare la figura di Augusto Segre, capo del dipartimento culturale dell’Ucei, e la visione aperta dell’ebraismo di un uomo «portato a dialogare». La memoria poi andò al 1967, quando dalla Libia arrivò un’ondata di “tripolini” e agli ebrei romani si pose il problema di accogliere un’intera comunità "per farla sentire integrata".
Il ricordo dell’episodio mi parve rispecchiare benissimo l’atteggiamento di Renzo Gattegna, pacato e fiducioso, nei rapporti non semplici all’interno del variegato ebraismo italiano, con le istituzioni civili, con la maggioranza cattolica. Parlò dell’insegnamento di Elio Toaff, di papa Giovanni e dei suoi successori, ma soprattutto del concilio e della Nostra ætate, la dichiarazione sui rapporti con le religioni non cristiane che nel 1965 segnò una svolta e le cui celebrazioni cinquantenarie hanno confermato l’alleanza divina originaria, mai revocata e irrevocabile, con Israele. Conferma che è "un segno inequivocabile, un vero segno dei tempi" commentò il presidente uscente.
Ragionò poi dei "settant’anni di pace, libertà, benessere" nei paesi occidentali, insidiati dalla crisi economica mondiale, dal terrorismo, che infierisce soprattutto sui moderati e perseguita le minoranze, in particolare i cristiani, e dal deterioramento dell’ambiente, che è tra le cause delle migrazioni forzate. Ma si deve collaborare, ripeté il presidente: per "arrivare a una pacifica convivenza" perché, se è vero che il passato ha lasciato segni profondi, "è importante far prevalere la fraternità e consolidare questo momento, forse irripetibile".
Nella collaborazione tra fedi diverse un ruolo importante ha la laicità, e volle precisare: "La laicità, non il laicismo, che è un’ideologia antireligiosa". Evocò quindi il pericolo degli integralismi e i fondamentalismi, ripetendo che il pregiudizio è "basato sulla non conoscenza". In Italia l’interesse per l’ebraismo e la sua cultura è cresciuto molto, ma non così "la reciproca conoscenza tra ebrei e cattolici" perché "i cambiamenti sono rimasti finora nelle élite".
Un atteggiamento religioso ma al tempo stesso aperto e laico che appare con chiarezza nella relazione conclusiva della sua presidenza: "L’ebraismo deve conservare le sue caratteristiche originarie di rifiuto di qualsiasi forma di idolatria" disse, affermando che "un futuro dell’ebraismo che sia degno dei suoi valori universali e delle sue gloriose e plurimillenarie tradizioni non potrà esistere senza l’uscita da qualsiasi forma di isolamento". Parole che conservano un valore esemplare per tutti, come per tutti esemplare resterà la figura di Renzo Gattegna.
Giovanni Maria Vian – Pagine Ebraiche dicembre 2020
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DA QUALCHE GIORNO DISPONIBILE SU AMAZON PRIME
'The Gentlemen, film che alimenta il pregiudizio'
Una collezione movimentata di stereotipi, gettati al grande pubblico senza molta cognizione. L’ultimo film di Guy Ritchie “The Gentlemen”, in Italia disponibile in questi giorni su Amazon Prime, è stato sostanzialmente stroncato dalla critica all’uscita nelle sale in Gran Bretagna e Stati Uniti nel gennaio scorso. Difficile non condividere il giudizio della critica vista l’accozzaglia di stereotipi ritratta nella pellicola, con il Washington Post che denuncia una deriva antisemita nella retorica presentata da Ritchie.
The Gentlemen è la storia di un trafficante di droga – Mickey Pearson, interpretato da Matthew McConaughey – che vuole cedere il suo impero al miglior offerente. A contenderselo sono un miliardario ebreo-americano – Matthew Berger, interpretato da Jeremy Strong – e un mafioso cinese, “Dry Eye”, interpretato da Henry Golding.
