Se non leggi correttamente questo messaggio, clicca qui     14 Maggio 2021 - 3 Sivan 5781
VOCI E ANALISI DA ISRAELE

La convivenza da ricostruire

C'è un interrogativo fa da sfondo alle analisi presentante sui media israeliani: finito lo scontro, come torneremo a vivere fianco a fianco? Lo scontro di cui si parla non è quello con la Striscia di Gaza, che si ripete oramai da anni, a intensità diverse e che prosegue in queste ore con l'operazione israeliana diretta a fermare i razzi dei gruppi terroristici di Hamas e Jihad islamica. Il conflitto al centro dell'interrogativo è quello in corso tra ebrei israeliani e arabi israeliani. “Non ho mai visto nulla di simile. Da noi è sempre stato tutto tranquillo. In altri posti, Yafo, Haifa, Lod, tensioni in passato ci sono state”, il racconto a Pagine Ebraiche del direttore del museo di Ramla, Ron Peled. Spiega di non poter parlare con la stampa, ma in poche parole sottolinea il suo doloroso stupore di fronte all'esplosione di violenza nelle diverse città. Anche qui a Ramla, realtà con un passato complicato, gruppi di arabi hanno iniziato a bruciare auto e a creare disordini. Ma la municipalità ed esponenti della società civile sono riusciti ad arginare la rabbia. “Ho preso tutto il mio clan e mi sono occupato di espellere i rivoltosi dalla città. Non mi interessano gli ebrei o gli arabi, lo Stato d'Israele appartiene a tutti noi e non può essere distrutto”, il racconto all'emittente Mako di Ali Jerushi, capo di una famiglia araba di Ramla.
Alla vicina Lod è andata molto peggio, con sinagoghe bruciate e violenze tali da far venire in mente ad alcuni abitanti il pogrom di Kishinev nella Russia zarista. “Ma questa non è Kishinev, è Israele”, sottolinea un abitante in un servizio della rete pubblica Kan sulla situazione a Lod. Qui il governo è stato costretto a dichiarare lo stato di emergenza con l’intervento straordinario dell’esercito. Anche a Yafo la temperatura è incandescente. Nella notte un soldato di 19 anni è stato linciato da un gruppo di arabi ed è ora ricoverato in gravi condizioni.
Ma violenze ci sono state anche sull'altro versante, ebrei nei confronti di arabi, con un linciaggio filmato a Bat Yam di un autista arabo. Ristoranti e locali di proprietà di arabi presi di mira in altre località. A Lod sono comparsi vigilantes provenienti da insediamenti nei territori, e alcune tombe del cimitero musulmano sono state distrutte. Violenze che, ha sottolineato Nadav Argman, il capo dello Shin Bet (il servizio di intelligence interno) non saranno tollerate. Né da una parte né dall'altra. “Non permetteremo ai violenti di compiere atti di terrorismo per le strade di Israele, né da parte di arabi né da parte di ebrei. In piena collaborazione con la polizia d'Israele lo Shin Bet “userà tutte le sue capacità di intelligence e di antiterrorismo e lavorerà per fermare chiunque cerchi di danneggiare i cittadini israeliani, ebrei e arabi, finché la pace non tornerà nelle strade dello Stato” (Srugim).
