Se non leggi correttamente questo messaggio, clicca qui   24 Ottobre 2021 - 18 Cheshvan 5782
CINEMA - LO SPECIALE DI PAGINE EBRAICHE

Emozioni e identità sullo schermo

Un anno dopo, è tutta un’altra musica. La pandemia ha allentato la presa, una nuova normalità si è fatta strada e il cinema è tornato in scena. Mentre le sale riaprono una dopo l’altra, il ritorno dei grandi festival è uno dei segnali più incoraggianti della stagione. Da Cannes a Locarno a Venezia, le star sono tornate a percorrere il red carpet, il pubblico ha affollato le proiezioni, gli incontri con gli autori non sono mai stati così vivaci e i film hanno riservato magnifiche sorprese. L’anno appena trascorso è però destinato a lasciare il segno. Non è un mistero che in tutto il mondo il cinema sia stato uno dei settori più colpiti dalla pandemia. Le sale chiuse e le produzioni bloccate per mesi hanno determinato perdite enormi – in termini di investimenti e posti di lavoro. E a partire dallo spettacolo la crisi si è riverberata sull’intera industria di supporto – dai trasporti al merchandising. Intanto il consumo di intrattenimento è andato alle stelle sul canale alternativo dello streaming e gli schermi di casa, dal cellulare alla computer alla televisione hanno assunto un ruolo centrale nel nostro tempo. Il virus ha finito così per imprimere una vertiginosa accelerazione a una mutazione culturale che già in precedenza era percettibile ma in altre condizioni poteva richiedere anni prima di manifestarsi con questa prepotenza. La pandemia è l’anno in cui Netflix e Disney hanno realizzato guadagni impressionanti e i videogiochi hanno segnato una ulteriore crescita. Il consumo domestico di serie tv, film e spettacoli è ormai un’abitudine a cui si prevede pochi vorranno rinunciare. È sotto mano, costa meno e in tempi di Covid più sicuro – per non parlare del fatto che non tutti vivono nei grandi centri toccati dalla distribuzione. Ci vorrà del tempo a definire la portata del cambiamento ma è difficile immaginare che si torni al passato: il futuro, sostengono gli esperti, passa dallo streaming. I meccanismi sono per ora in fase di rodaggio. Warner Bros Pictures ha deciso ad esempio di diffondere tutti i film di quest’anno sul canale via cavo HBO Max. I giganti dello streaming, Amazon e Netflix in testa, da tempo investono anche in produzioni d’autore. E nessuno si stupisce più che un lavoro debutti online in contemporanea alle sale o a pochi giorni di distanza. Per le sale cinematografiche, il domani non è buio come sembra. Resisteranno quelle capaci di coltivare il loro pubblico, adattare la programmazione alla realtà locale o ritagliarsi un ruolo anche in chiave virtuale. Quanto ai festival hanno recuperato il loro ruolo di incontro e proposta e riflessione in un batter d’occhio. E ai nostalgici dei bei tempi andati vale la pena ricordare che è stato lo streaming a schiudere i confini di innumerevoli produzioni internazionali. Dove avete visto Unorthodox e Shtisel, Fauda e The Marvelous Mrs. Maisel?
 

