Il fardello dell’uomo
bianco israeliano

Leggendo il recente intervento dello stimato professore Sergio Della Pergola (“Messaggio dall’isola di Pasqua”) nel quale parla dei pellegrinaggi a Meron come di “riti semi pagani”, ho pensato che alcuni concetti riportati nell’articolo possano costituire degli spunti per capire in maniera più vasta (e non legata soltanto alla tragedia avvenuta la settimana scorsa) la problematicità dei rapporti tra laici e ortodossi (haredim) nello Stato d’Israele.
Un grande scrittore inglese, Joseph Rudyard Kipling (1865-1936), premio Nobel per la letteratura nel 1907, scrisse la famosa poesia The White Man’s Burden (il fardello dell’uomo bianco), descrivendo la visione dell’uomo europeo dell’epoca (oggi potremmo chiamarlo l’uomo occidentale) sulle cultura a lui estranee.
La poesia indica la missione dell’uomo occidentale, che è quella di civilizzare e portare alla luce del progresso e della civiltà i poveri popoli barbari e esotici, immersi nell’oscurità delle loro fedi e consuetudini primitive.
Al giorno d’oggi chiaramente non sarebbe possibile scrivere una simile poesia né tantomeno pubblicarla per ragioni di “politically correct”, ma nel profondo dell’uomo occidentale questa visione non è mai scomparsa e pulsa con forza nelle sue convinzioni.
Questa prospettiva cominciò a delinearsi tra gli ebrei dell’area germanofona, per la maggior parte assimilati, verso i loro parenti dell’Europa orientale ancora maggiormente attaccati alle tradizioni ebraiche.
Questa differenza non era soltanto una questione geografica di provenienza o residenza, ma descriveva due diverse visioni sulla vita ebraica e sul suo rapporto con la cultura circostante.
Nella terminologia dell’epoca si parlava di distinzione tra Westjuden e Ostjuden.
I Westjuden guardavano i loro parenti orientali con un misto di insofferenza nel caso peggiore, o misericordia in quello migliore, ma di sicuro con un senso di superiorità dovuto alla loro integrazione nella miglior Bildung culturale dell’epoca, quella grande cultura tedesca che allora dettava legge in campo culturale e scientifico.
Il complicato (e conflittuale) rapporto tra i due mondi ebraici nell’Europa dell’epoca è magistralmente descritto nell’opera di uno dei grandi scrittori ebrei tedeschi, Joseph Roth, nel suo libro Ebrei erranti (Juden auf wanderschaft, Berlino, 1927, trad. italiana Adelphi 1985).
Tutta questa difficile relazione di parentela fu cancellata dalla catastrofe della Shoah, nella quale venne distrutto tutto il mondo ebraico, sia il Westjudentum sia l’Ostjudentum
Nel dopoguerra il modo ebraico ortodosso dell’est, l’Ostjudentum, veniva ritenuto in via d’estinzione in tutte le parti del mondo nelle quali ancora si trovava.
Questo era chiaro sia nel nuovo mondo americano, nel quale era minacciato dall’”American Dream” e dalla sua capacità di assimilazione, sia nella terra d’Israele nella quale i Padri fondatori avevano un progetto del tutto diverso per il futuro degli ebrei nella loro nuovo patria; questo di sicuro non contemplava la presenza di questo tipo di ebreo della diaspora, vestito con fogge strane, pallido e dedito allo studio di opere antiche e primitive, di nessun valore pratico.
Al massimo si poteva tollerare la sua presenza in alcune enclavi a Gerusalemme o vicino a Tel Aviv, Bnei Brak, nelle quali i residui di questa antica civiltà sarebbero sopravissuti e presentati alle generazioni successive o ai turisti di turno, come espressione di una vita primitiva nella antica diaspora d’Europa.
Forse anche come monito al moderno israeliano sul cosa poteva succedere se non avesse imboccato con decisione la via del progresso e della redenzione laburista nella sua nuova patria.
Sinceramente ogni persona religiosa o meno dell’epoca, o con gioia o con dolore, avrebbe condiviso questa prospettiva sul futuro dell’Ostjudentum, destinato dalle leggi della storia e dell’umanità ad entrare nel vasto archivio dei popoli scomparsi.
Questo forse potrebbe spiegare anche la facilità con la quale Ben Gurion all’epoca concesse il famosa compromesso dello Status quo, sul regolamento delle questioni religiose nello stato d’Israele: non si percepiva la necessità di combattere per un problema che si sarebbe risolto da solo, con il passare di qualche generazione.
Quindi all’epoca della fondazione dello Stato, più che di una visione da fardello dell’uomo bianco, si può parlare di uno sguardo di paternalismo misto a della misericordia, simile alla visione di un ultimo esemplare, vecchio e mal messo, di una specie in via d’estinzione. Incredibilmente però questo non successe, questo ebraismo riuscì a sopravvivere a tutti i fattori ostili e si presenta oggi vivo e vegeto.
Come per qualsiasi realtà vivente, e non scomparsa nelle brume dello storia, non lo si può ricondurre alle descrizione poetiche di Singer, ma si presenta con tutte le problematiche e le contraddizioni di ogni gruppo umano vivente.
Soprattutto con problematiche e contraddizioni dovute al suo essere controcorrente rispetto ad una visione occidentale per tutto quanto riguarda i valori e lo stile di vita, nei quali l’israeliano moderno orgogliosamente si immedesima.
Nasce così, a mio parere, il problema della convivenza di queste due visione dell’ebraismo, che come abbiamo dimostrato possono vantare “antiche” radici.
In alcuni casi (estremi) questa insofferenza si manifesta in espressioni come quella di un giornalista israeliano che ha scritto che lui non si ritiene coinvolto nel lutto nazionale indetto per la tragedia, perché non si ritiene appartenente allo stesso popolo (questa affermazione mi ha ricordato un interessante paragone con una frase riportata nel libro di Roth citato prima: “Non vogliamo che uno sconosciuto appena arrivato da Lodz ci rammenti l’aspetto di nostro nonno, il quale era originario di Poznan o Katowice. Questo è l’ignobile, ma comprensibile atteggiamento del piccolo borghese che si sente minacciato mentre sta arrampicandosi nella ripida scala che porta all’ariosa e panoramica terrazza della grande borghesia. All’apparire di un cugino da Lodz, è facile che egli perda l’equilibrio e caschi di sotto” – Dall’introduzione alla nuova edizione presso l’editore Allert de Lange, Amsterdam.)
Ma a prescindere del discorso legato all’attualità della scorsa settimana, volendo spaziare con uno sguardo vasto sulla problematicità dei rapporti nel mondo israeliano attuale tra la leadership israeliana di Tel Aviv e il mondo haredi si può ritrovare la visione kiplingiana.
Temo però che queste incomprensioni possano durare a lungo, se la tribù bianca d’Israele (così definita dallo slang giornalistico israeliano) non sarà disposta a levarsi il casco di sughero alla Stanley, e a vedere come degna anche questa espressione dell’ebraismo.
P.S: personalmente non sono mai stato a Meron, e non ho mai partecipato a nessun tipo di pellegrinaggio religioso ebraico (ad eccezione di alcune sporadiche visita al Kotel nei giorni di minor affluenza).

Rav Beniamino Goldstein, rabbino capo di Modena

(7 maggio 2021)