STANISLAW KRAJEWSKI SPIEGA A PAGINE EBRAICHE LE SUE DIMISSIONI
"Polonia, basta distorsioni della Memoria.
Perché ho lasciato il Museo di Auschwitz"
Sono bastati pochi minuti a Stanislaw Krajewski per decidere di dimettersi dal board del Museo di Auschwitz-Birkenau. “Pensavo che nessuno se ne sarebbe accorto. Non immaginavo diventasse una questione nazionale”, spiega a Pagine Ebraiche a poche settimane dall'esplosione del caso. “Appena ho saputo della nomina all'interno del board dell'ex premier Beata Szydlo (membro di spicco del partito Diritto e Giustizia), ho capito che non potevo condividere quella scelta”. E così ha inviato una lettera al ministero della Cultura polacco con le proprie dimissioni. “Lascio l'incarico perché temo una politicizzazione del Museo di Auschwitz-Birkenau, mentre la Memoria non è divisibile, è patrimonio di tutti. Comprendo la nomina di Szydlo, ma ritengo che un simile board non potrà funzionare”, il messaggio inviato al ministero da Krajewski, docente all'Università di Varsavia e rappresentante della Comunità ebraica locale. Per lui quella nomina rappresentava “l'ennesimo tentativo da parte del partito Diritto e Giustizia, che ha il controllo del paese, di applicare la sua 'politica della storia'. Si tratta di un progetto pericoloso, distruttivo e sbagliato di riscrivere la storia. In particolare quella della seconda guerra mondiale, in cui si enfatizzano solo le vicende positive rispetto alla Polonia, di come i polacchi aiutarono gli ebrei nella Shoah. Certo ci sono stati questi casi, ma ci sono stati molti altri esempi meno nobili e non possono essere cancellati”.
Una politicizzazione della Memoria storica della Polonia denunciata su queste pagine anche dal giornalista e intellettuale Konstanty Gebert. Per Gebert come per Krajewski l’ultraconservatore Diritto e Giustizia è impegnato in un’opera di riscrizione della storia nazionale. In questo processo, vanno censurate e cancellate tutte le ricerche su eventuali casi di polacchi responsabili di crimini contro gli ebrei, collaboratori dei nazisti, delatori. “Per Diritto e Giustizia i polacchi sono stati vittime dell’occupazione. Solo questo”, la posizione di Krajewski quanto di Gebert. E affermare, carte e documenti alla mano, il contrario significa infangare l’orgoglio nazionale. E quindi si viene chiamati a processo, come per gli storici Barbara Engelking e Jan Grabowski, o interrogati come la giornalista Katarzyna Markusz. O si fanno operazioni più sottili, denuncia Krajewski, come accaduto con il board nazionale del Museo di Auschwitz-Birkenau. “La nomina di Szydlo, a mio avviso, rientra in questo tentativo di politicizzazione della storia. Per questo mi sono dimesso. E così hanno fatto successivamente altri tre consiglieri. Questo board - spiega - è fatto da studiosi e accademici polacchi, non da politici. E l'ho sottolineato al ministero della cultura, da cui, dopo il clamore mediatico, ho avuto una cortese risposta. Mi si chiedeva di ritirare le dimissioni, spiegando che la nomina di un politico nazionale non danneggia il museo, ma anzi contribuisce ad aumentarne il prestigio”.
Nonostante il grande sostegno ottenuto e l'interesse mediatico internazionale, nulla però è cambiato sul terreno. “L'impressione è che il governo e Diritto e Giustizia non abbiano nessuna intenzione di rallentare. Nessuna protesta o manifestazione fino adesso li ha fermati o ha fatto cambiare loro direzione”, afferma con una certa rassegnazione Krajewski. Per lui, con un passato da dissidente sotto il regime comunista e di membro di Solidarność, l'atmosfera che si respira in Polonia è sempre più cupa. “Negli anni 90 tutto sembrava possibile, sembrava ci fosse un'aria di grande cambiamento. Sembrava fossimo diretti verso una strada meravigliosa, verso politiche liberali, atteggiamenti più aperti al mondo. L'antisemitismo sempre più circoscritto. C'erano cose sbagliate, ma ci sembravano meno influenti, meno visibili. E invece negli anni 2000 quelle cose sbagliate hanno cominciato a prendere il sopravvento”.
Nelle orecchie di Krajewski e dei polacchi ha iniziato a riecheggiare sempre più forte una retorica ipernazionalista e profondamente divisiva, agganciata a una visione della storia polacca improntata al vittimismo. “Dobbiamo chiarire una cosa: i polacchi hanno sofferto molto durante la seconda guerra mondiale e non è da dimenticare. E faccio un esempio che forse può rappresentare bene la situazione. Se incontri qualcuno in America che ti dice: 'sai mio padre è stato deportato ad Auschwitz'. Quasi automaticamente pensi che si tratti di un ebreo. Se dovesse accaderti la stessa cosa in Polonia, c'è un alta probabilità che invece quel prigioniero non era ebreo. E qui sta la differenza: Auschwitz ha un ruolo simbolico in Polonia per tutti”. Per questo, rileva Krajewski, non si può sottovalutare la percezione di essere stati vittime dei polacchi. Ma serve un passo ulteriore. “È necessario accogliere la complessità della propria storia e ricordare che sì i polacchi sono stati vittime, ma sono stati anche conniventi, e a volte partecipi dei massacri. E non si può cancellare con un colpo di spugna questo secondo elemento. Come invece il governo e i suoi funzionari cercano di fare ad esempio con la narrazione proposta nel museo della Seconda guerra mondiale di Danzica. E così in altre istituzioni pubbliche”.