La leggendaria stagione del New Yorker

“The French Dispatch è tre cose insieme: un’antologia, il New Yorker e un film francese”: così il regista americano Wes Anderson sintetizza il suo nuovo lavoro dedicato alla rivista culturale. Ambientato a metà del secolo scorso, in una cittadina francese di fantasia, Ennui-sur-Blasé, il film sgrana in chiave di fantasia una galleria di personaggi dove fra tic, manie e battute folgoranti è facile riconoscere i protagonisti di una stagione culturale leggendaria. È una collezione di storie tenuta assieme dalla passione per la scrittura, una dichiarazione d’amore al mestiere di giornalista e forse il film più ebraico di Wes Anderson che in passato si era già ispirato a Stefan Zweig (Grand Hotel Budapest) e a J.D. Salinger (I Tenenbaum).
Nel feroce direttore/fondatore Arthur Howitzer Jr. (Bill Murray) si ritrova infatti il leggendario direttore del New Yorker William Shawn, ebreo di Chicago, sotto la cui direzione sono stati pubblicati molti degli articoli che tornano nel film. In Lucinda Krementz (Frances McDormand) che segue un gruppo di giovani rivoluzionari, guidati da Zeffirelli (Timothée Chalamet), s’intravede la scrittrice Mavis Gallant, a cui si deve un memorabile reportage sul Maggio francese, a lungo impegnata nella stesura di una biografia di Alfred Dreyfus che non vedrà mai la luce. Il critico gastronomico ebreo A.J. Liebling si immerge invece in un reportage sulle politiche dell’alta cucina insieme allo scrittore James Baldwin: una delle poche storie inventate. Adrien Brody, Oscar per Il pianista e uno degli interpreti favoriti di Anderson, si cala invece nella parte di un eccentrico esperto d’arte ispirato al mercante d’arte ebreo Lord Duvee. La sua missione è acquistare un’opera di Moses Rosenthaler (Benicio Del Toro), figlio di un commerciante di cavalli ebreo messicano, “la più turbolenta voce artististica della sua generazione”.
Wes Anderson immerge questo microcosmo di expat negli scenari che sono ormai il suo marchio di fabbrica: colori pastello, tagli geometrici, cura maniacale dei dettagli. La cittadina Ennui-sur-Blasé è adorabile nelle sue atmosfere rétro (gli esterni sono stati girati ad Angoulême), gli interni un trionfo di nostalgie vintage, il cast strepitoso e molto ebraico. È il genere di film che si ama o si detesta.
Gli autori e i reportage sono puntualmente elencati nei credits e sono protagonisti in un volume con il titolo An Editor’s Burial – Journals and Journalism from the New Yorker and Other Magazines. Intanto i poster del film sono già diventati oggetti di culto come tutto ciò che circonda il mondo immaginario di Wes Anderson.


La ricerca di Anna nell’Amsterdam di oggi

Quando Kitty prende vita è una notte di tempesta. Siamo ad Amsterdam, nel futuro, alla casa-museo di Anna Frank affollata di turisti. Come per miracolo l’inchiostro che solca le pagine del Diario vola via, la vetrina va in frantumi e Kitty, l’immaginaria amica dai capelli rossi a cui Anna indirizza i suoi sfoghi e le sue riflessioni, fugge portando il diario con sé. Si apre così il nuovo film di animazione di Ari Folman Where is Anne Frank che annodando i fili della storia al tessuto del presente rivisita in una nuova prospettiva la storia di una delle figure simbolo della lotta all’odio e ai razzismi. Presentato fuori concorso al Festival di Cannes e accolto da recensioni entusiastiche, il lavoro del regista israeliano, già autore del bellissimo Valzer con Bashir (2008), disegna una vicenda toccante e di grande impatto visivo che dal passato si slancia nel presente entrando nei suoi nodi più dolorosi. Mentre l’intera città si mobilita alla ricerca del diario rubato Kitty – che non sa cosa ne è stato di loro – vuole trovare Anne e la sorella Margot. Accompagnata da un nuovo amico di nome Peter, si trova così a ripercorrere tratti emblematici della storia, dall’ascesa del nazismo alla Shoah alla vita nell’alloggio segreto, mentre stringe amicizia con alcuni dei più poveri ed emarginati di Amsterdam, rifugiati in attesa di essere rimpatriati. Finirà così per capire che il nome di Anna Frank è ovunque, iscritto nelle strade e sugli edifici, ma il suo messaggio è assente. “Anna non ha scritto questo diario per essere venerata”, dirà. “L’importante è fare tutto il possibile per salvare anche una sola anima. Una sola anima”. Il diario, è il messaggio, non è un feticcio a cui inchinarsi né il frutto di un passato ormai lasciato alle spalle. Nelle parole di Anna Frank vibra invece il senso di valori che mai come oggi sono necessari. Illustrato da David Polonsky, il film è girato in parte in stop motion anche grazie a Andy Gent, che disegna le marionette per i film d’animazione di Wes Anderson. Nelle immagini tornano i cani inquietanti che popolavano Valzer con Bashir, i nazisti sono figure buie e terrificanti e la città si anima di dettagli straordinari. Impossibile guardare questo film senza ricordare che la madre di Ari Folman è sopravvissuta ad Auschwitz e si devono a lei, deportata da adolescente, alcuni degli elementi visuali più potenti. Pensato per gli spettatori più giovani, Where is Anne Frank nasce in collaborazione con la fondazione Anne Frank ed è stato sviluppato in partnership con l’Unesco, la Claims Conferenze, la Fondazione per la Memoria della Shoah.