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PREMIO LETTERARIO ADEI WIZO - LA CERIMONIA
"Cultura e libri il nostro antidoto all'antisemitismo"
“La bellezza di un libro, il fascino delle parole stampate sulla carta, l’incontro virtuale con autori generosi e integri. È il nostro mezzo per combattere il rinascente antisemitismo in un’epoca in cui rigurgiti preoccupanti e frequenti atti di intolleranza riportano ad antiche angosce”. Nelle parole della presidente nazionale Adei Susanna Sciaky lo spirito che da sempre anima il premio letterario organizzato dalle donne ebree d’Italia in memoria di Adelina Della Pergola. Giunto alla ventesima edizione, il concorso ha vissuto il suo ultimo atto – la cerimonia di premiazione – in un’inedita modalità digitale.
Ad aggiudicarsi il premio principale è stato il romanzo storico Ida (ed. Sellerio) di Katharina Adler. Al centro la vicenda di Dora, alias Ida Bauer, l’unica paziente psichiatrica ad aver abbandonato la terapia con Freud. Una lettura avvincente scelta per la sua capacità di esaltare “il processo identitario e di indipendenza di una figura femminile realmente esistita, una protagonista che incarna un femminismo autentico che combatte le convenzioni sociali e i pregiudizi culturali”.
(Nell'immagine Katharina Adler, vincitrice del Premio con il romanzo storico Ida)
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LA CONFERENZA DI ANAVIM
Gerusalemme, Anversa, New York:
i haredim e le sfide del presente
Molto pubblico e grande interesse hanno caratterizzato un incontro virtuale dedicato dall’Associazione Culturale Anavim di Torino all’argomento “Il mondo dei Charedim tra Gerusalemme, Anversa, New York”. Il tema era certo molto attuale e discusso, ma anche non facile e scomodo. Non facile da mettere a fuoco, perché dell’universo cosiddetto “ultraortodosso” nell’ebraismo italiano tanto si parla ma in realtà poco si conosce davvero. Scomodo, perché oggi, nel pieno della pandemia, quell’orientamento è più che mai al centro delle polemiche per la sua opposizione alle misure di confinamento anti-Covid. Anavim ha avuto il merito di non collocarsi sull’onda del sin troppo facile e sdegnato giudizio a senso unico alimentato dai mass media, cercando invece di guardare a quel mondo con un occhio di rispetto e la volontà di comprenderne vita e atteggiamenti in un’ ottica ebraica, pur mantenendo l’obiettività di una distanza critica.
(Nell’immagine Shtisel, serie Netflix di grande successo dedicata al mondo dei Haredim)
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Il gesto di Brandt
Il gesto muto, in solitudine, di Willy Brandt, cancelliere della Repubblica Federale tedesca, a Varsavia il 7 dicembre 1970, di inginocchiarsi di fronte al monumento agli Eroi del ghetto di Varsavia, non fu accolto né con favore né come un atto dovuto e liberatorio né in Germania, né in Polonia.
Per molti in Germania quel gesto voleva dire responsabilizzarsi di un atto non loro.
Per quasi tutti in Polonia voleva dire riconoscere un primato alle vittime” non polacche”.
Quanto quelle reazioni parlano dei sentimenti in atto nel nostro tempo?
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Le parole
Affermava Mallarmé che «enunciare significa produrre». La realtà entro la quale viviamo non è fatta solo di soggetti e di oggetti, di persone e di cose ma anche di parole che veicolano, distribuiscono, socializzano – rendendole condivisibili e facendole divenire senso comune – rappresentazioni e immagini della nostra quotidianità. Le quali divengono, in tale modo, il senso stesso di quel che facciamo e di quel che ci accade. Orientandoci in una direzione o nell’altra, verso una meta piuttosto che una diversa; aiutandoci quindi a scegliere e, a volte, a farci divenire oggetto di scelta. Secondo un presupposto per il quale ciò che diciamo ha una straordinaria importanza, dando una consequenzialità di significati ai nostri gesti. In altri termini, possiamo dire che la parola crea. E, al medesimo tempo, distrugge.
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