Il Rotary a Gerusalemme cent’anni fa
In un articolo sul periodico “Rotarian” del settembre 1929 Edward Arthur Wicher presentava un reportage sul nuovo club del Rotary da lui fondato a Gerusalemme. La realtà, allora come oggi, era conflittuale. Alla fine di agosto dello stesso anno la folla araba, incitata da una falsa voce su presunti massacri compiuti dagli ebrei di Gerusalemme ai danni di musulmani, aveva dato l’assalto al quartiere ebraico di Hebron uccidendo 67 ebrei. Una situazione quindi di tensione, che si aggravò negli anni ’30 con l’intensificarsi dell’immigrazione ebraica dall’Europa.
Nel suo articolo, Wicher sembrava non dar peso alla cosa. Dopo aver descritto la nascita di nuovi quartieri ebraici l’autore si concentrava sulla costruzione dell’Università Ebraica sul Monte Scopus e descriveva il nuovo club del Rotary a Gerusalemme, frequentato da personalità in vista appartenenti ai diversi gruppi religiosi. L’anno successivo sullo stesso periodico la penna di Lillian Dow Davidson si dimostrava acuta e disincantata, e meno impermeabile ai conflitti che attraversavano l’area. Giunta in visita dal Canada e accompagnata dalla famiglia dello stesso Wicher, la Davidson offriva uno sguardo decisamente realistico e utilizzava quasi totalmente le parole del taccuino di viaggio di suo marito James per descrivere la situazione come per nulla lineare né tranquillizzante.
Dopo i disordini e gli scontri dei mesi precedenti i membri del club avevano ripreso ad incontrarsi: si trattava quasi unicamente di uomini d’affari inglesi, ma anche qualche ebreo e qualche arabo tornavano a incontrarsi presso la sede del club. Tuttavia il tessuto sociale dell’area non sembrava particolarmente adatto alla vita di un normale Rotary club: «Uomini d’affari e professionisti sono quasi inesistenti. È vero che c’è una banca, oltre all’ufficio della Shell Oil Co. e all’agenzia di Thomas Cook & son, ma questo non è sufficiente per fare un Rotary club. Sebbene esista una considerevole comunità britannica, i suoi membri sono quasi tutti funzionari di governo. […] Il commercio è dominato dal piccolo business da bazaar. Si tratta di arabi, siriani o ebrei analfabeti, uomini per nulla adatti al Rotary: anche se li si volesse interessare al Rotary, sarebbe comunque uno sforzo inutile». La ricerca è quindi per ebrei come quelli europei, gente colta e possibilmente ben inserita nel mondo degli affari. Sfortunatamente a Gerusalemme gli ebrei europei erano giunti seguendo ben altre motivazioni, più ideologiche, diametralmente opposte all’ebreo-tipo presente nei Rotary club europei e americani. Non mancava tuttavia la fiducia, per cui il club di Gerusalemme veniva comunque istituito, potendo contare sulla presenza di due dozzine di funzionari britannici, oltre ad «alcuni fra gli ebrei più rappresentativi e a uno o due arabi». L’autrice era particolarmente interessata a rafforzare il ruolo del Rotary in Palestina, sottolineando il fatto che quell’organizzazione era particolarmente indicata a giocare un ruolo attivo nel moderare gli antagonismi religiosi e “razziali”. La “buona volontà”, fondata sui principi di tolleranza, apprezzamento e collaborazione, avrebbe di sicuro aperto la via per uno sviluppo pacifico. Era però chiaro anche alla Dow Davidson che il mondo da quelle parti non funzionava esattamente così, che nel futuro ci sarebbero stati problemi e tensioni fra arabi ed ebrei, e fra questi e la potenza mandataria britannica. Lo sguardo della visitatrice canadese era tutt’altro che ingenuo e mostrava di comprendere perfettamente la delicatezza della situazione. Tuttavia la sua forma mentis non le consentiva di capire fino in fondo che la realtà del Medioriente e della colonizzazione era molto diversa da quella ottocentesca, dettata da un’idea – sbagliata ma coerente – di missione civilizzatrice. In Palestina non immigrava la tipologia di ebrei che la Dow Davidson si sarebbe aspettata. Non erano imprenditori, né ricchi commercianti, e gli ebrei che giungevano in Palestina erano impegnati – in maniera a suo parere insensata e assurda – a imparare e a parlare in ebraico. Una lingua che «rappresenta uno strumento che non potrà essere utile a un giovane che si affaccia al mondo alla ricerca di una professione». Sfortunatamente – affermava l’autrice con sguardo attonito – «il moderno uomo d’affari dalla mentalità liberale come esiste tra gli ebrei in Europa occidentale, Gran Bretagna e Stati Uniti, scarseggia in Palestina. Qui gli ebrei sono poveri». E i poveri, com’è noto, non possono avere alcun ruolo civilizzatore.
Gadi Luzzatto Voghera, Direttore Fondazione CDEC