Famiglia e identità nel cuore d’Israele

Un regista israeliano arriva in una località remota del deserto per presentare uno dei suoi film. Lì incontra un funzionario del ministero della Cultura e mentre affronta il recente lutto per la madre si trova a combattere per la sua libertà creativa. HaBerech – Ahed’s Knee, il nuovo film dell’israeliano Nadav Lapid, premiato a Cannes dalla giuria a pari merito con il tailandese Apichatpong Weerasethakul, nasce da un’esperienza autobiografica. Invitato nel 2018 alla proiezione di un suo film in un villaggio nel deserto israeliano, è stato contattato da un funzionario con la richiesta di elencare in un modulo gli argomenti dell’incontro (“Non serviva un genio per capire che era una forma di censura”). Un mese e mezzo più tardi, alla morte della madre, da sempre editor nei suoi film, il regista riversa quello spunto in una sceneggiatura che restituisce la lacerazione del suo lutto. È una storia forte, brutale, in cui il rapporto con Israele e i sentimenti più personali finiscono per saldarsi. “Piangere mia madre è stato anche piangere per il mio paese”, spiega Lapid (The Kindergarten Teacher, Synonimes). Sono invece i toni della favola a segnare il ritorno di Eran Kolirin, già autore del fortunatissimo La Banda (2007). Liberamente ispirato al romanzo omonimo di Sayed Kashua, Vayehi Boker – Let it be morning è la storia di Sami, arabo israeliano che vive a Gerusalemme. Un invito alle nozze del fratello lo costringe a tornare nei luoghi dov’è cresciuto ma quando di notte l’esercito d’improvviso circonda il villaggio si trova bloccato. Mentre la tensione e il senso di isolamento crescono, inizia a farsi delle domande. Il racconto di Eran Kolirin chiama in causa gli interrogativi che segnano la convivenza delle due comunità. “Si tratta di immaginare come ci si può sentire quando ci si trova circondati da un muro, gridando senza essere ascoltati”.

Daniela Gross

Leggi

IL NUOVO LIBRO DI AVAGLIANO E PALMIERI

Sfollati, profughi slavi ed ebrei in fuga
La fine della guerra vista da Sud

La caduta di Mussolini e l’armistizio lasciano l’Italia stremata e divisa, mentre gli Alleati e i tedeschi si contendono palmo a palmo la penisola con scontri violenti, bombardamenti, stragi, rappresaglie, stupri, rastrellamenti, saccheggi, sfollamenti. Fame, disperazione, macerie e morte la fanno da padrone. Anche l’assetto istituzionale è segnato da una profonda frattura, tra il Regno del Sud e la Repubblica Sociale Italiana. La linea del fronte avanza lentamente da sud a nord e in questo periodo alla feroce occupazione tedesca del centro-nord si contrappone la convivenza forzata con i liberatori anglo-americani nel Mezzogiorno. Il peculiare percorso di uscita dalla guerra dell’Italia meridionale è il tema di Paisà, sciuscià e segnorine. Il Sud e Roma dallo sbarco in Sicilia al 25 aprile (ed. Il Mulino), il nuovo libro di Mario Avagliano e Marco Palmieri.
Un interessante affresco costruito sulla base di diari, lettere, giornali, film e canzoni.
Ve ne proponiamo un brano dal titolo “Sfollati, profughi slavi ed ebrei in fuga”.