Chi è stato a fomentare la rabbia? È un altro degli interrogativi attorno al quale si discute. E stanno risuonando con forza le parole del commissario della polizia Kobi Shabtai, riportate dall'emittente 12 israeliana: “Il responsabile di questa intifada è Itamar Ben Gvir. È iniziata con la protesta di Lehava alla Porta di Damasco”, ha detto Shabtai, riferendosi alle manifestazioni di estrema destra intorno alla Città Vecchia di Gerusalemme. “Ha continuato la sua provocazione a Sheikh Jarrah, e ora va in giro con i suoi attivisti a infiammare altre città. Ieri siamo riusciti a calmare Acri e lui è arrivato con i suoi e ha causato disordini”. Per l'editorialista di Israel Hayom, quotidiano di destra, Eithan Orkibi l'esplosione di violenza non può essere ricondotta a Ben Gvir, ma è la riemersione in forma di violenza di una tensione sempre presente tra ebrei ed arabi. Per Orly Goldklang, firma del quotidiano religioso Makor Rishon, a muovere la violenza araba sarebbe stato l'antisemitismo. Per la Goldklang le autorità hanno atteso troppo ad intervenire contro le violenze a Lod così come contro Gaza. “Tutto era noto in anticipo, dal primo razzo a Gaza all'ultima delle finestre in frantumi a Lod. Ma preferiamo chiudere di nuovo gli occhi e farci sorprendere di nuovo al prossimo giro”, l'incipit del suo articolo.
D'accordo sul fatto che l'esplosione dei disordini fosse davanti agli occhi delle autorità d'Israele è anche Eran Singer, che però arriva a conclusioni diverse dalla Goldklang. In un lungo podcast pubblicato da Kan, Singer si sofferma sul senso di emarginazione della minoranza araba e denuncia una mancanza di investimenti in questo settore da parte del governo. Un malessere che ha trovato ulteriore carburante negli scontri al Monte del Tempio e si è poi trasformato in violenza senza confine. “La discriminazione nei quartieri arabi, nei servizi, nel bilancio, nell'educazione - ha avuto molto peso su di noi”, sostiene Abed Azbarga, un membro del consiglio comunale di Lod, intervistato in un altro approfondimento di Kan. “In fin dei conti, al-Aqsa ha fatto saltare tutto questo”. Proprio la moschea al-Aqsa, evidenziano però i giornalisti israeliani, è stata usata da alcuni esponenti religiosi per fomentare odio e rabbia: nello specifico, lo sceicco Yosef Elbaz, imam di Lod. “È andato in onda con noi per parlare di 'riconciliazione' - scrive Yair Cherki, presentatore del Canale 12 - e poi è diventato chiaro che per lui Israele è uno 'stato nemico' e che spera di 'portare la morte all'occupazione sionista'”. Parole profondamente inquietanti che risuonano nelle tv d'Israele, ma anche in piazze distanti migliaia di chilometri, come accaduto in Germania. O a Milano dove è stata bruciata una bandiera israeliana.
In questa atmosfera cupa, c'è però chi fa sentire la propria voce per cercare di far tornare il sereno. Ad esempio, i sindaci e rappresentanti di diverse località del Nord d'Israele. “Negli ultimi giorni abbiamo assistito a gravi episodi di violenza. Noi siamo i capi delle autorità locali della zona di Wadi Ara e dintorni, ebrei e arabi, che vivono da anni con rispetto e stima reciproca, ognuno con i propri punti di vista e posizioni e collaboriamo di fatto con tutti i residenti della zona”, il messaggio di questa delegazione. “Noi tutti speriamo e auguriamo che la violenza cessi presto e che i due popoli possano celebrare tranquillamente e pacificamente le loro festività Eid al-Fitr e Shavuot”. Un auspicio rilanciato in altre manifestazioni organizzate nel paese: “Non abbiamo paura di collaborare, ebrei e arabi”, recita il cartello di una manifestante della città beduina di Basmat Tab'un. Parole di speranza in un paese ancora segnato dai razzi provenienti da Gaza, da disordini e violenze interne, e da ferite sociali che difficilmente si rimargineranno in fretta.

