Le parole
Affermava Mallarmé che «enunciare significa produrre». La realtà entro la quale viviamo non è fatta solo di soggetti e di oggetti, di persone e di cose ma anche di parole che veicolano, distribuiscono, socializzano – rendendole condivisibili e facendole divenire senso comune – rappresentazioni e immagini della nostra quotidianità. Le quali divengono, in tale modo, il senso stesso di quel che facciamo e di quel che ci accade. Orientandoci in una direzione o nell’altra, verso una meta piuttosto che una diversa; aiutandoci quindi a scegliere e, a volte, a farci divenire oggetto di scelta. Secondo un presupposto per il quale ciò che diciamo ha una straordinaria importanza, dando una consequenzialità di significati ai nostri gesti. In altri termini, possiamo dire che la parola crea. E, al medesimo tempo, distrugge. Divenendo destino per chi la pronuncia e, soprattutto, per chi ne subisce gli effetti. Si pensi, tanto per fare un esempio, all’espressione «ebreo»: in non pochi frangenti della storia essa ha assunto un significato diffamante e distruttivo per coloro che ne diventavano destinatari o che con essa erano identificati. Arrivando a legittimare le pratiche più estreme, come lo sterminio fisico. Rosetta Loy, con la mestizia e la misura che le sono proprie, ne ha parlato nel suo resoconto familiare su «La parola ebreo» (Einaudi, Torino 1997 ed edizioni successive), laddove ricostruisce la reciprocità che sempre intercorre tra uso prescrittivo del linguaggio (ti dico chi sei e come devi comportarti) e passivizzazione del pensiero (ti adegui e taci). Prescrivere nel senso di stigmatizzare e, quindi, isolare. Rendere passivo il pensiero poiché esso si accomoda nelle ripetizione acritica di parole morte, tali in quanto svuotate del mutevole significato che la vita invece gli dà. Il linguaggio totalitario si costruisce intorno a questa rigidità strutturale. Che è metodo e, al contempo, contenuto. Metodo con il quale stabilisce, attraverso dei filtri intellettuali, cosa è lecito dire, espellendo ciò che non sia da considerarsi tale. Attraverso l’“igiene del linguaggio”, ossia l’esclusione di ciò che è ritenuto non omologabile, si emarginano anche i significati considerati eterodossi. E con essi coloro che se ne fanno portatori ed espressione, ovvero le stesse persone. Il molteplice, la varietà della quale una lingua è sempre manifestazione, sono avversati come un rischio per la fittizia ma decantata unitarietà della «comunità popolare». La quale è pensata e idealizzata come omogenea, priva di quel pluralismo di identità, culture ed esperienze che sono invece sempre e comunque a fondamento della storia. Per il totalitarismo l’identità corrisponde al «sempre identico», all’uguale, al ripetuto indefinitamente. Sia sul piano mentale ed ideologico che su quello sociale e comportamentale. La lingua, quindi, ne deve essere specchio e fedele rappresentazione. La lingua dei totalitarismi è infatti, al contempo, povera, enfatica, mitologica, ripetitiva. Quel che la connota, in un’unica espressione, è la perdita di ricchezza delle sue tante sfumature di significato insieme alla ripetizione di schemi semplicistici che si fanno tuttavia calco profondo, qualcosa che rimane impresso nella mente delle persone. Alla sua radice c’è il suo costituire un sistema dove gli imperativi dell’oblio, dell’omertà, della collusione e del silenzio sono ben espressi dagli idiomi, dalle espressioni, dalle affermazioni, dalle urla e dagli strepitii ripetuti ossessivamente. Già George Orwell, nel suo «1984», si era ripetutamente soffermato sui caratteri di quella che aveva definito come «neolingua» e sulla sua miscela di contrazione e violazione. Contrazione dei significati, violazione del senso. Rarefazione della ricchezza dei primi, alterazione, sovrapposizione e distruzione dell’ordine nel secondo. Ovvero un impoverimento secco delle accezioni da attribuire alle parole, che perdono la loro ricchezza concettuale. L’univocità del senso dei termini è funzionale alla cancellazione delle individualità, alla soppressione delle soggettività, all’eliminazione di ogni spazio residuo nel quale il singolo possa costruirsi un’area protetta dalla pressione collettiva. Un esempio, a tale riguardo, era la ripetizione delle frasi come «la pace è guerra» e «la guerra è pace». Uno sversamento maniacale, un mescolamento continuo, una confusione voluta. Può apparire paradossale alla lettura razionale, misurata e distanziata che tale travisamento (e travasamento) abbia possibilità di attecchire nella mente collettiva ma laddove alla sua formulazione si accompagni una ripetizione costante e sistematica, una legittimazione per parte delle fonti che lo esprimono – identificate con il potere, la cui funzione di legittimazione non è mai solo politica, in senso stretto. ma anche semantica – e una ripetizione attraverso i discorsi di senso comune, si otterrà un’adesione concorde alla introiezione, del tutto alterata, dell’ordine dei significati. A titolo di sintesi basta richiamare il fatto che la lingua totalitaria è viriloide (rifacendosi alle metafore sessuali e agli organi genitali, dei quali ambisce a rappresentarne la “potenza” in campo verbale) ed enfatica (fondandosi sulla veemenza delle tonalità e sull’ottundimento delle persone attraverso la propaganda ossessiva). A tal riguardo è utile rifarsi alla lettura di Victor Klemperer, un filologo tedesco di origine ebraica, che ci ha offerto con la sua opera «LTI. La lingua del Terzo Reich» (Giuntina editore, Firenze 1998 e successive edizioni) e i suoi taccuini dal titolo «Testimoniare fino all’ultimo» (Mondadori, Milano 2000) un preziosissimo resoconto dei processi che sono implicati dalla colonizzazione linguistica e quindi mentale, ai tempi di Hitler come, per estensione, in quelli odierni. Colonizzazione che va intesa per ciò che in fondo essa è da sempre, ovvero una invasione di campo ed una avocazione ad un unico attore sociale della funzione di produzione di significati. Attore che può essere, come nel passato recente, squisitamente politico oppure, come pare avvenire in tempi a noi coevi, anche economico. Si pensi alla pervasione e alla potenza dei linguaggi tecnici che, negli ultimi tre decenni, soprattutto attraverso gli anglicismi che li connotano (seducenti poiché sufficientemente esoterici e vacui da risultare adottabili e adattabili ai più diversi contesti), hanno conquistato il vocabolario e la semantica dello stesso discorso politico. Sia chiaro che non si tratta di un processo superficiale bensì di qualcosa di profondo, che coinvolge e conquista menti e coscienze. Poiché la lingua non è mai un fenomeno banale ma rimanda, nelle sue forme e nei suoi contenuti, alle sfere più intime – quindi complesse – della nostra coscienza. Il linguaggio totalitario, da questo punto di vista, ha un unico obiettivo: quello di cancellare la coscienza indipendente che è, nella sua essenzialità, coscienza di sé, compiuta e come tale sociale poiché basata su identificazioni ma anche e soprattutto su distinzioni. Elementi, questi ultimi, che sono alla base della esistenza libera e consapevole.
Claudio Vercelli
(6 dicembre 2020)