Sulla situazione sociale dell’Italia liberata pesa anche la presenza di migliaia di sfollati e profughi, italiani e stranieri, che affollano la penisola. Famiglie senza casa si aggirano per le campagne, a piedi o con mezzi di fortuna. A queste si aggiungono i profughi slavi e gli ebrei liberati dai campi di internamento o sfuggiti alle misure di persecuzione. Già il 18 ottobre 1943 la sotto-commissione per i profughi dell’Acc organizza un campo per ebrei e jugoslavi alla periferia di Palermo. Un altro campo, istituito dall’Amg a Ferramonti di Tarsia in Calabria, viene ceduto alla sotto-commissione in novembre. A Bari arrivano in sempre maggior numero profughi jugoslavi in fuga dall’occupazione tedesca e vengono ospitati in campi provvisori.
I profughi diventano un problema sempre più serio di cui gli Alleati, in collaborazione con il governo italiano, soprattutto a partire dal febbraio del 1944 sono costretti a farsi carico. Per i profughi italiani vengono individuati e approntati sette principali campi di raccolta, dotati di cucine economiche. Alla fine di marzo il numero totale dei profughi italiani ammonta a circa 60 mila. Solo durante quel mese, circa 14 mila sfollati passano dalle zone di battaglia attraverso i campi di smistamento, dove vengono lavati, nutriti ed alloggiati; dopo aver ricevuto le cure mediche e lasciato le loro generalità vengono inviati nelle varie regioni dell’Italia meridionale e in Sicilia.
Non meno problematico l’afflusso di profughi stranieri, soprattutto dall’altra sponda dell’Adriatico. Una massa di donne, bambini e vecchi, che si trova nella miseria più assoluta e appartiene a non meno di 29 nazionalità diverse. A partire dall’autunno del 1943 migliaia di jugoslavi, per fuggire dall’invasione della Wehrmacht che segue l’armistizio, cercano di raggiungere le coste dell’Italia meridionale su zattere e imbarcazioni di fortuna, costringendo le autorità militari alleate ad adibire a centri di raccolta alcuni campi di internamento approntati dai fascisti all’inizio della guerra, in particolare Ferramonti di Tarsia (Cosenza), Campagna (Salerno) e Pisticci (Matera), e ad allestire nuovi campi di accoglienza nel Salento. Lungo la costa jonica, nei dintorni di S. Maria di Leuca, Tricase, S. Cesarea Terme, S. Maria al Bagno e S. Caterina di Nardò, a partire dal 1944, gli Alleati requisiscono decine di ville private, proprietà di abitanti del luogo che le utilizzano perlopiù come residenze estive. Alla fine di marzo del 1944 sono pronti nove campi per profughi non italiani nell’Italia meridionale. Alla fine di aprile del 1944, il totale dei profughi ammonta a 23.000, di cui 11.000 vengono dal Medio Oriente. Dopo la liberazione a giugno di Roma e del Lazio, il numero dei profughi stranieri aumenta notevolmente: solo a Roma ce ne sono altri 6.000, molti dei quali slavi. Su di essi si appunta l’attenzione del Sim che in una relazione del 1944 giudica pericolosi i profughi croati o provenienti dalla Jugoslavia in quanto potrebbero nutrire forti simpatie nazifasciste o essere spie di Tito.
Vengono allestiti nuovi campi di raccolta. A Roma gli studi cinematografici di Cinecittà, razziati nell’autunno del 1943 dai nazisti, che hanno caricato 16 vagoni merci di attrezzature cinematografiche con destinazione Germania e Repubblica di Salò, e bombardati dagli Alleati nel gennaio del 1944, dopo la liberazione della capitale il 6 giugno 1944 vengono requisiti dall’Acc e per diversi anni destinati ad ospitare i profughi. La città del cinema viene divisa in due zone rigidamente separate: una parte riservata ai senzatetto italiani e l’altra destinata a campo internazionale. Vi transiteranno, in precarie condizioni igienico-sanitarie, più di 5 mila persone tra figli dei coloni italiani in Libia, esuli giuliano-dalmati, sfollati dai bombardamenti di Monte Cassino e di Roma, ebrei internati e rientrati dai campi di concentramento. Tra di essi anche qualche nome divenuto celebre in seguito, come Angelo Iacono, produttore di Dario Argento, o Mario Schifano, rappresentante della Scuola Romana pittorica degli anni ’60. Una vicenda, quella di Cinecittà, ricordata dal film Umanità diretto nel 1946 dal regista Jack Salvatori, nome d’arte di Giovanni Salvatori-Manners, che vede protagonista un medico americano impegnato nell’assistenza degli abitanti di un campo profughi proprio a Cinecittà. Solo all’inizio degli anni Cinquanta gli studios di Roma saranno ricostruiti e torneranno all’originaria destinazione, diventando una sorta di Hollywood italiana.
Il 23 settembre 1944 si verifica una fusione tra la sotto-commissione per i profughi e l’organizzazione analoga italiana. Il nuovo ente si chiama «sotto-commissione per il rimpatrio dei profughi» ed è amministrato dalla sezione degli affari civili. La sottocommissione dei «profughi e rimpatrio» ha il compito doloroso di occuparsi degli sfollati di guerra e di tutte le loro miserie morali. Fino al 1° maggio 1945 più di 177 mila profughi italiani e circa 78 mila profughi stranieri, di 73 nazionalità diverse, passeranno per le sue mani (numeri solo in parte sovrapponibili a quelli della Croce Rossa Italiana, dove sono registrati 90.000 nomi, e al Vaticano dove sono 60.000).
Il 1° aprile 1945 l’Unrra comincia ad occuparsi anch’essa dei profughi ed assume la responsabilità di quattro campi e due ospedali nell’Italia meridionale. Intanto la sotto-commissione organizza il lavoro da svolgere al nord, dove si prevede che un milione di persone varcherà le frontiere per entrare in Italia, compreso decine di migliaia di meridionali diretti a casa.