Daniel Reichel

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L'INIZIATIVA PROMOSSA DALL'ASSET  

“Porta di Sion, porta di speranza”

La storia dell’Aliyah Bet, l’emigrazione clandestina verso il nascente Stato d’Israele di migliaia di ebrei d’Europa sfuggiti alla Shoah, è ancora poco conosciuta. Un momento di luce e riscatto per un Paese, l’Italia, che fino a pochi mesi prima aveva mostrato un volto assai poco solidale e che adesso, al contrario, con il contributo di tanti cittadini di buona volontà, apriva alcuni suoi porti a quei viaggi di vita e speranza. 
A raccontarla in tutti i suoi risvolti è un film appassionante: Terra Promessa, prodotto da Istituto Luce Cinecittà con il sostegno del Mibact e opera del regista Daniele Tommaso. Da poco scomparso, vi ha dedicato anni di lavoro e ricerche. Un impegno che la malattia che incalzava non ha mai affievolito. Un film, quindi. Ma anche e soprattutto un atto d’amore. 
La pandemia ha ritardato il suo arrivo nelle sale. Ma molte centinaia di persone hanno avuto l’occasione di apprezzarlo grazie a una speciale proiezione online organizzata dall’Associazione ex allievi e amici della Scuola Ebraica di Torino con il patrocinio di UCEI, Museo Nazionale del Cinema e Comune della Spezia, la città che più significativamente fu sollecitata guadagnandosi la fama di “Porta di Sion”. Una fama che ha ispirato molte iniziative. Tra cui un prestigioso riconoscimento, il Premio Exodus, assegnato quest’anno alla Presidente UCEI Noemi Di Segni. 
La proiezione, ha esordito il presidente dell’Asset e vicepresidente dell’Unione Giulio Disegni aprendo la serata, si inserisce proprio in quel solco. Un’anticipazione rispetto alla cerimonia in programma il prossimo 25 maggio, dedicata come di consueto a una riflessione su quella cultura della solidarietà e dell’accoglienza in cui la città ligure si distinse. Lo stesso Tommaso sarà insignito di una menzione speciale in memoria. 
“Questo film è un pezzo di storia, una storia fondamentale” ha sottolineato Disegni, ricordando la scelta non casuale di proporlo alla vigilia dell’anniversario dalla proclamazione d’indipendenza dello Stato ebraico. Collegati a distanza vecchi e nuovi amici dell’Asset “da tutta Italia, da Israele, dalla Spagna, dall’Argentina, dagli Stati Uniti”. Una serata per incontrarsi e confrontarsi con il pensiero inevitabilmente rivolto anche alle tensioni del presente.

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Le parole hanno un peso
In un articolo sul periodico “Rotarian” del settembre 1929 Edward Arthur Wicher presentava un reportage sul nuovo club del Rotary da lui fondato a Gerusalemme. La realtà, allora come oggi, era conflittuale. Alla fine di agosto dello stesso anno la folla araba, incitata da una falsa voce su presunti massacri compiuti dagli ebrei di Gerusalemme ai danni di musulmani, aveva dato l’assalto al quartiere ebraico di Hebron uccidendo 67 ebrei. Una situazione quindi di tensione, che si aggravò negli anni ’30 con l’intensificarsi dell’immigrazione ebraica dall’Europa.
Gadi Luzzatto Voghera
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Una festa di unità
In uno dei capitoli dei Pirké avot che abbiamo letto nelle scorse settimane, troviamo scritto:
“prega per la salute del governo, perché se non fosse per il timore di quello, l’uomo ingoierebbe vivo il suo prossimo” (Avòt 2;2).
In questi giorni di forte preoccupazione per ciò che sta accadendo in Israele, oltre alla grave situazione bellicosa tra Hamas e Israele, assistiamo ad un fenomeno che, così di massa, non si era mai verificato: l’insurrezione di cittadini arabo-israeliani contro ebrei. È esattamente ciò a cui fa riferimento il Maestro della mishnà. Ci auguriamo che con l’entrata dello Shabbat, che è il simbolo della menuchà per tutto il popolo ebraico, possa cessare almeno questa ulteriore guerra che preoccupa non poco i cittadini israeliani, il suo governo ed anche noi ebrei che viviamo nella golà.
 
Rav Alberto Sermoneta
Dar fuoco alla pace
Forse non è la cosa più grave, di fronte ai morti, ai feriti, alla guerra e ai rischi sempre più concreti di guerra civile, ma certo le immagini di sinagoghe incendiate in Israele, nell’ultimo posto al mondo in cui siamo psicologicamente preparati a immaginare che possa accadere, sono terribilmente angoscianti. Perché se un conflitto si trasforma in una guerra di religione non se ne esce più. E, ancora di più, sono angoscianti per le memorie che evocano, e per il sospetto (anzi, molto più di un sospetto), che siano proprio quelle memorie a suscitare desiderio di emulazione.
Anna Segre
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Uno Stato presente
Un qualunque dibattito sul conflitto israelo-palestinese – e nei salotti digitali i dibattiti offuscano talvolta anche la reale apprensione per gli eventi – è sempre imperniato sulla costante interrogazione della storia, per affermare da quale parte sia la ragione e ricordare come tutto è cominciato. Il più delle volte, si sa, queste “interrogazioni” danno luogo a narrazioni semplicistiche e propagandistiche con tanto di mappe fasulle.
Francesco Moises Bassano
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