Anche il Polin, il Museo della storia degli ebrei polacchi, non è rimasto immune dalle tensioni politiche. “Io sono coinvolto nel Museo e ho preso parte alla realizzazione della sezione sul dopoguerra. E ho visto le pressioni del governo per cercare di influenzare la nomina del nuovo direttore del Polin. Per fortuna si è trovato un compromesso ed è stato scelto il vicedirettore, ma questi tentativi sono indicativi di un'atmosfera generale che non può essere accettata”. Dall'altro lato proprio la nascita e costruzione del Polin, oggi punto di riferimento nella proposta culturale nazionale, è una nota positiva della storia recente della Polonia. “Credo sia stato molto importante per far fare chiarezza su quanto l'ebraismo sia stato centrale nella storia polacca. È un punto fermo importante”.
Si apre con una testimonianza sulla tragedia del Monte Meron la puntata di Sorgente di Vita in onda su Rai Due domenica 9 maggio.
Nel racconto di Miriam Camerini, alcuni momenti del pellegrinaggio di Lag Ba Omer in onore del rabbino e mistico dell’antichità Shimon Bar Yochai, che si è trasformato in una ressa da incubo che ha causato quarantacinque morti e centocinquanta feriti. Dopo i giorni del dolore e del lutto nazionale, Israele si interroga sulle responsabilità del maggior disastro civile nella storia israeliana.
Premio letterario Adei Wizo,
designati i vincitori
Il ghetto interiore di Santiago H. Amigorena (ed. Neri Pozza) nella sezione Adulti. Una voce sottile di Marco di Porto (ed. Giuntina) in quella dedicata ai ragazzi. Premio speciale, invece, a Verso casa (ed. Giuntina) di Assaf Inbari.
Sono le opere vincitrici del ventunesimo premio letterario Adei Wizo, intitolato alla memoria di Adelina Della Pergola.
L’incontro con i ragazzi delle scuole partecipanti e la premiazione, entrambe in modalità virtuale, si terranno tra 26 e 27 maggio.
Leggendo il recente intervento dello stimato professore Sergio Della Pergola (“Messaggio dall’isola di Pasqua”) nel quale parla dei pellegrinaggi a Meron come di “riti semi pagani”, ho pensato che alcuni concetti riportati nell’articolo possano costituire degli spunti per capire in maniera più vasta (e non legata soltanto alla tragedia avvenuta la settimana scorsa) la problematicità dei rapporti tra laici e ortodossi (haredim) nello Stato d’Israele.
La lezione di semiotica della comicità che ha impartito in un semplice ma incisivo articolo Daniele Luttazzi è ammirevole e definitiva. Lo diciamo e scriviamo da anni: le parole hanno un peso e sono un pericoloso veicolo di violenza se utilizzate in maniera imprevidente e sciocca. Dovrebbe essere, questo, un principio fondamentale della comunicazione, e il mondo dello spettacolo, così come quello dei media, devono assumersi la responsabilità del loro utilizzo. La censura non ha nulla a che vedere con tutto ciò. In gioco c'è la tutela dei più elementari principi di convivenza civile e di democrazia.
"Qualunque amore dipenda da una determinata cosa, viene meno non appena quella determinata cosa viene a mancare; invece l'amore che non dipende da nessuna cosa, non viene mai a mancare. Quale è l'esempio di un amore dipendente da una determinata cosa? L'amore di Amnon e Tamar. E quello che non dipende da nessuna cosa? L'amore di David e Jonathan." (Avòt 5;17).
Mi fa piacere che Alberto Cavaglion abbia ricordato su queste colonne la devozione degli ebrei italiani (e in particolare piemontesi) del XIX e XX secolo verso la figura di Napoleone Bonaparte: il 5 maggio del 21 non poteva passare inosservato. In generale mi pare che questo anniversario tondo sia trascorso un po’ in sordina rispetto a quello che ci si poteva aspettare. Sembra quasi che Napoleone non susciti particolari entusiasmi, per lo meno in Italia. E se la mia impressione è corretta, questo accade perché Napoleone ha tradito la rivoluzione francese o perché l’ha esportata?
In confronto ad altre grandi città, capire dove inizia e dove finisce Roma non sembra così difficile. Almeno percorrendo la linea tirrenica con il treno, poco prima di avvicinarsi alla stazione Roma Aurelia si ha l’impressione che la campagna dell’Agro Romano scompaia e di entrare nella città come superando una porta. Già ma che importanza può avere?
Prima che il Coronavirus rivoluzionasse le nostre realtà, ero solita salire sul Monte Meron prima di ogni viaggio che dovevo intraprendere con i ragazzi del mio teatro multiculturale di Beresheet LaShalom. Partire con una ventina di adolescenti è un’impresa e una grande responsabilità.