Una parte dei profughi è costituita da ebrei italiani o stranieri. A partire dall’autunno del 1943, in seguito allo sbarco in Sicilia degli Alleati, la presenza di migliaia di profughi ebrei nel Sud d’Italia diviene infatti un’emergenza umanitaria. Gli ebrei stranieri che, a partire dal 1940, erano stati internati nei campi fascisti di Ferramonti di Tarsia, Campagna e Pisticci, rimangono per molti mesi all’interno delle medesime strutture. Queste cessano di funzionare come campi di internamento per essere convertite in centri raccolta profughi, attivi sotto la supervisione degli Alleati. Altri ebrei vengono invece ospitati assieme agli slavi nei campi profughi che, come si è visto, vengono allestiti dalle autorità militari alleate nel Salento. Anche Bari diventa centro di attrazione per gli ebrei e nel capoluogo pugliese si forma una comunità di circa 1.500 ebrei jugoslavi, cecoslovacchi, polacchi e in piccola parte italiani.
L’Italia diventa una sorta di Porta di Sion e già dal 1944 è teatro della partenza di almeno 65 navi cariche di profughi ebrei diretti in Eretz Israel (Terra di Israele). Ma prima di partire, gli ebrei vivono mesi e mesi nei campi e in altri luoghi di residenza italiani dove nascono bambini, si celebrano matrimoni, feste religiose e funerali, si tengono corsi di formazione, lezioni di ebraico e corsi scolastici.
La comunità ebraica svolge un ruolo fondamentale nell’assistenza ai profughi ebrei, specie grazie all’impegno delle compagnie palestinesi aggregate all’esercito britannico e delle comunità ebraiche di Napoli e di Bari, che nei mesi successivi collaborano con il Mossad le-Aliya Bet (Istituto per l’immigrazione illegale) anche all’esodo in Palestina. Le compagnie palestinesi utilizzano come copertura i circoli per i militari ebrei aperti nei territori liberati che operano in realtà come centrali per l’emigrazione clandestina. E così ad esempio a Bari viene costituito un centro profughi che vede tra i più attivi il soldato Bruno Savaldi, che parla l’italiano. Nei dintorni della città pugliese già a febbraio del 1944 vengono fondati due centri di preparazione professionale (kakhsharot) destinati ai giovani ebrei in attesa di raggiungere Eretz Israel. Anche a Napoli si forma un comitato di assistenza, in contatto con i circuiti internazionali ebraici, che come riferisce il vicepresidente Nino Contini in una lettera del 17 agosto 1944 al rabbino Teitelbaum, in collaborazione con i militari della compagnia palestinese di stanza nel capoluogo partenopeo in pochi mesi ha assistito oltre 2 mila profughi ebrei.
Dopo la liberazione di Roma il centro profughi di Bari si trasferisce nella capitale e il 15 luglio, nei locali dell’Oratorio di via Balbo, tiene la prima seduta con i rappresentanti delle varie compagnie palestinesi dislocate in Italia, stabilendo di istituire in alcune città liberate altri centri di assistenza, scuole, circoli culturali e centri di preparazione professionale. Oltre che a Bari, Napoli e Roma, ne sorgeranno anche a Ferramonti di Tarsia, Firenze, Ancona e Livorno. A Roma, ad esempio, viene riattivata la Delasem, l’organizzazione di assistenza ai profughi, riaperta la scuola elementare «Vittorio Polacco» e costituiti un centro giovanile e un centro di preparazione professionale in località Ponte di Nona.
A ottobre del 1944, in una conferenza a Roma, rappresentanti dell’unità ebraica dell’esercito britannico istituiscono il Merkaz Lagola (Centro per la Diaspora), per la prosecuzione delle attività nei centri per rifugiati. Il mese dopo giungono nell’Italia liberata i primi due emissari del Mossad le-Aliya Bet.
Le prime navi dirette in Palestina, con gli ebrei per lo più stranieri liberati dai campi di prigionia nel meridione, profughi cecoslovacchi e jugoslavi partono già nel maggio del 1944 e nel marzo 1945 dal porto di Taranto. Al secondo viaggio del marzo 1945 partecipano anche diversi ebrei italiani raccolti a Roma dopo la liberazione, tra cui i Sermoneta. La frattura delle leggi razziali e della complicità di molti, troppi italiani alla caccia agli ebrei, ha infatti provocato un trauma indelebile in alcuni di loro, come si legge nel settembre 1944 nella lettera dell’ebrea romana Fernanda Di Segni Sermoneta al figlio primogenito Benedetto, emigrato giovanissimo in Palestina dopo i primi provvedimenti antiebraici:

Per fortuna questi mesi di terrore sono finiti. Ci siamo ritrovati salvi, ed in buona salute, ma con il dolore vivo per il pensiero dei cari lontani che chissà se rivedremo più. Ora ci stiamo riorganizzando, abbiamo aperto negozio già da tre mesi, fra qualche giorno torneremo a casa che era stata occupata da sfollati. Tutto apparentemente tornerà come prima, ma tutto è diverso da prima. Sebbene ora godiamo perfetta libertà ed abbiamo ripreso il nostro lavoro, ci sentiamo qui quasi estranei. Sentiamo che questa non è la nostra patria. Sentiamo che dobbiamo formarla laggiù dove sei tu, dove dovrebbero andare gli ebrei di tutto il mondo. Noi ci sentiamo diversi, vediamo tra questa gente, questi italiani, tante di quelle spie che hanno contribuito alla rovina dei nostri in quel fatale periodo. Non sappiamo più distinguere i buoni dai cattivi. E poi come sarà il futuro di questa povera Italia e per noi?

Mario Avagliano e Marco Palmieri

(Nelle immagini: i due autori, la copertina del libro, l'interno del campo di  Ferramonti)

Leggi

Smarrimento
«Omnia mutantur, nihil interit», tutto si trasforma, niente perisce, scrive Ovidio nelle sue Metamorfosi (Lib. XV, v.165).
È un verso che esprime lo smarrimento quando la realtà diviene improvvisamente incomprensibile eppure ci sembra che ancora si esprima con parole il cui suono ci è famigliare. Ma non è così. Fra tutte, questa è la condizione più incerta, perché priva di domani e calata in un presente senza identità.
                                                                          David Bidussa
Maestri del pensiero irrilevante
Si può partire da ottime premesse per arrivare a risultati di una sconcertante banalità. Se non completamente scadenti. Il dibattito pubblico, in Italia, è stabilmente occupato da un ceto di conversatori di professione, composto perlopiù da persone, in sé spesso dignitosissime, che tuttavia si vedono destinate a sfilacciare la propria immagine a seguito dell’inflazione dei loro stessi discorsi. I quali si esercitano un po’ su tutto lo scibile umano.
                                                                          Claudio Vercelli
Leggi
Pagine Ebraiche 24, l'Unione Informa e Bokertov sono pubblicazioni edite dall'Unione delle Comunità Ebraiche Italiane. L'UCEI sviluppa mezzi di comunicazione che incoraggiano la conoscenza e il confronto delle realtà ebraiche. Gli articoli e i commenti pubblicati, a meno che non sia espressamente indicato il contrario, non possono essere intesi come una presa di posizione ufficiale, ma solo come la autonoma espressione delle persone che li firmano e che si sono rese gratuitamente disponibili. Le testate giornalistiche non sono il luogo idoneo per la definizione della Legge ebraica, ma costituiscono uno strumento di conoscenza di diverse problematiche e di diverse sensibilità. L’Assemblea dei rabbini italiani e i suoi singoli componenti sono gli unici titolati a esprimere risoluzioni normative ufficialmente riconosciute. Gli utenti che fossero interessati a offrire un proprio contributo possono rivolgersi all'indirizzo comunicazione@ucei.it Avete ricevuto questo messaggio perché avete trasmesso a Ucei l'autorizzazione a comunicare con voi. Se non desiderate ricevere ulteriori comunicazioni o se volete comunicare un nuovo indirizzo e-mail, scrivete a: comunicazione@ucei.it indicando nell'oggetto del messaggio "cancella" o "modifica". © UCEI - Tutti i diritti riservati - I testi possono essere riprodotti solo dopo aver ottenuto l'autorizzazione scritta della Direzione. l'Unione informa - notiziario quotidiano dell'ebraismo italiano - Reg. Tribunale di Roma 199/2009 - direttore responsabile: Guido Vitale.
Twitter
Facebook
Website